Una recente sentenza di un tribunale distrettuale di Weimar ha stabilito l’incostituzionalità dei provvedimenti presi dal governo tedesco in tema di distanziamento sociale: un divieto generalizzato, quale quello contenuto nelle disposizioni anti-pandemiche, non rispetterebbe il diritto fondamentale dei cittadini al contatto fisico reciproco. Questa sentenza mi ha incuriosito perché menziona un tema che, come psicoanalista, mi riguarda da vicino: il diritto al contatto fisico.
Non saprei dire se il contatto fisico sia un
diritto, so che è una necessità fondamentale. Neonati con seri disturbi
congeniti della sensibilità tattile sopravvivono molto raramente e a prezzo di
deficit gravissimi, tanto che le attese di vita di infanti privi di vista o udito
o di entrambi sono di gran lunga migliori delle loro (1). A partire dagli studi
di René Spitz (2) si sa che il cucciolo umano muore se non è manipolato per
lunghi periodi. Le stesse condizioni negli adulti conducono a gravi situazioni
psichiatriche (3). Quando i contatti fisici sono soltanto limitati, le persone
tendono a sviluppare un quadro clinico detto di “inedia o fame tattile” (touch
starvation o hunger) – in parte osservato anche durante l’epidemia di Ebola
come conseguenza dell’isolamento fisico dei malati – che include l’arresto
dello sviluppo psicofisico durante l’infanzia e un significativo aumento
dell’aggressività negli adulti (4).
Al centro del concetto di “contatto fisico” c’è
quello di tatto. Il tatto è il più strano dei sensi, infatti si può guardare
senza essere visti, ascoltare senza essere uditi, e così via, ma non si può
toccare senza essere toccati da ciò che si tocca e senza toccare noi stessi:
“il tatto, che sembra inferiore agli altri sensi, è, allora, in qualche modo il
primo, perché è in esso che si genera qualcosa come un soggetto, che nella
vista e negli altri sensi è in qualche modo astrattamente presupposto. Noi abbiamo
per la prima volta un’esperienza di noi stessi quando, toccando un altro corpo,
tocchiamo insieme la nostra carne” (5). Jean-Luc Nancy, filosofo, amico e
discepolo di Derrida, ha sostenuto che il tatto coincide con il corpo, anzi con
la “carne”: tutto ciò che è incarnato tocca e può essere toccato. Il mistero
del tatto è grande, secondo Nancy, perché coincide con quello dell’incarnazione
di Dio (6). Seguendo la stessa linea di pensiero, Marie-Laure Veyron, docente
dell’università di Montpellier, ha sostenuto che i Vangeli possono essere letti
proprio anche come un’opera sulla ”carne”, il corpo e i contatti tra corpi (7).
Non c’è dubbio che vi sia una qualche verità in queste affermazioni, non
foss’altro perché la visione del mondo cristiana si scontra con il rigorismo
morale della legge mosaica che dettava rigide regole di purità rispetto al
corpo (si pensi soltanto a Gesù che toccava i lebbrosi, individui in una
condizione estrema di impurità). Così, in questi tempi cupi e calamitosi in cui
sembra che il distanziamento sociale potrebbe non essere una misura momentanea,
ma invece assurgere a nuova normalità, vorrei riflettere con voi su tre
famosi episodi evangelici di trasgressione delle norme sul contatto fisico…
Prima della Dad e del distanziamento fisico
Amore, contagio e conoscenza sono tre
forme – forse le più importanti – che possono assumere i contatti
fisici tra le persone: il distanziamento sociale le rende tutte e tre più
difficoltose e in parte le impedisce, ne vale la pena per evitare la sofferenza
della malattia (ammesso che il distanziamento vi riesca)? Alcuni diranno di sì,
altri di no, io chiedo solo a tutti di non essere ipocriti, di non negare ciò
che ciascuno sa: il Covid non giunge a ciel sereno; indipendentemente
dalla pandemia, i contatti fisici nelle nostre società stavano già diventando
sempre più complicati o fasulli. A volte ho persino il sospetto che il
Covid sia soltanto giunto a realizzare una “politique générale
d’extermination des êtres capables d’amour” (11) che era in incubazione
da tempo.
Prima che ci fosse la Dad, gli adolescenti
trascorrevano già più ore sui social che in presenza dei loro coetanei; gli
anziani morivano nelle Rsa soli, senza una carezza, ben avanti che il virus ne
facesse strage. La nostra è una società da tempo caratterizzata dall’ossessione
per tutte le forme, anche larvate, di intrusione sessuale, persino di
seduzione; dal falso rispetto per l’intimità, trasformata contemporaneamente in
pornografia ed esibizionismo digitali; dallo sfaldarsi dei legami familiari;
dall’espulsione dalla vita sociale di moribondi, gravi disabili, anziani
fragili.
Il distanziamento sociale era in corso ben prima dell’epidemia di Covid ma era mascherato dall’apparenza di una vita densa di “fisicità”, comprata a buon mercato sugli scaffali di un supermercato o su Amazon: massaggi, cure estetiche, ginnastiche dolci, sport di squadra, discoteche affollate all’inverosimile e spesso (con buona pace della psicoanalisi) anche rapporti sessuali usati come scusa per ricevere o dare un abbraccio e un po’ d’amore. La pandemia e il distanziamento sociale, arrestando bruscamente gran parte di queste attività, hanno forse soltanto svelato che l’imperatore era nudo.
Qualche tempo fa, Guido Silvestri ha scritto un
bel libro intitolato Il virus buono (12), che a prima vista
sembra un libro di divulgazione scientifica, gradevole e ben fatto; in realtà è
un affascinate trattato sui “confini”. La chiave per capire il libro sta nelle
prime pagine, quando Silvestri scrive “A me piace definirla [l’immunologia]
come la scienza che studia le frontiere del corpo umano” (p.15). La frontiera è
una linea di confine: Silvestri sa bene – e lo dice nelle pagine successive –
che la nozione di confine è un concetto bifronte. Un confine è ciò che
separa ed unisce perché è ciò che due o più hanno in comune. Ogni contatto
è un confine, come ho cercato di dimostrare anch’io in questo articolo, e gli
esseri umani sono fatti proprio dall’insieme di tutti questi contatti e
confini. Silvestri ne elenca alcuni: tra self e non-self, individuo e specie,
organico e inorganico, mente e corpo, clinica e ricerca. Giunto però al
limitare di quello forse più importante, il confine tra vita e morte, si
sgomenta, ha un attimo di esitazione e, un po’ timidamente, conclude che “a volte
sostituire ‘senso della vita’ alla parola ‘Dio’ può aiutarci a ragionare sulle
questioni ultime dell’esistenza”. A Silvestri, fondatore di PdO, dedico allora
questa breve poesia di Giorgio Caproni:
Confine diceva
il cartello
cercai la dogana, non c’era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
Nessun commento:
Posta un commento