Era convinzione diffusa che, con l’esperienza della pandemia, lo
scetticismo e i timori nei confronti dei vaccini si sarebbero ridotti
sostanzialmente, per lasciare posto a sentimenti di attesa e speranza.
Qualcosa, tuttavia, è andato storto. Mentre arrivano notizie circa percentuali
importanti, nelle varie Asl dislocate sul territorio, di personale sanitario e
delle Rsa che non intende sottoporsi a vaccinazione anti-covid, sappiamo, da
un’indagine di EngageMinds HUB-Università Cattolica di Cremona, che, all’inizio
di dicembre 2020, solo il 57 per cento degli italiani si dichiarava disposto a
vaccinarsi. Anzi, il numero dei nostri concittadini disposti a sottoporsi
all’inoculazione è diminuito rispetto ai primi mesi di pandemia, passando,
secondo i dati Demos, dal 68 per cento di maggio 2020 al 59 per cento di
ottobre, cinque mesi dopo1.
Per tentare
di capire le ragioni del diffondersi di paure e scetticismo si punta il dito verso il dilagare del
complottismo e di atteggiamenti riduzionisti/negazionisti e verso
quei canali informativi alternativi accusati di essere i principali responsabili
della diffusione delle fake news. La ricerca di Mapping
Italian News (Università di Urbino) ha effettivamente calcolato che,
dall’inizio alla fine del 2020, sono più che quadruplicate le interazioni
collegate a contenuti negazionisti sui social network, mentre sono sestuplicati
gli iscritti ai vari gruppi e pagine FB riconducibili alla stessa galassia
generalmente definita complottista2.
Ciò che però suscita forse ancora più stupore è la reazione che si sta
mettendo in campo di fronte a questo fenomeno complesso che si vuole indicare
come “complottismo”.
Si dà per scontato, innanzitutto, che chiunque esprima valutazioni
critiche, pur di tipo differente, circa la lettura dell’emergenza sanitaria in
corso e le strategie di risposta elaborate appartenga a questa schiera.
Altrettanto scontato appare che queste opinioni siano frutto di ignoranza
quando non di idiozia. Le persone
che le esprimono, cioè, non avrebbero risorse culturali sufficienti per
comprendere la realtà e nella loro ingenuità finirebbero “nella buca” di
narrazioni palesemente false, risibili, pericolose. Accanto a questo tema
appare quello del menefreghismo, dell’egoismo spensierato, narcisistico, edonistico
di chi non accetta restrizioni alla propria libertà perché si sente,
individualmente, forte e invincibile, e non ha voglia di accettarle per il bene
delle componenti fragili. Da qui, fiumi
di inchiostro sulla deriva individualistica della nostra società, e
“signora mia” ma quand’è che si sono spezzati i legami di solidarietà ed
empatia e che siamo diventati così brutti, cattivi e insensibili all’altrui
sofferenza e fragilità.
Ci sono forse alcuni elementi di verità in tutto questo. O quanto meno vorrei sgombrare il
campo dall’equivoco che, siccome – come si sarà intuito – intendo mettere in
discussione questa visione, allora con questo voglia dire che le versioni
“complottiste” hanno ragione, o che, più in generale, la “verità” stia tutta
necessariamente da una parte o dall’altra.
Il problema di fondo è che le visioni riassunte sopra si basano su un
ampio e generalizzato “dare per scontato”. Mentre, su questi fenomeni, sappiamo
ben poco. Peraltro,
è un argomento scottante, nel senso che solo a sfiorarlo ci si brucia: è un attimo venire etichettati come
“complottisti” se solo si prova a prendere sul serio – unico modo
per comprenderlo – il fenomeno, i suoi contenuti, le ragioni del suo evidente
successo globale.
