Troppo bella per essere umana - Linda
Bergamo
Sono nata
nella Repubblica Democratica del Congo, a Kinshasa, che è la capitale. Quando
avevo 7 anni, è morto mio padre. I soldi mancavano sempre a casa, ce la
cavavamo a stento grazie a lui e al suo lavoro giornaliero. Abbiamo fatto un
funerale, c’erano tante persone in quella chiesa non molto grande. Andavamo
spesso nella Chiesa del Risveglio, il pastore parlava dell’Apocalisse e di come
i buoni sarebbero stati salvati da Dio. Dio era la risposta a tutto, qualsiasi
cosa succede per volontà di Dio.
Il pastore
ha indicato me, in mezzo alla folla, come strega responsabile della malasorte
di mio padre. Ero io a portare il malocchio alla famiglia. Ero troppo bella per
essere soltanto umana. Durante la notte mi trasformavo in una donna bellissima,
incantavo gli uomini, rubavo loro l’anima. Potevo far sparire il loro pene o
decidere della loro impotenza. Ero una sirena.
Nascosto,
mistico, parallelo al mondo in cui viviamo e che vediamo coi nostri occhi c’è
quello che chiamiamo il Secondo Mondo. È popolato di spiriti, sirene, uomini-leopardo,
zombie che sono responsabili delle sfortune della gente, delle malattie, della
morte, della povertà. Il pastore in chiesa parla della potenza del mondo
occulto, è la stregoneria che regola e influenza i nostri rapporti sociali.
Il dito
puntato su di me. Strega tra i presenti, maleficio del secondo mondo, dovevo
essere guarita. L’orrore negli occhi di mia madre. Il fiato sospeso dei miei
fratelli. Il disprezzo negli occhi dei miei nonni. Il silenzio.
Il pastore
ha sentenziato la mia condanna, e poi ha proposto a mia madre l’esorcismo. La
cura. Per la somma di 10mila franchi, sarei stata purificata dal male che era
in me.
Mi hanno
tenuta in una stanza buia per tre settimane. Non ho visto la luce. Mi hanno
lasciata senza cibo finché non sono svenuta, per purificare il mio corpo,
dicevano. Mi hanno spruzzato l’acqua salata negli occhi. Avevo solo sette anni,
urlavo, piangevo, spiegavo che non ero una sirena, non avevo fatto niente.
C’erano dei
momenti di terapia collettiva, per esempio il pastore ci chiamava alla
preghiera a mezzanotte, perché è a quest’ora che si svegliano gli spiriti.
Abbiamo fatto anche delle sedute private, il pastore mi faceva delle domande
sui miei poteri, ricostruiva la storia delle sventure della mia famiglia e del
mio ruolo distruttore. Sono stata torturata fino a confessare. Anzi, fino a
crederci davvero.
La terapia
della liberazione è finita.
Ma la
porta di casa è chiusa. Non mi vogliono. Hanno troppa paura di me. I vicini li
hanno messi in guardia, mi hanno vista vestita come una donna matura affamata
di uomini.
A Kinshasa
ci sono tanti bambini per strada. Quando andavamo in giro mia madre mi impediva
di parlarci, erano sporchi e pericolosi. Li chiamavamo “monaci” o “shege“.
Sono abitati dagli spiriti: rubano, uccidono e poi mangiano le loro vittime.
A otto anni sono entrata in una casa in cui c’erano già altre bambine e
ragazze di strada. Mi hanno accolta, e mi hanno spiegato come guadagnare dei
soldi con gli uomini. Le ragazze più grandi spiegano alle più piccole come
fare, dove andare, dove trovare i clienti che pagano meglio.
