Congo: una zona grigia tra conflitti e silenzi - Alessandro Spinnato
Il 22 febbraio 2021, un convoglio del World Food Programme delle
Nazioni Unite è stato attaccato vicino a Goma, nell’est della Repubblica
Democratica del Congo (RDC). Nell’attacco hanno perso la vita l’ambasciatore
italiano Luca Attanasio, il carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci e un
autista congolese del WFP, Mustapha Milambo.
Time For Africa, un’organizzazione
no-profit che opera nel campo della cooperazione e solidarietà internazionale,
ha tenuto un webinar riguardo all’accaduto. L’obiettivo è quello di commemorare
le tre vittime e di focalizzare l’attenzione su ciò che avviene in Africa e, in
particolare, nella provincia del Kivu della RDC.
I conflitti in quest’area sono causati soprattutto dagli interessi
che le grandi multinazionali hanno nei confronti delle ricchezze e dei minerali
che si trovano nel sottosuolo congolese. Beni che dovrebbero essere una
benedizione, ma che, in realtà, sono diventati una maledizione per molte
persone. Uomini, donne e bambini sono infatti costretti a lavorare in
condizioni disumane per estrarre i materiali per conto di grandi imprese come
Microsoft, Apple e Sony.
Questo perché il sottosuolo congolese è ricco di giacimenti di
Coltan e di Cobalto. Si tratta di materiali fondamentali per le batterie degli
smartphone e per la fabbricazione di molti apparecchi elettronici. I cittadini
che vivono nella regione orientale del Paese sono spesso costretti ad
abbandonare le loro case e le loro terre, le quali vengono espropriate per
perseguire gli interessi economici dei colossi dell’elettronica. Questi ultimi,
come è stato riconosciuto anche dell’ONU, pagano e finanziano i gruppi ribelli,
che hanno il solo scopo di cacciare la gente per garantire l’assalto alle
immense ricchezze del sottosuolo.
Ciò che sta avvenendo nella RDC è un vero e proprio olocausto che
prosegue da più di vent’anni. A oggi si contano più di undici milioni di morti,
quarantotto stupri ogni ora e quarantamila bambini ridotti in schiavitù. I colpevoli sono da ricercare, oltre che nelle
grandi imprese del settore elettronico, nel mondo occidentale e, più
recentemente, anche in quello asiatico e arabo. Molti Paesi stranieri cercano
di interferire negli affari congolesi, come sta facendo negli ultimi anni la
Cina, interessata anch’essa ai preziosi minerali.
Il problema principale a livello globale è il fatto che la
comunità internazionale chiuda gli occhi di fronte alla situazione congolese.
Ci si dimentica e si considera conclusa una guerra che non è mai finita. Si
tratta infatti di una guerra congelata, di una zona grigia molto pericolosa in
cui ormai è naturale che gli scontri siano aperti, dato che colpiscono solo la
gente del luogo e il mondo occidentale pensa di esserne escluso. Inoltre,
sembra esserci un certo interesse a mantenere instabile e conflittuale questo
scenario, in modo da poter prender parte a traffici illeciti di materie prime
senza farsi notare e nascondendosi dietro la facciata della guerra.
La provincia del Kivu è sicuramente una delle zone più calde,.
Avvengono continui scontri tra i gruppi armati Tutsi, presumibilmente sostenuti
dal vicino governo ruandese, e le bande Hutu, che usufruiscono
del sostegno finanziario e logistico del Burundi. Il coinvolgimento più o
meno diretto dei due Paesi è motivato dalla volontà di destabilizzare la RDC
servendosi di milizie etniche per controllare i traffici illeciti di oro,
diamanti e minerali.
Inoltre, c’è un altro aspetto da tenere in considerazione. Il
comportamento di individualismo sfrenato, da parte dei giovani africani, volto
alla ricerca ossessiva della prosperità, che è frutto dell’ultramoderna
mentalità globalizzata. Quest’ultima ha cambiato il modo di pensare dei ragazzi
ed è stata una conseguenza del fatto che costoro si siano sentiti doppiamente
abbandonati. Dallo Stato e dalla comunità internazionale. Si sono quindi affermati
nuovi paradigmi sociali all’interno della popolazione. Il modello del giovane
aggressivo-competitivo e quello autoritario di libero mercato, il quale sta
riempiendo i cuori e le menti dei leader africani.
