Repubblica Democratica del Congo senza pace: dalla Grande Guerra alle guerriglie del terrore - Antonella Sinopoli
Repubblica Democratica del Congo, un paese dove la parola pace è legata a
una sigla, MONUSCO, la Missione
delle Nazioni Unite che mira a portare stabilità in un’area dove
invece regna il caos. Si tratta di una delle più lunghe missioni al mondo di
questo genere, cominciata nel 1999 e ancora in corso. Perché la pace non c’è.
Perché la pace qui non vuol dire molto. Forse non vuol dire nulla. Soprattutto
in quel luogo lussureggiante e maledetto che è l’area orientale del paese. Quel
luogo lussureggiante e maledetto dove lunedì scorso – ai bordi del parco Virunga
- è stato ucciso l’ambasciatore italiano, Luca Attanasio. E con
lui il carabiniere e uomo di scorta, Vittorio Iacovacci e l’autista congolese,
Mustapha Milambo.
Tentativo di rapimento andato male? Azione dimostrativa? Ancora non è
chiaro. Quello che è chiaro è che in questa parte del mondo la violenza è sistematica. Sono oltre 130 i gruppi armati attivi nel Nord e Sud Kivu e nella
provincia dell’Ituri. Una rete complessa che rende complicata anche l’analisi
dei fattori che la caratterizzano e che a volte si intrecciano. Motivazioni
politiche, di controllo del territorio e dei suoi beni preziosi, odi fratricidi
e tribali, vecchie questioni perse nelle varie leadership. C’è una cosa che le
varie sigle condividono, la voglia di distruzione. Distruzione dei luoghi – il
parco del Virunga, i suoi gorilla e i ranger sono costantemente sotto attacco –
distruzione della dignità delle persone. Basta rileggere il discorso di Denis Mukwege, il ginecologo vincitore del Nobel per
la pace nel 2018: quelle storie di donne e bambini violentati e massacrati, per
capire il grado di orrore e di barbarie che circola nell’aria, che può
attendere ad ogni angolo, sostare dietro un semplice fruscio.
Ecco perché appare così assurdo – oggi a tragedia conclusa – che un
ambasciatore e un convoglio dell’ONU potessero viaggiare in quell’area senza
auto blindata, senza protezione e misure adeguate.
Attanasio e il suo staff avrebbero dovuto verificare un progetto del PAM (Programma alimentare mondiale) nel territorio
di Rutshuru. Una missione umanitaria, in un contesto che da tempo sembra aver
perso i limiti della ragione. Perché mentre sicurezza e pericoli sembrano
essere stati sottovalutati da chi è lì per occuparsene, la violenza continua a
crescere e così la paura.
Le popolazioni locali molte volte hanno denunciato l’incapacità dei caschi
blu di essere nel posto giusto al momento giusto, l’incapacità di proteggerli,
insomma. E a volte è andata anche peggio, quando sono stati gli stessi militari
ONU a essere accusati di nefandezze e violenze sessuali, anche nei confronti di bambini. E poi
accuse – rigettate dalle investigazioni interne – di fare affari
con gruppi ribelli. Singoli casi certo, che trovano terreno fertile in una
società compromessa e senza regole.
Ma cosa accadrebbe se gli oltre 18.000 caschi blu dall’oggi al domani
lasciassero quelle zone? Quali altre strade prenderebbe quella che da molti
osservatori è stata definita la “Grande Guerra dell’Africa”? Una guerra
che ha fatto già sei milioni di vittime, uccise dalle
violenze dei gruppi armati, ma anche da malattie e malnutrizione.
Le origini dei conflitti nella RDC risalgono al 1994 e al
genocidio del Rwanda. Sì perché una delle caratteristiche del paese è quella di
essere circondato da nazioni con forti crisi interne, per fermarci solo alla
parte nord-orientale: Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Uganda, Burundi,
Rwanda, appunto.
Quando le forze del Fronte patriottico ruandese guidato da Paul Kagame
entrarono nel paese ponendo fine a un massacro durato quasi tre mesi, gli hutu
genocidari si riversarono in massa oltre i confini. Pensavano che restare nel
loro paese, dove avevano fino al giorno prima massacrato a colpi di bastoni e
machete i propri vicini tutsi, li avrebbe condannati a morte.