Eppure,
limitarsi, di fronte a un fenomeno di tali proporzioni, al biasimo, alla
riprovazione e all’indignazione pubblica, ripetendo argomenti tanto abusati
quanto privi di alcun riscontro empirico è una strategia non miope, ma proprio
cieca. Che può andare bene per sentirci nel giusto, scaldati dall’abbraccio di
chi come noi si arrabbia e si indigna e confortati dall’approvazione dei
media mainstream e delle istituzioni, ma certo non per
affrontare quello che sta accadendo. Quando, invece, avremmo bisogno di strumenti di comprensione
e di analisi, che ci mettano all’altezza della sfida che abbiamo di fronte.
Comprendere ciò che accade
Ho avuto modo di lavorare su questi temi attraverso una ricerca sui
movimenti che si sono mobilitati contro la legge Lorenzin (n.119/2017), che ha
esteso il numero di vaccinazioni pediatriche obbligatorie e inasprito le
sanzioni per gli inadempienti. Ho così avuto modo di analizzare i dati di una rilevazione quantitativa
condotta su un campione di circa cinquecento questionari compilati da altrettanti partecipanti alla più
importante manifestazione per la libertà di scelta, tenutasi a Pesaro nel
luglio 2017. Poco dopo, attraverso uno
studio di caso, ho raccolto anche materiale di ricerca di tipo qualitativo. Nel complesso, i
risultati di quella ricerca3 e l’analisi della letteratura nazionale e
soprattutto internazionale che l’ha accompagnata sono utili per capire diversi
aspetti della resistenza/esitazione vaccinale, e possono dunque rappresentare
una base dotata di qualche solidità per aiutarci a uscire dall’incertezza e
muovere almeno qualche passo verso la comprensione di ciò che sta accadendo.
Innanzitutto,
un risultato comune alle moltissime ricerche dedicate al tema riguarda la
condizione socio-economica medio-alta e soprattutto il livello di istruzione: nel caso dei genitori che mostrano
atteggiamenti di esitazione o rifiuto verso i vaccini (d’ora in poi VHR, Vaccine
Hesitancy/Refusal4), il titolo di studio è nettamente
più elevato rispetto alla media della popolazione, tanto che alcuni autori
parlano addirittura di famiglie in situazioni di “privilegio” socio-culturale5. Il campione della mia indagine
rivela una composizione socio-professionale mista con prevalenza dei ceti medi;
al suo interno, il 43,9 per cento possiede una laurea o titolo superiore, a cui
si aggiunge una quota pressoché identica (43,6 per cento) di diplomati, mentre
nella popolazione italiana con più di quindici anni la percentuale di laureati
si ferma al 14 per cento, e quella dei diplomati al 30 per cento (dati
Istat.it relativi
al 2017).
Si tratta di
un punto importante, perché ci allontana sia dalle diagnosi che vorrebbero
accomunare queste proteste alla rabbia populista derivante da situazioni di
esclusione sociale, sia dall’interpretazione di VHR come risultato di ignoranza
e mancata comprensione del metodo scientifico.
Non è, insomma, l’ignoranza a causare lo scetticismo e le resistenze nei
confronti dei vaccini.
C’è chi,
dopo aver passato in rassegna la «spiccata chiusura cognitiva», le «tendenze
paranoidi» e la «mentalità dogmatica e tribale» di chi critica i vaccini
(sebbene spesso ad essere oggetto di critica non sono i vaccini in sé, bensì
determinati aspetti della legge e delle politiche vaccinali), cerca una via di
uscita di fronte all’apparente paradosso per cui queste critiche vengono
espresse da persone più istruite della media ricorrendo a complesse spiegazioni
che affondano le proprie radici nella teoria della razionalità limitata di
Kahneman6, per cui l’abbondanza informativa non porta
necessariamente verso scelte ottimali7. Inoltre, si sottolinea come i più istruiti passino
mediamente più tempo a cercare informazioni, aumentando così il rischio di
incorrere in notizie inaffidabili. Si tratta di ipotesi e congetture che
tuttavia continuano a non spiegare per quali motivi proprio le persone con un
maggiore bagaglio culturale dovrebbero essere addirittura le più sprovvedute,
tanto da diventare i bersagli principali della disinformazione, né perché
dovrebbero essere più predisposte verso una forma mentis chiusa, dogmatica e
paranoide.