Sono stata
in strada per tanto tempo, all’inizio mi prostituivo da sola. Un cliente si
avvicinava, parlavamo rapidamente del prezzo, della prestazione e poi andavamo
in un hotel pagato da lui, o nei posti che conoscevo. La concorrenza è feroce,
siamo tante e i prezzi sono bassi. Guadagnavo quanto bastava per mangiare e
comprare altri vestiti. Vivevo con le altre bambine, ascoltavamo la musica di
giovani un po’ più grandi di noi che avevano avuto successo.
Poi un
giorno, un uomo che veniva regolarmente mi ha proposto di lavorare per lui.
Aveva un giro di clienti, teneva una specie di agenda coi numeri di telefono. Organizzava lui gli incontri,
spesso avvenivano in un bar, e si teneva il 60% del totale. Guadagnavo comunque
di più che da sola e in strada.
Gli affari
andavano bene per Jean Michel, non ero la sola con cui “collaborava“. Ha
deciso che avrei potuto ambire ancora di più, all’Europa. Ha organizzato un
viaggio per la Turchia, eravamo in quattro ragazze. Mi ha fatto giurare di
rimborsare un debito di 8000 euro in un anno. Avevo quindici anni, nessuna famiglia da cui
tornare, nessun parente che mi accettasse, nessun legame, solo gli spiriti
nella testa che mi guidavano nel rapporto con gli uomini.
Sono
arrivata in Turchia. Li’ ho incontrato Jolie. Era lei a fare da tramite tra noi
e Jean Michel a Kinshasa. L’impatto con la violenza nella prostituzione che ho
vissuto ad Ankara è stato uno shock. Ero sorvegliata, gli scagnozzi di Jolie mi
picchiavano, i clienti mi trattavano con disprezzo. Non capivo la lingua,
negoziavo il prezzo della prestazione, mi davano meno della metà, perché
sapevano che ero straniera e non capivo quello che dicevano. E ancora botte
perché non guadagnavo abbastanza. E i furti. Jolie mi ha spiegato come fare,
cosa dire, come contrattare. Tra Ankara e Istanbul, ho resistito otto mesi.
Sono
scappata in Grecia, mi ha aiutato un trafficante che ho pagato ottocento euro,
faticosamente messi da parte, nascosti, complici della mia fuga su uno zodiac
di notte. Sono arrivata a Moria. Tra i trafficanti di passaporti falsi e i
trafficanti di droga, e i trafficanti di donne e uomini disperati.
Ricordo
ancora una donna incinta che mi guarda, che ci guarda, dalla porta. Anche lei
si prostituiva, la vedevo ogni tanto nella sala delle donne. Noi eravamo nella
sala dei bambini. Della prostituzione dei minori. Ci guardava con un misto di
orrore, sconforto, pena, paura. Forse pensava al suo bambino nella pancia, se
anche lui un giorno sarebbe finito qui tra noi.
Ho 22 anni e
sono a Grenoble da uno. Ho abitato con una coppia di congolesi qualche mese, ma
le cose si sono complicate quando l’uomo di casa mi ha messo gli occhi addosso.
La moglie mi
ha buttato fuori: sirena, strega, incantatrice. Non posso farci niente. Ho uno
spirito nella testa che mi guida da sempre, da quando sono stata nella Chiesa
del Risveglio per l’esorcismo. Ho provato a smettere la prostituzione. Ci penso
spesso, soprattutto quando i clienti mi picchiano, mi trattano come un oggetto,
arrivano gentili per ottenere un trattamento di favore e mi sputano addosso
quando ripartono, “puttana“.
Faccio la
prostituta da quando avevo otto anni. Non conosco nient’altro che questo. Lo
spirito è li per ricordarmelo ogni giorno.
La storia di
Ryta potrebbe essere quella di migliaia di altri bambini di Kinshasa e altre
città della Repubblica Democratica del Congo.
