Nei Quaderni dal
carcere Antonio Gramsci faceva una distinzione fra la grande politica e la piccola politica. La prima si concentra sulle
funzioni che svolgono gli Stati e sulle strutture economico-sociali. La seconda
è la politica del giorno (1), del dibattito parlamentare, degli scambi di
corridoio, degli intrighi.
La grande
politica è necessariamente creativa. La piccola è conservatrice e cerca a
malapena di mantenere gli equilibri preesistenti. Nel mondo di oggi,
l’alta politica è definita dalle grandi multinazionali, dalle forze armate e
dai loro think tank [centri di pensiero neoliberista –
ndt] strategici, nonché da gruppi di pressione e di potere come
il deep State, lo “Stato profondo” [l’insieme nascosto di
organismi, legali o meno, che condizionano segretamente la politica pubblica –
ndt] degli Stati Uniti.
Della
piccola politica si occupano i governi, in particolare quelli progressisti che non hanno
possibilità di influenzare la grande politica, dal momento che non si
propongono cambiamenti strutturali e di conseguenza si limitano a
questioni di maquillage e di estetica politica, soprattutto
utilizzando i mezzi di comunicazione di massa.
La cosa più
comune è che propongano come grande politica alcune questioni che non sono
altro che politiche del quotidiano, spesso recuperate da precedenti fallimenti. Il progetto della diga di Belo Monte promossa dal governo di Lula
in Brasile era fallito quasi mezzo secolo prima a causa dell’opposizione dei
popoli amazzonici all’opera faraonica proposta dalla dittatura militare.
Il Treno Maya [una linea ferroviaria di interesse turistico e commerciale lungo i
1500 km della penisola dello Yucatan, che avrebbe un pesante impatto sulle
popolazioni interessate – ndt] rientra nella stessa categoria della politica
degli intrighi, che si vuol far passare come opera strategica.
Lo sviluppo
digitale fa parte invece della grande politica che i governi, in generale,
affrontano con le modalità della piccola politica. Si limitano a dargli la loro
benedizione come se fosse un processo inevitabile nella vita umana, come la
nascita e la morte, come l’alba e il tramonto.
Tuttavia, la
digitalizzazione è considerata come la terza rivoluzione antropologica, dopo la
creazione del linguaggio articolato e l’invenzione della scrittura, come
ritiene lo psicoanalista ed epistemologo franco-argentino Miguel Benasayag nel suo libro La tirannia
dell’algoritmo (Vita e Pensiero, 2020).
Miguel è un
compagno le cui analisi sono acute e penetranti. Appartiene alla generazione
del 1968, ha trascorso tre anni nelle prigioni della dittatura per la sua
appartenenza all’Esercito Rivoluzionario Popolare e ora partecipa al collettivo
francese Malgré tout (Nonostante
tutto). Continua a impegnarsi per cause collettive e si è concentrato sullo
studio delle conseguenze delle nuove tecnologie nella società.
Nel suo
libro precedente, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (Erickson, 2016), osserva che, a
differenza delle invenzioni precedenti, dalla ruota agli antibiotici, la
digitalizzazione non finisce per produrre un nuovo modo di essere nel mondo per
l’uomo, ma allontana l’uomo dal mondo e dal proprio potere di agire, sebbene
scateni un potere molto forte a livello tecnologico.
Benasayag
sostiene che la rivoluzione della digitalizzazione ha fatto sì che la nostra
conoscenza del mondo sia per il 95 per cento indiretta. Però quella conoscenza
indiretta non si aggiunge alla conoscenza che nasce dall’esperienza
corporea, ma la sostituisce e la annulla. Egli considera quindi la
digitalizzazione come una violenza, perché nega e sopprime la diversità (e
chi è diverso) e le singole identità.
La velocità
e l’onnipresenza caratterizzano la rivoluzione digitale, ritiene
Benasayag. Nel mondo dell’algoritmo non c’è alterità, la delega delle
decisioni politiche agli algoritmi sospende il conflitto, lo blocca e lo
inibisce. “La negazione del conflitto può produrre barbarie”, sostiene
in Elogio del conflitto, scritto con la sua compagna Angelica del Rey
(Feltrinelli, 2008).
La tirannia
dell’algoritmo colonizza la vita eliminando la singolarità degli esseri e, di
conseguenza, sopprimendo i conflitti. In questo modo ci lascia inermi, ci smaterializza e
ci priva della dimensione corporea, fa di noi soltanto dei dati binari incisi
su chip, il che ci immobilizza rinchiudendoci nell’individualità.
Una protesta
in Francia contro Amazon. Oggi lo sciopero anche in Italia
Per sfuggire
a questa tirannia, sostiene Benasayag, dobbiamo resistere alla soppressione
della diversità e del conflitto, cosa che sembrano volere i governi, in
generale, e quelli progressisti. Per questo si agghindano con le vesti dei popoli originari e brandiscono i loro
bastoncini di comando, facendo credere che tutto sia la stessa cosa, che
tutto sia uguale in alto come in basso. Le diversità e i diversi sono
percepiti come minacce da un sistema incapace di elaborare i conflitti, come
invece ha fatto l’umanità nella sua storia.
La piccola
politica governativa si dimostra impotente di fronte alla grande politica delle
grandi società dell’informazione, che possono persino bloccare e cancellare
gli account dei presidenti dell’impero. La cosa
peggiore che possiamo fare è ignorare il potere di questa tirannide, la sua
capacità di annullare gli esseri umani.
Non abbiamo
ancora trovato modi di agire che siano in grado di affrontare la “rivoluzione
digitale”, non per negarla, ma per evitare che distrugga la vita. Quello che
stiamo imparando è che nulla può cambiare se ci limitiamo alla piccola politica
di palazzo.
Fonte: “La gran política y la revolución
digital”, in La
Jornada, 12/03/2021
Traduzione a
cura di Camminardomandando
(1) “La
piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell’interno
di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse
frazioni di una stessa classe politica”.
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