Cos’è la Convenzione di Istanbul e perché il ritiro unilaterale da parte della stessa Turchia è agghiacciante? La convenzione di Istanbul è “la convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. È stata adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011, aperta alla firma l’11 ed è entrata in vigore dopo le prime 10 ratifiche. La ratifica è arrivata finora da 34 Stati, che ora sono giuridicamente vincolati dalle sue disposizioni.
Nel
novembre 2019, il parlamento dell’Unione europea ha adottato una
risoluzione, con 500 voti favorevoli, 91 contrari e 50 astensioni, in cui
ha invitato, tramite il Consiglio europeo, i sette stati membri che
si erano limitati a firmarla senza ratificarla (Bulgaria, Repubblica ceca,
Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia, e Regno Unito) a farlo senza indugio.
La
Convenzione di Istanbul è stata definita come “il primo strumento
internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo
per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”. È incentrata sulla
prevenzione della violenza domestica, la protezione delle vittime e il
perseguimento dei trasgressori, si caratterizza così la violenza contro le
donne come una violazione dei diritti umani.
Si tratta
del primo trattato internazionale che contiene una definizione di genere
definendola, nell’articolo 3, come “ruoli, comportamenti, attività e attributi
socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per
donne e uomini”.
Per di
più, il trattato stabilisce una serie di delitti, legati alla violenza
contro le donne, che gli Stati dovrebbero includere nei loro codici penali: la
violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica, la violenza sessuale
(compreso lo stupro), il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali
femminili, l’aborto forzato e i crimini commessi in nome del cosiddetto “onore“.
La Turchia
era stata fra i primi undici firmatari originari, insieme all’Austria, la
Finlandia, la Germania, la Francia, la Grecia, l’Islanda, il Montenegro, il
Portogallo, la Slovacchia, la Svezia e il Lussemburgo. Poi, il 20
marzo, il presidente Recep Tayyp Erdogan ha annunciato lo scandaloso
ritiro affermando che le leggi turche sono già sufficienti a garantire la
protezione delle donne.
Viene
spontaneo chiedersi come commenterebbero quella decisione, se potessero parlare,
le sorelle, le madri e le amiche delle 300 donne che sono state uccise in
Turchia dell’inizio del 2020, 78 delle solo nei primi tre mesi del 2021.
Di fronte a
dati di una simile drammaticità, non possono inoltre non lasciare esterrefatti
le dichiarazioni di Sumeyye Erdogan, vicepresidente dell’associazione di donne
islamica “Kadem”. La figlia del tiranno turco sostiene che “la Convenzione di
Istanbul è stata un’importante iniziativa per combattere la violenza contro le
donne. Al punto in cui siamo arrivati, però, ha ormai perso la sua funzione
originaria e si è trasformata in una ragione di tensioni sociali. Consideriamo
la decisione del ritiro come una conseguenza di queste tensioni”. Ci vuole
davvero molto coraggio a dire cose del genere in un paese in cui, secondo i
dati raccolti dall’OMS e certo conosciuti dalla Erdogan, il 38 per cento delle
donne è stata o è vittima di violenza.
Non si
tratta, naturalmente, di un fulmine a ciel sereno: la politica di Erdogan non è
mai stata certo illuminata sulle tematiche di genere prima di questo nuovo atto
irresponsabile. Basti
pensare alle sue dichiarazioni del 2012 sull’aborto: “Uccidi un bambino
nel grembo materno o lo uccidi dopo la nascita. In molti casi, non c’è
differenza“. Oppure al suo intervento al vertice “Donne e giustizia” di
Istanbul della “Women and Democracy Association” del 2014: “La nostra
religione, [parlava dell’Islam] ha definito una posizione per
le donne: la maternità. Non si può spiegare ciò alle femministe perché
non accettano il concetto di maternità […]. Non si possono portare le
donne e gli uomini in posizioni uguali, è contro la natura perché la loro
natura è diversa”.
Non va certo
taciuto, poi, il fatto che Erdogan ha giustificato il ritiro dalla
convenzione accusandola di essere solo “il tentativo di un gruppo di persone di normalizzare
l’omosessualità, cosa incompatibile con i valori
sociali e familiari della Turchia”. Non poteva mancare un
violento attacco all’intera comunità LGBTIQ+, da sempre al centro della
politica discriminatoria del regime turco. Già il 17 giugno del 2016 il governo
di Ankara decise di non autorizzare il Gay Pride di Istanbul, “per
salvaguardare l’ordine pubblico”, anche in seguito alla pressione mediatica di
gruppi islamisti e ultranazionalisti, zoccolo duro dell’elettorato di Erdogan.
La polizia intervenne poi con proiettili di gomma e lacrimogeni cusando decine
di feriti quando, il 19 giugno, gli organizzatori dell’evento hanno deciso di
manifestare comunque.
Ad Ankara,
Istanbul e Smirne migliaia di persone sono scese in piazza chiedendo al governo di ritrattare
una decisione tanto abietta.
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