Tanto più
che la ricerca che ho condotto,
anche in questo caso in accordo con diverse altre indagini internazionali, non rivela
la presenza di atteggiamenti anti-scientifici tra i genitori VHR. Anzi, gli
intervistati, facendo leva su un bagaglio culturale tendenzialmente ampio, sono
persone che si sono informate facendo ricorso ad una pluralità di fonti,
mettendo a confronto pareri discordanti, consultando ricerche scientifiche
direttamente e in lingua originale; sono cittadini ben consapevoli dell’insidia
delle fake news, riguardo alle quali rivelano però anche un
approccio critico e attento ai rapporti di potere che ne informano la
definizione. Soprattutto, mostrano una fiducia unanime nella scienza e chiedono
più ricerche scientifiche indipendenti: la scienza è vista precisamente
come l’attore cruciale da mettere in gioco per giungere alla chiusura della
controversia. Il problema riguarda semmai la richiesta di apertura della black
box, cioè una domanda forte di trasparenza circa i condizionamenti di tipo
politico ed economico nelle attività di regolazione nonché nella selezione
delle linee di indagine. Come scrive la filosofa Maya Goldenberg8, proteste
ed esitazioni non hanno a che fare con l’anti-scienza: esprimono piuttosto una
domanda di partecipazione nel definire l’agenda di ricerca.
Se i complottisti amano la scienza
Già questi
due risultati fanno cadere il castello della via italiana alla trattazione
mediatica della questione.
Per anni abbiamo sentito ripetere come il problema derivasse
dall’“atavica sfiducia degli italiani nella scienza”: eravamo decisamente fuori
pista. Ma, a pensarci bene, l’assunto dell’ignoranza come base di VHR è anche alla
base del famoso mantra per cui “la scienza non è democratica”, cioè della
convinzione che gli uomini e le donne di scienza non si possano “abbassare” a
discutere con chi, non avendo competenze, criticherebbe senza alcuna cognizione
di causa.
La comunicazione
istituzionale ha surrettiziamente recuperato modelli di rapporto tra scienza e
società che la comunità scientifica aveva superato da decenni: un notevole
balzo all’indietro, fino ai tempi del “rapporto Bodmer” (del 1985) e alla sua
concezione paternalista di un pubblico ignorante, incapace di capire i benefici
della scienza, e soprattutto incapace di esprimere alcun punto di vista degno
di essere ascoltato e men che meno di essere preso in considerazione.
Eppure, il
dibattito scientifico si è notevolmente allontanato da quelle concezioni,
attraverso l’elaborazione di modelli differenti, come il PES (Public Engagement
with science), oggi promosso da importanti istituzioni scientifiche e
organizzazioni internazionali9, che, avendo ormai acquisito come critiche e
resistenze non abbiano molto a che fare con presunti atteggiamenti
anti-scientifici, e avendo d’altra parte riconosciuto il pubblico come non solo
competente ma come portatore di interessi e punti di vista che non possono
essere trascurati, auspica la creazione di percorsi e strumenti di confronto
paritario tra scienziati e pubblico generale, nella convinzione che entrambi
gli interlocutori possano trarne vantaggio.
E così,
oggi, ci troviamo alle prese con la portata regressiva e autoritaria delle vere
e proprie fake news che sono state diffuse.
Non solo,
partendo da premesse sbagliate, sono state elaborate strategie comunicative
scarsamente efficaci, che non hanno centrato il bersaglio.