Stiamo assistendo dunque a una crisi della classe politica
congolese, incapace di presentare e portare avanti un progetto comune in cui i
cittadini possano credere e riconoscersi. I politici di oggi, purtroppo, non
danno la possibilità ai congolesi di poter sognare giorni migliori.
In conclusione, è necessario un cambio di rotta. Oltre che di un
progetto politico comune e condiviso, infatti, bisogna soprattutto lavorare
sulla diplomazia politica. Occorre mostrare e far sapere alla comunità
internazionale ciò che accade in Congo. C’è bisogno di politici capaci che
denuncino le barbarie e i crimini disumani che avvengono ogni giorno sul
territorio. Servono leader capaci di rompere il leitmotiv della classe politica attuale.
Come sostiene Guido Barbera, uno dei relatori del webinar e
presidente del CIPSI (Coordinamento di Iniziative
Popolari di Solidarietà Internazionali):
«Per dare un senso alla morte
di Luca, Vittorio e Mustapha e a queste tragedie, dobbiamo assumere la loro
eredità. Dobbiamo impegnarci insieme per completare ciò che loro non hanno
potuto fare, a causa della morte barbara e prematura. Dobbiamo diventare costruttori
di pace, giustizia e fraternità. Non possiamo continuare a stare tranquilli,
pensando che le guerre e le ingiustizie siano lontano da noi. Si deve avere la
forza di cambiare il mondo».
Metalli: in Italia dal 3 marzo
regole forti. Una giusta cura per i conflitti - Francesco Gesualdi
Il 3 marzo, in forza del decreto 13/2021, diventerà operativa
anche in Italia la legislazione europea che obbliga gli importatori di metalli,
con provenienza estrattiva da zone segnate da guerre o da altri tipi di
conflitti e di rischi, a vigilare sulle filiere di approvvigionamento in modo
da escludere qualsiasi connessione con i ‘signori della guerra’ e altri
soggetti colpevoli di violazione dei diritti umani.
I minerali in questione sono
stagno, tantalio, tungsteno, oro e ci riguardano molto da vicino perché sono di
uso comune. Molti di loro contribuiscono alla fabbricazione di cellulari,
computer e ogni altro dispositivo elettronico. Ed è un fatto che per il tramite
di 400 importatori, la Ue assorbe circa il 35% del commercio mondiale dei
quattro minerali in questione, collettivamente indicati con la sigla 3T& G.
Non c’è forse modo migliore, nel nostro Paese, per onorare la memoria e
l’impegno dell’ambasciatore Luca Attanasio ucciso, con chi accompagnava la sua
missione politica e umanitaria, in terra congolese.
Un po’di storia. Il primo Paese
ad avere imposto alle imprese importatrici di minerali e metalli l’obbligo di
vigilanza sulle filiere di approvvigionamento sono stati gli Stati Uniti, che
nel 2010 vararono il così detto Dodd Frank Act.
Constatato che i conflitti
presenti in Paesi come, appunto, Repubblica Democratica del Congo, ma anche la
gemella Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan del Sud, Ruanda,
Uganda, Zambia, Angola, Burundi, Tanzania, erano condotti da regimi e gruppi
armati che si finanziano con i proventi derivanti dalla vendita di minerali
estratti nei propri territori, non di rado col lavoro forzato spesso minorile,
si assunsero misure con lo scopo di interrompere il flusso di denaro che
alimenta i conflitti. Anche la società civile europea esercitò tutta la
pressione di cui era capace affinché nella Ue si arrivasse a un provvedimento
analogo, ma solo nel 2014 la Commissione europea redasse una prima bozza di
regolamento nella stessa direzione. Poi, ci vollero altri tre anni per
concludere l’iter legislativo e finalmente, nel 2017, il regolamento 821 venne
assunto congiuntamente da Parlamento e Consiglio europei. Pur rimandandone
l’attuazione al 1° gennaio 2021.
