Ad un anno dall’ingresso del Coronavirus nelle nostre vite, ci troviamo sempre nel mezzo della pandemia: contagi ancora in crescita, decessi giornalieri nell’ordine delle centinaia, e ricoveri che ancora non mostrano una significativa inversione di tendenza. Cicli e ondate a cui assistiamo da mesi, fatti di aumento dei morti, chiusure, riaperture, euforia, esaltazione ed incoscienza: scene degne degli Ultimi giorni di Pompei. Le necessarie misure di contenimento, che in molti casi hanno previsto la chiusura di interi comparti, hanno fisiologicamente portato ad un calo del reddito e dell’occupazione, con conseguenze nefaste sulle condizioni di vita di milioni di persone, ed in particolare per le componenti più precarie della classe lavoratrice.
In
questo quadro drammatico, una speranza di tornare ad avere una vita normale,
che in molti casi significa tornare a percepire un reddito, si è accesa da
qualche mese: la vaccinazione.
Un processo che, per portare ai risultati desiderati, deve essere messo in
campo in maniera rapida ed efficace e che pertanto abbisogna di ingenti
risorse: l’esatto contrario di quanto invece fatto negli anni passati al
sistema sanitario pubblico, falcidiato
dai tagli.
Superare il regionalismo in campo sanitario
La
campagna di vaccinazione in Italia, ad oggi, è ostacolata da forniture
drammaticamente inferiori rispetto sia alle esigenze di mettere in sicurezza la
popolazione nel minor tempo possibile, sia anche a quanto previsto dai
contratti di fornitura stipulati dalle istituzioni europee con le grandi
multinazionali del settore farmaceutico. In questo contesto ad oggi, 8 marzo
2021, in Italia
è stato somministrato l’82,8% delle dosi consegnate. Esistono,
tuttavia, delle evidenti disparità tra regioni: Sardegna e Calabria, ad
esempio, si attestano ben al di sotto della media nazionale (65 e 69%), in
compagnia di regioni settentrionali come Liguria, Veneto e Lombardia.
Differenziali che ricalcano, oltre alle diverse capacità di gestione dei
servizi sanitari tra Regioni, anche altri elementi, come per esempio il grado
di privatizzazione della sanità (emblematico il caso della Lombardia, dove il
banchetto sul sistema sanitario pubblico è stato ancor più
succulento), oppure la disomogeneità nei criteri per rientrare nelle categorie
di vaccinazione (si pensi al caso dei precari della scuola
e dell’università nel Lazio o alle polemiche sul personale
universitario non strutturato). In tempi emergenziali, le ordinarie
criticità di un sistema socioeconomico si esasperano e aggravano: le eclatanti
sproporzioni, causate dal decentramento sanitario avviato negli anni Novanta e
completato nella sua forma attuale già nel 2001, hanno causato negli ultimi due
decenni un crescendo di disparità di trattamento tra i cittadini, in termini di
qualità delle prestazioni, costo (ticket differenziati) e tempi di attesa.
Queste asimmetrie si sono tragicamente riproposte durante la pandemia e si
ripresentano in questi giorni per la somministrazione dei vaccini.
Un
altro dato allarmante nei differenziali regionali di ‘gestione’ della pandemia
riguarda il fatto che tra le varie terapie intensive italiane ci sono significative
differenze di mortalità: non sarebbero quindi solo i macchinari a
salvare le vite, ma la disponibilità di medici e infermieri qualificati. Detto
in altri termini, dove il personale medico è scarso rispetto al numero di
pazienti, la mortalità è più alta. Per fronteggiare la pandemia, l’Italia
nell’ultimo anno ha incrementato la sua dotazione di attrezzature per i
posti di terapia intensiva, ma non
ha aumentato a sufficienza il personale necessario a garantirne
l’effettiva operatività. Una scelta esemplificata dalle esigue risorse che sono
state destinate, nel pieno dell’emergenza, alle scuole di specializzazione
mediche, con il risultato che nel 2020 circa
9000 medici non hanno potuto avere accesso ad una
specializzazione per via dell’assenza di fondi.
L’austerità
uccide la sanità pubblica, insomma, aiutata in questo dalla sua
‘regionalizzazione’. La sanità va gestita e organizzata, invece, su
base nazionale: ciò permetterebbe di assicurare parametri e liste
d’attesa realmente uguali per tutti, al contrario dell’enorme differenziale
esistente nei livelli delle prestazioni fotografato dal Nuovo
Sistema di Garanzia (NSG) dei Livelli Essenziali di Assistenza
(LEA). Non si tratta solamente di un sacrosanto principio di equità
territoriale: l’autonomia regionale in tema sanitario è un
altro tassello della lotta di classe. Nel contesto dei vincoli
di spesa imposti dai trattati europei, regionalizzare
vuol dire inasprire quei vincoli di spesa, limitando le capacità di
offerta sanitaria delle regioni con un reddito più basso. Imporre un tetto alla
spesa significa, inevitabilmente, ridurre le prestazioni. A sua volta, una
sanità pubblica che non funziona a causa dei tagli fornisce a privatizzatori e
sciacalli il pretesto per denunciare presunte inefficienze del settore pubblico
e chiedere ulteriori tagli, che aprono la strada alle privatizzazioni e ai
profitti sulle spalle dei pazienti e dei loro familiari. Un meccanismo a cui si
aggiunge, seguendo il divide et impera,
un progetto di frammentazione dei lavoratori e dei cittadini del nord e del sud
attraverso la costruzione di una
sanità a più velocità, nell’ambito di un processo di
privatizzazione che è stato preceduto e accompagnato da una politica di tagli
massicci che ha peggiorato il servizio ovunque. Una vera alternativa in
campo sanitario, specialmente in tempi di pandemia, dovrebbe dunque basarsi sul
ripristino della centralità del servizio pubblico gratuito e universale.