Ancora più
grave è che l’esclusione tramite ridicolizzazione
(e criminalizzazione) delle critiche, insieme all’adozione di politiche
di obbligatorietà e inasprimento delle sanzioni, hanno esasperato sentimenti di
esclusione e sfiducia nelle istituzioni e innalzato muri di incomunicabilità
all’interno della società tra fazioni opposte, inducendole entrambe verso la
radicalizzazione nelle proprie posizioni10. Fenomeni di cui solitamente si attribuisce la colpa
ai social e agli algoritmi che tendono a creare “bolle” in cui gli individui
trovano ripetutamente contenuti coerenti con le proprie precedenti convinzioni11. Il che è probabilmente vero, ma, forse, prima ancora
dei meccanismi di funzionamento della rete, occorrerebbe chiedersi quanto
siano, a monte, le strategie comunicative istituzionali a innescare questi
processi. E i meccanismi di funzionamento del web, semmai, a consolidarle.
Le posso chiedere in che cosa precisamente è laureato?
In questa
luce, le avventure giornalistiche
volte a suscitare indignazione circa la radicalizzazione dei cosiddetti
“no-vax” costituiscono un esempio di giornalismo scadente e superficiale,
incapace com’è di promuovere un ragionamento sulle dinamiche che hanno portato
non solo una, ma entrambe le fazioni, a chiudersi sulle proprie indiscutibili
verità essendo diventato impraticabile – per scelta dall’alto, però – il
terreno del confronto.
Ma c’è di
più. Tra i frutti (avvelenati) del
mantra “la scienza non è democratica” annoveriamo anche la convinzione, che
ormai ha largamente fatto presa sull’opinione pubblica, secondo cui non si può
esprimere un’opinione su un tema a meno che non si sia (almeno) laureati, e per
giunta nella disciplina ad esso più vicina. Ho notato che, in qualunque
confronto sui social network mi capiti di seguire, specie su temi riguardanti
la salute, più presto che tardi emerge qualcuna/o che cerca di mettere a tacere
punti di vista anche blandamente eterodossi o critici, seppure espressi in
maniera educata, argomentata ed appropriata, con la domanda di rito: “le posso
chiedere in che cosa precisamente è laureato/a?”.
Abbiamo accolto in modo pressoché acritico un’idea reazionaria e
classista, secondo cui sarebbe possibile esercitare i propri diritti di
cittadinanza e di partecipazione solo se si è laureati – o se si ha la fortuna di esserlo,
in un Paese a mobilità sociale ridotta come l’Italia – basata per di più su
presupposti sconfessati dalla ricerca scientifica ormai decenni fa.
Tutto questo, quando la ricerca ci dice tutt’altro. Ci dice che non
esistono i “complottisti” che cercano informazioni solo sui canali
“complottisti” così, per partito preso. Esistono piuttosto persone del tutto
normali, che, per motivi diversi, intendono approfondire determinate questioni
tecnico-scientifiche che hanno effettivamente un impatto sulla propria vita, e
non trovano una copertura adeguata, accurata e pluralista sui giornali o in Tv. E allora cercano altrove12. Del resto, anche l’associazione tra verità e
fonti mainstream da una parte contro fake news e
Internet dall’altra, è analogamente da mettere in discussione, come ci invitano
a fare le ricerche che hanno messo in luce come sul web, proprio a proposito di
vaccini, fosse presente un’informazione più corretta e accurata sotto il
profilo scientifico, mentre i canali tradizionali si limitavano a fare da
megafono a posizioni perentoriamente rassicuranti senza dare risposte a dubbi e
domande dei cittadini13.
Interessante
l’osservazione di Golbenberg14 secondo cui l’informazione istituzionale sui
vaccini viene considerata, dai genitori VHR, come una too broad brush nel
suo insistere sulla bassa probabilità di sviluppare reazioni avverse gravi a
livello della popolazione, senza però dedicare attenzione alle variabili
soggettive che possono determinare una maggiore probabilità di incorrervi, su
cui invece si catalizza l’attenzione dei genitori. Quando i movimenti free vax
chiedono di investire in questo filone di indagini avanzano quella domanda di
partecipazione, che nulla ha a che fare con l’anti-scientificità. Lo stesso
quando chiedono che si facciano comparazioni sullo stato di salute generale e
sulle probabilità di sviluppare diversi tipi di patologie nel medio-lungo
periodo tra bambini in regola con le vaccinazioni e bambini non vaccinati, o
che si prendano in considerazione i risultati di alcune ricerche esistenti di
questo tipo15.