Accusare i
bambini, femmine e maschi, di stregoneria è un fenomeno molto recente le cui
origini sono da cercare nel cambiamento sociale, economico e politico di
un’Africa che vive un momento di transizione, di frenetica richiesta di
modernità. Il paesaggio
urbano cambia, ma anche le gerarchie sociali: i bambini partecipano al commercio
dei diamanti, all’esercito, le bambine guadagnano con la prostituzione,
padroneggiano lo spazio mediatico, mentre i capofamiglia sono spesso
disoccupati. Un cambiamento che va di pari passo con l’evoluzione dello stato
post-coloniale e della mondializzazione: le tensioni tra modernità e tradizione
trovano una sorta di ragione nella magia.
Tutto cambia
molto velocemente, tra crisi economica e frattura generazionale, e le
cosiddette Chiese del Risveglio l’hanno capito, e ne approfittano. Non solo contribuiscono
alla definizione del “secondo mondo“, alimentando l’immaginario
collettivo, ma si prestano a una dinamica particolare: le famiglie che non
riescono a mantenere diversi figli, le matrigne o i patrigni che vogliono
sbarazzarsi del figlio avuto dal partner con la precedente moglie o marito
ingaggiano il pastore per accusare pubblicamente di stregoneria il figlio di
cui liberarsi. Le
chiese del risveglio, dal canto loro, raccontano la stregoneria, accusano, e
poi propongono la cura, l’esorcismo, a pagamento. È un business. È una truffa.
Ryta
racconta che lo sfruttamento e la violenza sessuale sono ovunque, in famiglia,
in strada. In Congo, la prostituzione delle ragazze e delle bambine è un
fenomeno diffuso che trascende le classi sociali. L’entrata in prostituzione è
stimata all’età di 6 anni.
Linda
Bergamo fa parte della redazione Community di Melting
Pot e collabora con Comune
Essere creduta… - Alessandra Ballerini
Ci eravamo
scritte tramite altre donne che a vario titolo l’hanno accolta e si prendono
cura di lei. Mi hanno fatto male quasi tutte le sue parole. Avevo tante cose da
chiederle e lei a me. Cosi ci siamo incontrate: ero un po’ inquieta mentre
l’aspettavo, sono purtroppo abituata a confrontarmi con la sofferenza
ma la sua temevo sarebbe stata devastante.
Appena
entrata ho ammirato le sue lunghissime trecce blu, ho sorriso istintivamente e mi
sono rilassata. Ho voluto credere che se aveva ancora la voglia di concedersi
un po’ di colore forse non erano riusciti a spezzarla.
Non c’erano
riusciti i genitori che l’avevano ceduta da infante ad una signora che l’aveva
ridotta in schiavitù. Aveva
sofferto la fatica, la fame, le botte e persino le ustioni, era stata ferita,
piegata, ma non l’avevano spezzata. Neppure l’uomo che violando i suoi
tredici anni aveva iniziato ad abusare di lei sessualmente, era riuscito a
spegnerla. Lei è rimasta viva e vitale tanto da reagire mentre veniva violata e
colpire il suo aguzzino con una bottiglia. Resta viva anche quando la vogliono
arrestare e deve iniziare a scappare. Non si spezza neppure quando scopre che
le persone che si sono offerte di aiutarla per fuggire sono uguali all’uomo che
la abusava.
Non la
spezzano gli stupri e né i successivi nove anni in Libia dove viene costretta a
suon di botte a prostituirsi. Non la uccidono gli uomini che la usano, né la
“cannuccia” che le infilavano tra le gambe una, due, sei volte per costringerla
ad abortire ogni volta che restava incinta. Non l’uccide l’infezione
contratta nell’ultimo aborto prima di prendere la barca né il dolore di vedere
la sua amica inghiottita tra le onde.
Neppure il
rapimento in Italia da parte della sorella del trafficante al quale doveva
ancora “saldare il debito”, le successive violenze, o il disgusto per i nuovi
clienti sono mai riusciti a romperla completamente. Una parte di lei resta
incredibilmente intatta e si colora.