In ambito aziendale il concetto
di vigilanza è meglio conosciuto come due diligence, alla lettera ‘dovere di
diligenza’, anche traducibile come dovere di perizia, cura, controllo. Un
precetto dalla forte valenza morale che trova la sua applicazione nell’adozione
di una serie di misure organizzative tese a evitare il rischio di errori,
violazioni, omissioni.
Se rispetto a tematiche di carattere fiscale, contabile, tecnico,
la due diligence è
ormai pratica abbastanza diffusa, non è ancora così sviluppata nei confronti di
obiettivi sociali come la tutela dei diritti umani, della dignità del lavoro,
del benessere collettivo. Un ritardo preoccupante perché la due diligence è
universalmente riconosciuta come un pilastro della responsabilità sociale
d’impresa. Non a caso, assieme alla trasparenza e alla disponibilità a porre rimedio
alle violazioni, essa è nella strategia-chiave individuata dall’Onu per
ottenere il rispetto dei diritti umani in ambito produttivo.
Lo testimoniano i Guiding Principles on Business and Human Rights, le linee guida adottate nel giugno 2011 dal Consiglio
per i diritti umani dell’Onu. Nel caso dell’importazione di metalli e minerali
connessi con zone di guerra, la legislazione europea impone che la due diligence sia
condotta secondo le modalità previste dalle linee guida messe a punto
dall’Ocse. Esse chiedono che le imprese si dotino di un sistema organizzativo
interno capace di tracciare l’intero percorso seguito dai loro prodotti, di
conoscere tutti i passaggi di denaro avvenuti nella loro catene di acquisto, di
censire tutti gli attori intervenuti a qualsiasi titolo nelle loro filiere di
approvvigionamento (imprese estrattive, intermediari commerciali, fonderie,
imprese metallurgiche), di eseguire controlli sui fornitori e di sapere imporre
azioni correttive in caso di violazioni di qualsiasi genere. Inoltre l’Ocse
chiede alle imprese di sottomettersi periodicamente all’azione i- spettiva di
soggetti esterni oltre che di redigere rigorosi e completi rapporti annuali.
Varie testimonianze rivelano che in alcune aree minerarie
dell’Africa persistono situazioni di violenza e di guerra, in particolare nella
regione dei Grandi Laghi, che interessa la Repubblica Democratica del Congo, il
Burundi, il Ruanda e l’Uganda. Ma un rapporto redatto nel 2020 dal Gao, il
centro studi che compie ricerche per il Congresso degli Stati Uniti, certifica
che dal 2008 al 2014 nella zona dei Grandi Laghi si è registrata una riduzione
significativa di violenza sessuale, evento sempre collegato a una minore
intensità di conflitti armati. Lo stesso periodo è stato anche quello in cui
negli Usa si è avuto il maggior numero di imprese che hanno aderito agli
obblighi imposti dal Dodd Frank Act. Segno di quanto le imprese possano essere determinanti per il
superamento dei conflitti se scelgono la via della responsabilità, della cura e
della trasparenza.
Ma come consumatori possiamo giocare anche noi la nostra parte.
Seguendo, magari, l’esempio delle 23 guide escursionistiche di Domodossola (‘Avvenire’, 24
febbraio 2021 lettera con risposta del direttore) che hanno scritto a Garmin,
la principale compagnia produttrice di strumenti Gps, per sollecitarla a
verificare la provenienza dei minerali incorporati nei suoi prodotti,
altrettanto possiamo fare noi verso i produttori dei nostri telefonini. Se gli
importatori di minerali devono rispondere oltre che alla legge anche a una
pressione ‘dal basso’ hanno una ragione di più per comportarsi correttamente.
La responsabilità, da qualsiasi parte si attivi, porta sempre buoni frutti.
(pubblicato sul quotidiano
“Avvenire” de 28 febbraio)
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