Finché si
trattava “solo” dei bambini, è stato possibile, anche se deleterio da tutti i
punti di vista, far passare legittime domande di partecipazione – che in fondo
coinvolgevano una minoranza – per atteggiamenti anti-scientifici. Ora che la
vaccinazione contro il covid-19 riguarda
l’intera popolazione, e che peraltro di fronte a nuove tecnologie e a una
riduzione dei tempi di sperimentazione si registrano maggiori divisioni anche
tra gli esperti, non è pensabile replicare la stessa strategia.
Non esiste un’unica idea di che cosa sia la salute
Per arginare
il complottismo, è necessario che venga avviato un dibattito aperto, approfondito e pluralista negli ambiti
istituzionali e sui mezzi di comunicazione di massa, in assenza del quale le
persone continueranno a cercare informazioni altrove. A forza di dare addosso
al “complottista” non si fa altro che spingere ancora più persone verso quella
galassia della “disinformazione” che, a parole, si sostiene di voler
combattere. Non meno importante è però anche riconoscere, al di là delle
dinamiche comunicative e informative, i mutamenti strutturali da cui prendono
forma scetticismo e atteggiamenti di contrarietà. “Prendere sul serio” i
free-vax ci dice infatti molte cose circa la nostra società e il nostro
rapporto con la medicina.
Nella mia
ricerca sui movimenti free-vax, sostengo la necessità di abbandonare le lenti
della devianza e del populismo per riconoscere una razionalità nella loro
azione. Questa si collega all’emergere di un conflitto di natura epistemica
intorno ai concetti di salute, malattia e medicina. In questo punto prende
forma la questione, complessa e non banalizzabile, del rapporto tra VHR e
familiarità con le tradizioni mediche alternative e olistiche. In sintesi, è necessario prendere consapevolezza
dell’idea che non esiste un’unica idea di che cosa sia la salute e di quali
siano le strategie più efficaci per conseguirla. Ci sono epistemologie
concorrenti rispetto alla medicina biochimica occidentale che si basano su
un’idea dell’organismo, e più in generale del rapporto tra uomo, ambiente e
società, differente, e che di conseguenza perseguono un’idea diversa di salute,
basata essenzialmente su prevenzione
primaria, alimentazione, stili di vita; ma anche su auto-realizzazione, socialità e spiritualità.
Non tutti i genitori VHR che ho intervistato fruiscono effettivamente di cure
alternative, però quasi tutti condividono un approccio critico – con diverse intensità – su alcuni aspetti,
interpretati come degenerativi, della medicina convenzionale: l’abuso di
farmaci che sopperisce ad errori nello stile di vita, l’esproprio di competenze
personali e diffuse su come stare in salute, la concezione meccanicistica e
materialista dell’uomo, l’eccessiva specializzazione e concentrazione sui
sintomi e non sulle cause, la trascuratezza delle relazioni tra la parte e il
tutto, la spersonalizzazione del rapporto medico-paziente, solo per citarne
alcuni.
In questo
senso, la delegittimazione e l’esclusione (il “complottismo” usato come arma
politica) di punti di vista critici possono essere interpretati come il
tentativo di trovare una via di uscita (solo) apparentemente rapida e
risolutiva di fronte a problemi e “nodi irrisolti” di un processo di riforma
della biomedicina da molti anni invocato, ma ancora non avviato, che nasce
dall’ardua coesistenza tra medicina biochimica occidentale e post-modernismo16.