Ora è seduta
di fronte a me e mette insieme tutto il male che ha subito, le ferite del corpo
e dell’anima che dovremmo fare refertare: “Sì il mio corpo ha segni: ho delle
cicatrici sull’addome per le violenze patite quando ero bambina a casa della
signora che mi ospitava: mi tagliava la pancia con un un oggetto simile a un
coltello”, si alza la maglia per farmi vedere i tagli che le attraversano
l’addome. “Sulle gambe ho segni di bruciature perché questa signora quando
avevo sei anni mi faceva cucinare e mi torturava facendomi tenere in mano
pentole pesantissime colme di acqua bollente che regolarmente mi cadevano sulle
gambe ustionandomi”. Inghiottisce e si ferma a pensare: “Ho subito molte altre
violenze ma non si vedono più i segni”.
Le dico che
mi spiace tanto per tutto quello che ha dovuto sopportare fino a poche
settimane fa e che spero che da adesso in poi il male resterà alle sue
spalle. Vorrei anche dirle che finora ha conosciuto solo l’abisso di
cui sono capaci gli uomini ma esiste anche altro e che forse lo sta già
iniziando a sperimentare tra queste donne che si prendono cura di lei, ma il
nodo in gola mi impedisce di formulare altre parole. Mi aggrappo con lo
sguardo al blu delle sue trecce.
Rompe lei il
silenzio “Non riesco a dimenticarmi tutto quello che ho subito, è come se
quest’incubo non finisse mai perché sopraggiungono alla mente ricordi e
immagini… Spero di riuscire a dimenticare ma poi risento sempre dolore e
sofferenza e ricomincio a stare male”. Alla vigilia del’8 marzo la sua
educatrice mi scrive festosa informandomi che le è stata finalmente
riconosciuta la protezione da parte della commissione. Non l’ho mai vista così
felice, aggiunge. Essere creduta e ricevere protezione sono l’abc della
felicità. E la felicità oggi è blu.
Donne sempre in rinascita - Paola Fabiani
I finanziamenti
e il sistema di assegnazione annuale degli appalti per i centri antiviolenza
sono sufficienti e funzionali per il tipo di servizio? È una domanda che le
addette ai lavori spesso rivolgono alle istituzioni che si occupano dei
finanziamenti e degli appalti, ma considerata la situazione generale, è una
domanda che non trova ancora riscontro. Gli appalti per la gestione dei
centri antiviolenza continuano ad essere, per la maggior parte dei casi, di
durata annuale e con finanziamenti poco adeguati.
Alcune casi
locali in materia sono molto significativi.
È trascorso
un anno da quando Marinella Mariotti, responsabile del centro antiviolenza “Le
tre lune” di Setteville di Guidonia (Roma) ha redatto l’ultima
relazione della sua attività del centro e i numeri fanno impressione: in un
anno ben oltre ottanta donne si sono rivolte al centro “le tre lune”, ma per
l’appalto ormai giunto al termine, il Comune sta preparando una nuova gara per
l’assegnazione del servizio. Le donne che si sono rivolte al centro fino a quel
momento si pongono l’interrogativo di quando e da chi verranno accolte e per
quanto tempo.
Dopo un
“vuoto” di circa un mese il lavoro del centro antiviolenza riprende grazie alla
cooperativa Il Girotondo di Velletri che si aggiudica l’appalto e inizia il
servizio a fine marzo 2020. La cooperativa ha esperienza in questo ambito
avendo la gestione di altri due centri antiviolenza, uno ad Ariccia e uno a
Rocca Priora. Anche il centro ha cambiato nome e ora si chiama Gea che
si riferisce alla dea della Terra ma anche in omaggio ad una loro collega che è
venuta a mancare.
