giovedì 11 marzo 2021

La vergogna di Zingaretti, le macerie di Draghi - Marco Revelli

 

Soluzione/Dissoluzione

Quella che appariva (a troppi) come la soluzione della crisi italiana – la nascita del Governo Draghi – si rivela in realtà una potente accelerazione del processo di dis/soluzione del nostro sistema politico in atto da tempo. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono l’ultimo passaggio – drammatico – della reazione a catena innescata da Matteo Renzi quando ha dinamitato il governo Conte II. E insieme il segno dello sfacelo di un assetto istituzionale che nasconde le proprie macerie dietro il sorriso enigmatico – e vagamente minaccioso – di Mario Draghi. Quel passaggio di consegne tra l’Avvocato (del popolo) e il Banchiere (dei potenti) non ha segnato solo un chiarissimo spostamento a destra dell’asse politico (come abbiamo più volte denunciato). Ha rilasciato anche uno sciame sismico che mina alla base il già precarissimo equilibrio del sistema politico, incrementando la tendenziale liquefazione di tutte lo forze che lo compongono. E può aprire la via ad avventure imprevedibili oggi (si pensi a quel quasi 50%  di elettori che nei sondaggi figurano come “incerti”, cioè privi di rappresentanza politica).

 

Il capitalismo irresponsabile e le sue macerie

E’ stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino, in un libro profetico, aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton. Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i criminali manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale. Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul TAV Torino-Lione). E poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rosa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Ancora loro, infine, a usare il capitano di ventura Matteo Renzi, sempre pronto a imprese in cui si tratti di tradimenti, nella mattanza finale, per mettere al sicuro (ovvero nelle loro tasche) il tesorone in arrivo dall’Europa… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.

 

La vergogna e la maledizione renziana

In questo senso il gesto di Zingaretti ha un carattere esemplare. Come ha scritto ieri Norma Rangeri costituisce “la più cruda, eloquente rappresentazione” di cos’è oggi il Pd. Ma anche di cos’è diventato il Paese. E’ un atto di onestà. O, meglio, di verità. Dà la dignità delle parole a ciò che ognuno di noi vede e ha visto ogni giorno. Pesa come un macigno il termine VERGOGNA, ed è difficile trovare espressione più calzante per i comportamenti di quel gruppo dirigente. Ma non solo di quello. Così come pesa quell’espressione shakespeariana – “Qui funziona solo il fratricidio” -, che la dice lunga su quanto l’eredità del bullo di Rignano continui a operare all’interno di quel corpo collettivo malato. Esattamente due anni fa, il 17 marzo del 2019, il Presidente della regione Lazio aveva preso in mano un “partito morto” (così l’ha definito una sua fedele, Cecilia D’Elia). Svuotato da più di quattro anni di segreteria renziana (che l’aveva preso al 25,4% e lasciato al 18,7%, suo minimo storico). E in effetti come sarebbe stato possibile sopravvivere con un corpo e con un’anima per un partito che per quasi 1550 giorni si era dato anima e corpo a un simile avventuriero della politica? Tanto più che quel partito senz’anima, o con un’anima fragilissima, era nato, quando con sciagurato azzardo, nel 2008, Walter Veltroni aveva avviato la fusione fredda con la Margherita immaginando di farne il perno di un bipartitismo italiano spirato in culla. A quel compito da rianimatore di terapia intensiva l’ultimo suo segretario si era applicato con buona volontà, anche se senza brillantissime idee. Fino a dover scoprire, alla fine, l’inutilità di quell’accanimento terapeutico di fronte alla coriacea incapacità del partito (ridotto ad arcipelago di gruppi d’interesse ognuno concentrato sui rispettivi equilibri interni) di rapportarsi alla sofferenza diffusa, lacerante, di buona parte della popolazione o anche solo di includerla nel proprio orizzonte di pensiero.

 

Macerie sociali

Per una sorta di astuzia della ragione, che dissemina indizi anche se quasi mai vengono colti da chi dovrebbe, nello stesso giorno degli agguati a Zingaretti e della sua decisione finale l’Istat ha rilasciato gli ultimi dati, terribili, sulla povertà assoluta. Versano in questa condizione, cioè non possono fruire del minimo indispensabile per “una vita dignitosa” (questa è la definizione ufficiale,, più di 5 milioni e mezzo di persone, quasi un cittadino su dieci. Un milione in più rispetto all’anno scorso, per la metà “operai o assimilati”, cioè titolari di un posto di lavoro che però non gli permette comunque di vivere. E non sono stati ancora sbloccati i licenziamenti. Chi rappresenterà questo bacino di sofferenza sociale nel tempo durissimo che ci aspetta? Chi li sottrarrà al fascino del demagogo di turno che li ammalia e tradisce? O alla dura legge della protezione in cambio di fedeltà, che è la tomba di ogni democrazia.

da qui

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