Nessun profitto sui vaccini
Esiste,
tuttavia, una seconda questione da affrontare, che riguarda la produzione e
l’approvvigionamento dei vaccini. Assistiamo infatti a continue diminuzioni di
dosi consegnate rispetto agli accordi presi con le case farmaceutiche: Pfizer e
Moderna hanno tagliato le dosi di vaccino previste nel primo trimestre del 2021
della metà, mentre Astra Zeneca pare stia consegnando meno del 10% delle dosi
pattuite (parola
della Presidentessa della Commissione Europea von der Leyen).
Si
tratta di una faccenda che ha ricadute pesantissime sull’andamento della
pandemia, sia sul fronte dell’emergenza sanitaria che sul fronte della crisi
economica e sociale: senza una vaccinazione diffusa non si potranno riaprire in
sicurezza i settori economici attualmente sottoposti a restrizioni, né si
potranno riprendere le attività ordinarie della nostra collettività, come ad
esempio la
didattica in presenza. L’unica soluzione reale e auspicabile è portare avanti una vaccinazione di massa.
Come noto, la Cina, il Paese dal quale è partita l’emergenza, è riuscita a
bloccare la pandemia con una severissima chiusura e un attento controllo delle
successive aperture, unito a una capacità di tracciamento capillare. Mentre in molti
Paesi extra-europei, quali Israele, Stati Uniti, Regno Unito (alla
faccia delle retoriche dichiarazioni anti-Brexit, stando alle quali senza
Europa ci si ritroverebbe senza vaccini…) e Serbia la campagna di
immunizzazione prosegue in maniera rapida, in
Europa la situazione è disastrosa.
La
vendita, da parte delle case farmaceutiche europee, di circa
un terzo dei vaccini prodotti in Europa a Paesi fuori
dall’Unione è solamente l’aspetto più visibile, e in fondo trascurabile, di un
processo molto più profondo. In Europa, in ossequio ad anni di politiche di
austerità, tagli all’impresa pubblica e privatizzazioni, si è deliberatamente
scelto di distruggere
ogni capacità pubblica di produrre vaccini, legandosi mani e
piedi ai pochi colossi multinazionali del settore. Questa precisa scelta ha
portato i Paesi europei, nel bel mezzo della pandemia, a ritrovarsi alla mercé
delle case farmaceutiche, impelagandosi in lunghissime trattative e procedure
burocratiche per tentare di accaparrarsi i vaccini prima degli altri Paesi. E
ovviamente i contratti stipulati con le multinazionali farmaceutiche sono segreti,
tanto quanto lo sono i brevetti che permettono a queste grandi imprese di fare
profitti sulla pandemia. Lo svuotamento delle prerogative dello
Stato ha portato a una situazione di totale subordinazione dell’interesse
pubblico rispetto a quello privato: in tal modo, le grandi aziende prosperano,
e gli Stati restano a guardare mentre le persone muoiono a migliaia (l’intervento dell’Eurodeputata
Manon Aubry di France Insoumise, che chiede di istituire una commissione
d’inchiesta sulle responsabilità della Commissione Europea e lancia accuse
gravissime alla Presidente von der Leyen, merita di essere ascoltato).
Di
fronte a tutto ciò, che fare? La lista è lunga, e comincia dal ricostituire la
possibilità, per gli Stati, di produrre vaccini pubblici, per contrastare
eventuali nuove varianti del virus e ogni altra possibile epidemia che si
dovesse presentare in futuro. Occorre eliminare
qualsiasi forma di brevetto sui vaccini, in modo tale da poterli
produrre in ogni Paese del mondo ad un prezzo esiguo, aumentando in tal modo le
dosi disponibili. Il modo più rapido per farlo è nazionalizzare le industrie
farmaceutiche attualmente operanti sul territorio e affidare loro il compito di
produrre vaccini anti-Covid. Si tratta di misure impensabili nel contesto
dell’Unione Europea, in cui la tutela del profitto, i brevetti e i vincoli di
spesa sono più importanti del benessere e della salute delle classi meno
agiate. Si tratta, qualora
fosse ancora necessario ribadirlo, di abbandonare la strada
tracciata dall’Unione Europa, fatta di austerità e deregolamentazione: occorre,
in ultima istanza, vaccinarsi
anche contro il capitalismo.
Nessun commento:
Posta un commento