«Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta». L’infelice
battuta del discorso con cui il banchiere centrale prova a indossare i panni di
capo di un governo verde conferma l’ovvio: tutto si misura sul metro
economico-finanziario. Per capire se, alla prova dei fatti, questo governo andrà
più a destra o più a sinistra, bisognerà seguire i soldi. In particolare,
quella riforma fiscale che, sono ancora parole di Draghi, «segna in ogni Paese
un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è
l’architrave della politica di bilancio». In realtà, indica molto di più:
indica il tasso reale di democrazia e di giustizia di una società. E proprio
mentre Draghi parlava, arrivava nelle librerie un metro lucidissimo su cui
misurare la riforma fiscale che verrà: il libro che il costituzionalista
Francesco Pallante ha dedicato all’Elogio delle tasse (Edizioni
Gruppo Abele, 14 euro).
Sfidando un cumulo di luoghi comuni, e decostruendo il fumo dei programmi
politici attraverso una nuda analisi della realtà, Pallante verifica la distanza
che corre tra il progetto costituzionale di un fisco progressivo e il suo
incessante smantellamento.
A volerlo progressivo, ricorda Pallante, non erano stati i comunisti, ma i
liberali. In un appassionante esame delle Lezioni di politica sociale tenute
da Luigi Einaudi agli studenti rifugiatisi in Svizzera nel 1944, Pallante
mostra il futuro presidente della Repubblica che «invitava il suo uditorio a
riflettere sul diverso valore che assumevano le medesime dieci lire se usate
per acquistare un piatto di minestra o per assicurarsi un posto a teatro. […]
Dunque, a chi non ha problemi a procurarsi il pane l’erario può richiedere un
sacrificio maggiore e, al crescere del reddito o del patrimonio, domandare una
più elevata percentuale di risorse da versare al fisco. È, questo, il nucleo
essenziale della progressività fiscale, il principio a cui sono ispirati i
sistemi tributari contemporanei». A dare forma concreta a queste idee, fu un
altro liberale, Bruno Visentini: disegnando (nel decreto istitutivo dell’Irpef,
1973) un fisco a ben 32 scaglioni, aderente alla «volontà di calibrare con la
massima attenzione l’intervento dello Stato sulle risorse dei cittadini,
distinguendo le singole posizioni concrete di ciascuno sin quasi nelle
sfumature. L’ideale di riferimento era senz’altro quello dell’uguaglianza in
senso sostanziale».
Il cammino inverso iniziò nemmeno dieci anni dopo: nel 1982 «l’aliquota più
bassa, valevole per i redditi fino a undici milioni di lire, salì al 18 per
cento, mentre quella più elevata, per i redditi superiori a cinquecento
milioni, scese al 65 per cento. Nel 1989 quella superiore, per i redditi oltre
i trecento milioni, crollò al 50 per cento. È in esito a questo percorso che
Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nel primo governo dell’Ulivo, assestò,
nel 1997, il colpo – per ora – finale alla progressività fiscale, limitando gli
scaglioni dell’Irpef ad appena cinque».
Nel suo discorso, Draghi ha citato come ottimo esempio la riforma
Visentini, ma subito dopo ha anche menzionato la riforma fiscale della
Danimarca, in cui «l’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva
ridotta». Come dire: saremo bravi come Visentini, ma non alzeremo le tasse dei
ricchi. Un’esegesi confermata dal passaggio in cui Draghi annuncia che la riforma
sarà fatta «preservando la progressività»: visto che oggi la progressività di
fatto non c’è più, significa che in realtà non si vuol tornare a Visentini,
Einaudi e alla Costituzione. A quell’idea di giustizia ed eguaglianza che
spinge Francesco Pallante a un trascinante “elogio delle tasse”.
Post scriptum
Il giorno stesso che questo mio articolo è uscito sul Fatto
Quotidiano, il blog di Carlo Clericetti sul sito di Repubblica (https://clericetti.blogautore.repubblica.it/2021/02/18/si-scrive-draghi-si-pronuncia-giavazzi/) ha svelato che
pressoché tutta la parte del discorso di Draghi sulla riforma fiscale era presa
di peso (col taglia e incolla) da un articolo di Francesco Giavazzi uscito il
30 giugno scorso sul Corriere della sera. È una notizia clamorosa:
ed è ancor più clamoroso che la stessa Repubblica non l’abbia
data nelle sue pagine a stampa. Io, per esempio, me ne sono accorto solo oggi: e
solo perché il Fatto Quotidiano ha rilanciato la notizia in
prima pagina. Immaginiamo se a esser beccato con le mani nella marmellata del
plagio fosse stato Conte, o un ministro grillino: apriti cielo, ci sarebbe
stato il (giusto) scandalo che oggi (ingiustamente) non c’è. E invece oggi
tutti tacciono sul messianico Draghi che copia il suo discorso di investitura
come uno studente negligente e sprovveduto. O, il che è forse perfino peggio,
che si fa scrivere il discorso da uno staff drammaticamente inadeguato.
Ma in che mani siamo? Oltre a squarciare per l’ennesima volta il velo sulla
mancanza di professionalità e sul servilismo della grande stampa italiana,
questo surreale episodio aiuta a vedere due cose, peraltro già ben chiare. La
prima è che Draghi non è affatto il “keynesiano di ritorno”, il riscoperto
allievo di Caffè, che molti dei suoi agiografi stanno cercando di spacciare:
rimane un liberista a dentatura tutta intera, come dimostra l’adesione (invero
letterale) al verbo di uno dei rappresentanti di punta dell’ultraliberismo
nostrano. La seconda è che Draghi non è affatto un marziano, un messia
angelico, una figura di “alto profilo”. È, invece, un rappresentante di punta
di una classe dirigente smandrappatissima, inadeguata, bollita, perenta. Del resto,
la scelta dei ministri lo diceva già, a gran voce: accanto all’impressionante
serraglio dei politici, i tecnici non sono da meno. Una galleria di notabili
ormai maturi (alcuni sulla via del disarmo) che hanno già fatto tutti i danni
che potevano fare, plasmando l’Italia e il mondo come sono. Altro che dream
team, altro che marziani: è l’establishment che torna sul luogo
del delitto. E che establishment. Aver ben chiaro questo punto
serve a ricordarci perché crediamo nella democrazia, e non nella oligarchia dei
sedicenti migliori.
Negli stessi giorni, gli inqualificabili insulti sessisti di un professore
universitario fiorentino contro Giorgia Meloni si accompagnavano, nella
medesima intervista radiofonica, alla convinzione che parlamentari ignoranti, e
che «si esprimono come pesciaioli», non dovrebbero permettersi nemmeno di
rivolgersi «a uno come Draghi». Riuscire ad attaccare la Meloni da destra è
davvero un’impresa, la stessa che i grandi giornali “progressisti” hanno
compiuto per anni contro i parlamentari grillini. Il regime dei migliori,
l’aristocrazia, non è mai la via d’uscita per la crisi della democrazia. Per
mille ragioni più importanti, ma anche perché i cosiddetti migliori non lo sono
mai.
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