Il Governo congolese non fu in grado da subito di contrastare quelli che -
una volta in salvo nel paese confinante – avevano cominciato a costituire
gruppi ribelli (e armati) che minacciavano stavolta la popolazione locale. Il
più rilevante rimane l’FDLR, Forze democratiche di liberazione del Rwanda. Nel
1996 nella RDC scoppiò il primo grande conflitto (la prima Grande Guerra d’Africa), il
secondo durò dal 1998 al 2003.
Nel frattempo, le forze in campo si sono moltiplicate, aggiungendo terrore
a terrore. Tra i gruppi armati i più attivi e pericolosi rimangono il CODECO
(Cooperativa per lo sviluppo del Congo), l’NDC-R (Nduma difesa del Congo,
considerato un alleato non ufficiale dell’esercito congolese), gruppi burundesi
ma anche l’ADF (Forze democratiche alleate) ugandese e di matrice jihadista.
Questo è un altro aspetto che ha aggiunto tensione nel paese e sconforto
tra gli analisti che non sembrano intravedere una via d’uscita in questo
marasma che vede intrecciati violenza e profitto. La Repubblica Democratica del
Congo è infatti uno dei paesi più ricchi al mondo. Uno “scandalo
geologico” come è stato definito. Nelle sue caverne, nei suoi anfratti
si nascondono i minerali di più alto valore: rame, diamanti, oro, piombo,
germanio, manganese, argento e il coltan, quel minerale indispensabile per
realizzare condensatori per smartphone, laptot e altri dispositivi elettronici.
Indispensabile sì, ma anche questo fonte di drammi per quegli schiavi, spesso
bambini, che lavorano nelle miniere estrattive. Dietro tutto questo le
multinazionali, ma sul fronte caldo uomini armati, spesso mediatori per
quotazioni che poi si svolgono in lussuose stanze d’albergo.
Lo scandalo vero è che in questo enorme paese, con una superficie
equivalente a quella dell’Europa occidentale, il 72% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Un dato che risale a
prima della pandemia che, insieme con l’ebola (2.200 morti in due anni proprio nelle zone del Nord e Sud
Kivu e Ituru) sta incidendo sulle condizioni già estremamente precarie di
comunità lontane dalla vita politica di Kinshasa, ma al centro di fuochi
incrociati delle varie milizie e delle forze governative (FARCD, Forze armate
congolesi) che di tanto in tanto riportano qualche successo sul terreno.
Un altro dato può aiutare a capire le condizioni di vita di popolazioni
così ai margini: solo il 23% delle famiglie che vivono nelle aree rurali ha
accesso a fonti di acqua potabile, e solo il 20% ai servizi sanitari (dati World Bank). In questi contesti di emarginazione e di bisogno la
violenza prospera.
Una sintesi accurata delle forze in campo, dei vari gruppi operanti sul
terreno e delle forme di conflitto in quello che viene da molti definito come
l’epitome di uno Stato al collasso, la fornisce l’UCDP, l’Università svedese
di Uppsala, che “contabilizza” le vittime dei conflitti nel mondo. Per tornare
all’attività jihadista su territorio congolese, secondo l’archivio di Uppsala
sono 6.300 le vittime civili dell’ADF dal 1996, anno di inizio delle attività.
Capo storico di questo gruppo era Jamil Mukulu, cattolico ugandese convertitosi
all’Islam. Un altro tassello nella complessità della rete dei gruppi criminali
operanti nel paese.
Tutto questo non si è placato con l’elezione di Félix
Tshisekedi diventato presidente nel gennaio 2019 dopo 18 anni di Governo guidato
dal padre-padrone Joseph Kabila. Ecco perché la visita del capo di Stato di
qualche settimana fa a Goma, capitale del Nord Kivu, è stata accolta da decine di
attivisti che a muso duro gli hanno chiesto di mantenere le promesse fatte in
campagna elettorale. Perché le cose, a dirla tutta, dall’elezione di Tshisekedi
sono rimaste inalterate, anzi se possibile peggiorate, come dimostrano i dati
del barometro della sicurezza del Kivu.
A questi dati va aggiunto un Rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nell’agosto 2020
secondo il quale sul territorio congolese il 43% delle violazioni dei diritti
umani è stato commesso da agenti dello Stato. Nel mirino non solo vittime
civili senza nessuna voce né autorità – quelle che tutti i giorni subiscono
atrocità da una parte e dall’altra, atrocità spesso neanche documentate – ma
attivisti, avvocati, giornalisti. La denuncia di Human Rights Watch è evidente. Da una serie di
interviste condotte tra gennaio 2020 e gennaio 2021 sono emersi almeno 109 casi
di arresti arbitrari. E non si contano le intimidazioni, le minacce, gli
attacchi fisici. In molti di questi casi responsabile è l’Agenzia nazionale di
intelligence. Ricordiamo che nel 2020 il World Press Freedom Index riportava la RDC tra i
trenta peggiori paesi al mondo per violazioni dei diritti di informazione e di
espressione.