La responsabile
del centro, Camilla Annibaldi, riferisce che il lavoro svolto dal centro
antiviolenza da marzo dello scorso anno è stato complicato per alcuni aspetti
derivanti dagli obblighi di confinamento a casa delle famiglie e dalle modalità
di lavoro che ha dovuto fare più affidamento alla tecnologia che agli incontri
di persona. Ma poi il suo tono di voce sembra riprendere energia e aggiunge: “Un
anno difficile, ma anche ricco di buone sinergie. Il confinamento a
casa dei mesi scorsi può aver acuito alcune situazioni di violenza ma non ha
spezzato il desiderio di rinascita delle donne vittime di violenza, donne
più consapevoli che riescono a dire con decisione ‘io con quello un’altra
quarantena non la faccio’“.
È invece il
sistema dei bandi con assegnazioni annuali che può spezzare l’evoluzione di un
percorso, un sistema
di appalti che non è funzionale per questo tipo di servizio che si trova dopo
dodici mesi a tessere nuovamente i rapporti istituzionali, a garantire
nuovamente fiducia alle donne che sono sostenute dal centro e molto altro.
Sta volgendo
ormai al termine anche il mandato della cooperativa Il Girotondo. Infatti a
breve dovrebbe avere termine l’appalto e il servizio verrà messo di nuovo a
bando. Per Giulia, Roberta, Michela (nomi di fantasia) e tutte le altre
donne che si sono rivolte al centro in questi mesi è il momento di cambiare,
ancora una volta, le persone a cui dovranno rivolgersi per proseguire il
proprio percorso.
Ricorrendo
ad un anglicismo, forse, si potrebbe avere più chiaro il senso e l’obiettivo
del lavoro svolto in un centro antiviolenza. ‘To cure’ e ‘to care’ sono due
verbi inglesi che foneticamente e graficamente sono molto simili, ma traducendo
il loro significato in italiano la differenza è sostanziale: “to cure”,
significa curare, mentre “to care” prendersi cura, preoccuparsi per. Un lavoro
quest’ultimo che richiede tempo e attenzione, continuità e fiducia.
Il lavoro
del centro antiviolenza non si basa sulla cura ma si basa sulla fiducia e ha
come oggetto l’intimità e la vita della donna che si rivolge al centro, e già
solo per questo, non meriterebbe un’attenzione e una cura diversa? Le istituzioni, si rendono
conto che si frammenta il lavoro dei centri antiviolenza con appalti annuali e
brevi proroghe per coprire l’attesa del nuovo bando?
A queste
domande sembra difficile avere risposte univoche a livello nazionale, ma si
spera che possano sollecitare un dibattito e soluzioni concrete, ricordando
alle istituzioni che anche il rapporto del Grevio pubblicato il 13 gennaio 2020 esorta ad
elaborare soluzioni che permettano di fornire una risposta coordinata e
interistituzionale alla violenza, ma soprattutto evidenzia che si
dovrebbero stanziare finanziamenti adeguati. Altro annoso
problema…. Insomma, mettere a disposizione qualche migliaia di euro, senza
garanzia di una continuità di tempo per la piena realizzazione delle attività,
non può essere considerata la modalità da prediligere per un centro
antiviolenza.
La guerra di Erdogan contro le donne - Marina Mastroluca
E alla fine lo ha fatto davvero. Il governo turco
ha annunciato il ritiro dalla Convenzione
di Istanbul contro la violenza sulle donne, un accordo di cui la
Turchia era stata prima firmataria nel 2011, dando agio a Recep Tayyp Erdogan di
vantare una larghezza di vedute sulle condizione femminile sempre più
misconosciuta nei fatti. Era tempo che se ne parlava nelle stanze della
politica, mentre le piazze si riempivano della protesta delle donne, come sta
accadendo in queste ore in tutto il Paese. Femministe
alla sbarra e sconti di pena per gli assassini, la Turchia
fanalino di coda nel ranking internazionale sulle disuguaglianze di genere:
130esima su 149 nella classifica del World economic forum. Erdogan ha
sacrificato le donne alla sua idea di potere e società tradizionale, da ultimo
sposando le tesi dei gruppi
islamici più conservatori nel momento in cui la sua autorità
vacilla sotto il peso di un’economia sull’orlo del baratro e si teme ad ore un
tracollo della lira alla riapertura dei mercati, dopo la sostituzione del terzo
governatore della Banca centrale. Parlare d’altro, in questo momento, è
comunque meglio.
