Dall’inizio della pandemia, e senza soluzione di continuità fra governo Conte e governo Draghi, le misure messe in atto per fronteggiarla hanno seguito sei precise traiettorie:
a) ridurre al minimo le restrizioni all’attività delle imprese, che, quasi
ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli;
b) intervenire con sussidi, il 70% dei quali per sostenere
le imprese stesse e il restante 30% per tamponare in qualche modo la
disperazione sociale;
c) nessun intervento sul sistema sanitario, che ha
continuato ad essere privo di ogni intervento territoriale e ad essere
focalizzato sull’ospedalizzazione come risposta al bisogno di cura,
determinandone la saturazione ad ogni nuova ondata di contagi;
d) nessun intervento sul sistema dei trasporti pubblici locali, che
hanno continuato ad essere veicoli di contagio per le persone costrette ad
utilizzarli;
e) focalizzazione delle scuole come problema, con la
sostanziale chiusura per due anni scolastici di scuole superiori e università,
e chiusure continue, in alcune regioni continuative, anche delle scuole
dell’obbligo;
f) narrazione colpevolizzante dei comportamenti individuali, raccontati come la
causa primaria di ogni aumento dei contagi.
La narrazione che sottende l’insieme di queste traiettorie si basa
sull’idea che il benessere delle imprese determina il benessere della
società e che, di conseguenza, quest’ultima deve adattarsi alle necessità delle
stesse.
E’ una narrazione che, al di là di tatticismi politici contingenti, ha
visto l’adesione di tutte le forze politiche, non a caso approdate al governo
di unità nazionale.
Una domanda tuttavia sorge spontanea: c’è qualcuno che, a un anno distanza
dall’arrivo dell’epidemia, ha l’onestà intellettuale di fare un
bilancio serio sull’efficacia delle misure prese, a partire dal
disastroso bilancio di oltre 105.000 morti (ad oggi) e da un
trend di decessi giornalieri di 3-4 centinaia?
Non si direbbe. E, mentre l’eccellenza lombarda raggiunge quotidianamente
nuovi traguardi di cinismo e ferocia, un commissario vestito da alpino annuncia
fantasmagorici dati sui futuri vaccini e il ministro della salute cerca invano
di corrispondere al suo cognome.
Se questo è il quadro, alcune parole di verità sulle misure finora prese
vanno dette, a partire da dati inequivocabili.
Partiamo dai dati sulle imprese che dimostrano, ancora una volta, come
l’unica strategia che alberga in Confindustria sia il “chiagn’e fotte”. Secondo
i dati di Eurostat (marzo 2021), la produzione industriale da dicembre scorso è
in continua crescita, mentre il dato di gennaio 2021 è inferiore a quello di
gennaio 2020 solo del 2,4%, un dato che assomiglia molto più a una normale
oscillazione congiunturale che non all’esito di un anno di pandemia. E che
spiega molto più di mille analisi perché nei distretti più industrializzati
d’Europa -Bergamo e Brescia- la pandemia si sia trasformata in una carneficina.
Dunque l’industria, se non proprio bene, male non sta. Vale lo stesso per
la società?
Non si direbbe proprio, a partire dal mercato del lavoro che,
nonostante il blocco dei licenziamenti, nel 2020 ha registrato il record di
456mila posti di lavoro persi.
Nel frattempo la povertà ha fatto un balzo in avanti senza
precedenti e, secondo i dati dell’Istat sul 2020, ha registrato un milione di
nuovi poveri, che porta il totale delle persone in stato di profondo disagio a
5,6 milioni (una su dieci). Tra questi, 1 milione e 346mila sono bambini
(209mila in più).
Facile intuire come la gran parte di questi effetti sia stata
scaricata sulle donne, che sono le prime a perdere il posto di
lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di
isolamento e di fortissimo disagio economico, sociale, relazionale (come
dimostra l’aumentato numero di violenze subite all’interno delle mura
domestiche).
Nel frattempo, per poter permettere alle imprese di continuare indisturbate
nella produzione, si sono prese di mira le scuole, additate a più riprese
come i luoghi principali del contagio (e non come i luoghi del sicuro
tracciamento dello stesso), consegnando un’intera generazione di giovani e
bambini ad una vita sospesa davanti a un computer, priva di sogni e di
socialità.
Anche su questo versante i dati sono più che allarmanti, con un aumento tra
il 30 e il 40% del disagio psicosociale fra bambini e adolescenti.
In un anno di interventi, una generazione (gli anziani) è stata falcidiata,
un’altra è stata consegnata all’isolamento e al disagio (infanzia e
adolescenza), mentre l’insieme delle famiglie è stato costretto alla
precarietà, scaricandone gli effetti in particolare sulle donne.
Tutto questo per evitare quello che avrebbe dovuto essere fatto già
all’inizio: un vero, completo e molto più breve lockdown, a cui far seguire una
strategia di tutela delle fasce più fragili della società, con un reddito di
emergenza per tutti, investimenti massicci per una sanità pubblica e
territoriale, per una scuola aperta e sicura, per trasporti locali degni.
Tutto questo avrebbe messo in discussione le priorità del modello
economico-sociale in cui viviamo, mettendo al centro il prendersi cura al posto
dei profitti, la coesione sociale al posto del “Bergamo is running”,
l’interdipendenza fra le persone al posto della solitudine competitiva.
Proprio per evitare tutto questo, si è costruita e si continua ad
alimentare una narrazione di colpevolizzazione dei comportamenti individuali
che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono
stati additati come la ragione unica della diffusione del virus e della
moltiplicazione delle sue varianti, indicando ogni volta l’untore di turno.
Un anno dopo, possiamo prendere atto che non sono i profitti delle imprese
a determinare il benessere della società?
Possiamo lasciar chiagnere Confindustria (è il suo
mestiere) ma evitare per una volta di farci fottere? Possiamo dire
che è l’economia a doversi mettere al servizio dell’ecologia e della società e
non il contrario?
Possiamo scendere nelle piazze e urlare che non abbiamo bisogno di alcun
Recovery Plan che rilanci l’esistente, ma di un Recovery PlanET per progettare
assieme una diversa società?
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