Oggi la Repubblica Democratica del Congo conta 5.5 milioni di sfollati interni, quasi un milione di rifugiati sparsi
in almeno 20 nazioni, una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, migliaia di
civili uccisi (solo lo scorso anno almeno 2.000 nell’area orientale) migliaia
di donne e bambini violentati. Venticinque anni di violenze.
A questo scenario infernale si aggiunge la dolorosa immagine di un
ambasciatore e del carabiniere che lo scortava trascinati nella foresta,
colpiti a sangue freddo e lasciati morire senza pietà. Intanto la rassegna
stampa dei giornali locali, pubblicata su Radio Okapi, la Radio delle Nazioni Unite nata con la Missione
MONUSCO, riporta lo shock e lo sconcerto della politica nazionale. Dal
ministero dell’Interno il dito accusatorio è puntato sull’FDRL (il Fronte di
Liberazione del Rwanda), che dal canto suo smentisce queste accuse e chiede l’apertura di un’inchiesta indipendente
sull’accaduto. Ma ciò che colpisce è l’affermazione – riportata da un altro
media locale - secondo la quale i servizi di sicurezza interni non sapevano della presenza del convoglio ONU, non potevano
garantire nessuna misura specifica, né venire in aiuto del convoglio
(ricordiamo che sono stati i guardiani del Virunga a intervenire e mettere in
fuga gli assalitori). “Si tratta di una zona instabile, preda dell’attività
di gruppi armati ribelli nazionali e stranieri”. Sembra che la resa dei
conti tra lo Stato e le decine e decine di gruppi armati ribelli operanti
nell’est del paese assomigli, di fatto, a una resa.
Ambasciatori e droni italiani in Congo- Comidad
Una
delle scadenze più significative della società “occidentale” è il cosiddetto
“dibattito”, a cui ognuno a modo suo sente di dover partecipare; finché forse
un giorno non gli si svela l’orribile segreto, e cioè che di quello che dice, o
non dice, non gliene frega niente a nessuno. Il “dibattito” è infatti un
rituale che ha una sua viziosa circolarità: sembra partire da determinate
premesse, procedere e acquisire nuove posizioni, salvo poi ritrovarsi
puntualmente di nuovo al punto di partenza. In “democrazia” il finto ascolto e
la fittizia apertura alle critiche sono cerimoniali che servono a ribadire le
gerarchie comunicative tra i “superiori” e gli “inferiori”. Attraverso un
contorto sentiero dialettico, si arriva persino a denunciare le malefatte dei
ricchi e dei potenti, per poi alla fine concludere che è sempre colpa dei
poveri e dei deboli. Questo inesorabile paradigma comunicativo può essere
verificato anche tutte le volte che si parla di Africa.
L’assassinio
dell’ambasciatore italiano, del suo carabiniere di scorta e del suo autista
nella Repubblica Democratica del Congo ha riportato all’evidenza il paradosso
dell’ex Congo belga, uno dei Paesi più ricchi di materie prime al mondo, ma
anche uno di quelli economicamente più poveri. Sulla rivista online dell’Aspen
Institute italiano, fondata da Giuliano Amato, si trova un articolo che, in
alcuni punti, risulta sorprendente, se si considera che l’Aspen è una
filiazione del Dipartimento di Stato USA. Si delinea il percorso del saccheggio
delle risorse minerarie del Congo Kinshasa, constatando le responsabilità di
compagnie come Volkswagen, Apple, Microsoft e Huawei. Non si risparmiano i
dettagli crudi, specialmente per ciò che riguarda l’estrazione della materia
prima fondamentale per la tecnologia degli ultimi decenni: il cobalto. L’elenco
dei crimini comprende lo sfruttamento della manodopera minorile, i numerosi
incidenti sul lavoro e le morti bianche. (1)
Nell’articolo
si osserva anche che il saccheggio è stato favorito dal Fondo Monetario
Internazionale, il quale ha imposto per decenni al governo congolese di
applicare una tassa di solo il 2% sul minerale estratto, una quota troppo
piccola per favorire una redistribuzione del reddito alla popolazione. Ma ora
che l’aliquota della tassa è stata portata al 10%, la mancata
redistribuzione andrebbe addebitata alla corruzione locale. Quindi, se le cose
continuano ad andare male, è dovuto al fatto che i Congolesi sono corrotti. (1)
Che i
Congolesi siano corrotti è indicato anche dal fatto che pare siano riusciti a
corrompere persino l’integerrimo FMI. Per rientrare nelle grazie del FMI, il
governo di Kinshasa ha dovuto infatti accordare un ricco contratto alla Baker
McKenzie, la società privata di consulenza finanziaria in cui lavorava (guarda
la combinazione) Christine Lagarde prima di andare a dirigere il FMI, ed ora la
BCE. L’intreccio della gestione pubblica con gli affari privati se riguarda i
poveri si chiama corruzione, ma se riguarda i ricchi si chiama “competenza”.