Femminicidi non registrati
Nessuna statistica, nessun conteggio
ufficiale. Delle donne uccise, da mariti, fidanzati, parenti o pretendenti, non
resta traccia, finiscono genericamente tra i casi di morte violenta, senza note
a margine mentre nei tribunali torna a risuonare la parola onore, per derubricare un
femminicidio a reato minore. Secondo la piattaforma turca “Fermiamo i
femminicidi” solo nel 2020 ci sono state 300
donne uccise e 171 casi sospetti: troppe morti vengono
classificate come suicidi, quando non come banali incidenti: un fucile
inceppato, una caduta. Una corda al collo, un volo dalla finestra. La bilancia
della giustizia pende dalla parte dell’uomo che uccide, perché si è sentito
respinto, disonorato, “offeso nella propria mascolinità”.
La Convenzione di Istanbul non si è mai
tradotta in Turchia in politiche di prevenzione, ma uscirne è comunque un
gigantesco passo indietro, tanto più se ispirato da presunte motivazioni
religiose. Gli ambienti più conservatori dell’Akp, il partito di Erdogan,
sostengono che l’accordo sarebbe in contrasto con i principi
dell’islam, minerebbe la solidità della famiglia e favorirebbe
l’omosessualità. Il richiamo, espresso esplicitamente dal vicepresidente turco,
Fiat Oktay, è alla necessità di «elevare la dignità delle donne turche»
prendendo ispirazione «nelle nostre tradizioni e nei nostri costumi»: non
dunque in un accordo internazionale che sancisce la parità
dei generi.
Occhi bassi e ventri pieni
Le tradizioni sono quelle che vengono
ribadite ad ogni occasione. Perché la guerra di Erdogan contro le donne è
cominciata ben prima di quest’ultima sciagurata decisione. Dal suo governo è
stato un continuo stillicidio. Ministri che hanno affermato che la
disoccupazione è colpa delle donne che pretendono di lavorare (l’occupazione femminile
è appena al 34% e, inutile dirlo, in ambiti informali o comunque sottopagati) o
che le donne non dovrebbero ridere troppo forte quando sono in pubblico. Occhi
bassi e ventri pieni. Erdogan ha paragonato la contraccezione al
tradimento, ha affermato che ogni donna turca dovrebbe mettere al mondo almeno tre figli, ha fatto di tutto per
rendere l’aborto un diritto solo sulla carta. “Una donna non può essere
trattata come un uomo”, sono sue parole. In un G20 del 2019 ha detto che avrebbe
promosso università solo per donne, perché si concentrino meglio sugli studi,
quando in Turchia come altrove nel mondo il successo scolastico vede una netta
supremazia femminile: per le associazioni femministe il rischio della segregazione culturale è quello di
un’ulteriore marginalizzazione delle donne.
Segnali che nella società turca sono
risuonati come tanti via libera a violenze e discriminazioni. Nei primi 65
giorni del 2021, complice anche la pandemia e i lockdown, ci sono state 65 vittime, una al giorno.
Ma autoritarismo e guerra alle donne non
sono prerogativa solo di Erdogan. Nell’Unione Europea, per l’ingresso nella
quale la Turchia resta ancora candidata, Polonia
e Ungheria hanno fatto del loro meglio per distinguersi in questa
attitudine. La prima ha minacciato di uscire dalla Convenzione di Istanbul, la
seconda non l’ha ratificata. Sarà il caso che da qualche parte qualcuno si
ricordi che i diritti delle donne sono diritti umani, inderogabili.
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