Uno degli elementi ideologici più importanti delle attuali gerarchie
imperialistiche è proprio l’etichetta di “corrotto” riservata ai Paesi
inferiori. La superiorità in termini di potenza materiale si mistifica come
gerarchia morale e antropologica: la super-razza dei “competenti” e la
sotto-razza dei “corrotti”. (2)
Ora è
diventato frequente mettere in dubbio l’idea che i fallimenti economici
dell’Africa siano colpa del colonialismo. Già l’uso della parola “colpa”
risulta abbastanza subdolo, dato che spostando la questione sul piano morale,
si può dimostrare qualsiasi cosa. La domanda seria sarebbe invece chiedersi se
il colonialismo ci sia ancora. In effetti vige tuttora in Africa un dominio
coloniale, mediato però da istituzioni sovranazionali ufficialmente
“imparziali”. Non c’è solo il FMI, che è già di per sé un’agenzia ONU, ma anche
la stessa ONU in prima persona, impegnata in operazioni di “peace keeping”,
cioè di occupazione militare del territorio congolese. In questa opera di
“pace”, le truppe ONU si servono di aerei droni “Falco”, prodotti dalla ex
Finmeccanica, che ora si fa chiamare Leonardo. (3)
Il quotidiano
“La Stampa” nel 2015 diede anche una rappresentazione entusiasticamente
truculenta sull’uso di questi droni italiani in Congo, narrando di guerriglieri
che, pur ammoniti, non si erano lasciati intimidire dalla sorveglianza h24 da
parte dei droni “Falco”, pagando così un duro prezzo di sangue. In Congo quindi
l’Italia non è solo presente con operazioni umanitarie, ma anche come
fornitrice di armi per la repressione interna. (4)
Finmeccanica
è organica ai servizi segreti italiani, e la commistione è evidenziata da un
sistema di porta girevole, che ha visto avvicendarsi al vertice dell’azienda
prima Gianni de Gennaro e poi l’ex direttore dell’AISE, Luciano Carta, tuttora
in carica. Persino l’ex ministro Marco Minniti, anche lui proveniente dai
servizi, è andato ad occupare una poltrona dirigenziale in una società del
gruppo Finmeccanica. (5)
La
porta girevole non è corruzione, è “competenza”. Non si tratta di un
comportamento esclusivamente italiano, poiché la osmosi tra aziende produttrici
di armi (e non solo di armi) con i servizi segreti e con gli alti gradi
militari, riguarda tutto il sistema internazionale.
Ora,
possibile che Finmeccanica ed i servizi non si siano resi conto del pericolo a
cui esponevano l’ambasciatore italiano? In effetti era logico pensare che il
ruolo dell’Italia nella vendita di armi all’ONU, rendesse Luca Attanasio un
bersaglio per ritorsioni, sia da parte della guerriglia, sia da parte di
eventuali concorrenti nel business degli armamenti.
In
questa vicenda le responsabilità di Finmeccanica e dei servizi segreti nostrani
sono abbastanza evidenti. I media però preferiscono non toccare gli interessi
del grande business e mettono invece sotto accusa il ministero degli Esteri ed
il suo attuale occupante, lo zimbello di professione Luigi Di Maio, messo lì
apposta per fare da parafulmine in situazioni del genere.
4 marzo
2021
1) https://aspeniaonline.it/congo-miniere-di-cobalto-e-grandi-interessi-internazionali/
2) https://zoom-eco.net/a-la-une/rdc-les-trois-evidences-du-partenariat-etat-congolais-baker-mckenzie/
(*)
ripreso da http://www.comidad.org
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