Una via
d’uscita che consiste essenzialmente nell’elusione, e che intraprende una
direzione regressiva (chiusura del discorso prima ancora di averlo iniziato
attraverso la delegittimazione della critica) anziché una progressiva,
che si sarebbe potuta strutturare in un più difficile, ma ambizioso e
lungimirante, percorso di apertura e coinvolgimento delle critiche e della
domanda di partecipazione.
Il risultato
è un autoritarismo privo
di autorevolezza, che oggi lascia vedere tutta la fragilità dei piedi d’argilla
su cui appoggia.
Oggi, ancor
più di fronte alla mancanza di trasparenza nei contratti con le case
farmaceutiche per i vaccini anti-covid e alle incongruenze in diverse scelte di
gestione della pandemia, è ancora più necessario invertire drasticamente la
tendenza.
È necessario scardinare una volta per tutte la contrapposizione – questa
sì, davvero anti-scientifica – tra posizioni ufficiali e “complottismo”, da cui
tutti abbiamo da perdere: pro-, free- e no-vax. E non perché il complottismo
non esista, ma perché non può essere usato come arma politica per silenziare il
dissenso. È ora di
trovare il coraggio di trattare finalmente i cittadini come adulti, esigendo un
dibattito davvero pluralista, approfondito ed esaustivo sui media e
coinvolgendoli in percorsi partecipativi e di confronto in cui le tesi
inattendibili possano venire rigettate in maniera condivisa e attraverso la
partecipazione si pongano le basi di una ri-legittimazione delle istituzioni
stesse.
Note
1 Demos & pi. Atlante politico n. 90, ottobre
2020, http://www.demos.it/a01775.php
2 Cfr. Giacomo Salvini, La seconda pandemia: il
boom negazionista, su “Il Fatto Quotidiano”, 21/11/2020.
3 Presentati in Elisa Lello, Populismo
anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto
intorno al movimento free vax, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 3/2020,
pp. 479-507.
4 Adottando criteri e terminologia di Attwell, K.,
Smith, D.T. (2017) Parenting as politics: social identity theory and vaccine
hesitant communities, in «International Journal of Health Governance», 22,
3, pp. 183-98.
5 Per esempio: Gesser-Edelsburg, A., Shir-Raz, Y.,
Green, M.S. (2016) Why do parents who usually vaccinate their children
hesitate or refuse? General good vs. individual risk, in «Journal of Risk
Research», 19, 4, pp. 405-24; Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004) Children
who have received no vaccines: who are they and where do they live?, in
«Pediatrics», 114, 1, pp. 187-95.; Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M.,
McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B.,
Nordin, J.D.
(2009) Identification and characteristics of vaccine refusers, in
«BMC Pediatrics», 9, 18, pp. 1-9.; Anello, P., Cestari, L., Baldovin, T.,
Simonato, L., Frasca, G., Caranci, N., Pascucci, M.G., Valent, F., Canova, C.
(2017) Socioeconomic factors influencing childhood vaccination in two
northern Italian regions, in «Vaccine», 35, 36, pp. 4673-80; Grignolio, A.
(2016) Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice Edizioni; Reich,
J.A. (2014) Neoliberal Mothering and Vaccine Refusal: Imagined Gated
Communities and the Privilege of Choice, in «Gender and Society»,
28, pp.
679-704.
6 Kahneman, D. (2012) Pensieri lenti e
veloci, Miliano, Mondadori.
7 Cfr. Grignolio (2016), cit.
8 Goldenberg, M. (2016) Public
Misunderstanding of Science? Reframing the Problem of Vaccine Hesitancy, in
«Perspectives on Science», 24, 5, pp. 552-81.
9 Coniglione, F., eds. (2010) Through the
Mirrors of Science. New Challenges for Knowledge-based Societies, Ontos
Verlag, Heusenstamm.
10 Cfr. Nyhan, B., Reifler, J., Richey, S. e Freed,
G.L. (2014) Effective messages in vaccine promotion: a randomized trial,
in «Pediatrics», 133, 4, 835-42; Atwell e Smith (2017) cit.
11 Pariser, E. (2011) The Filter Bubble:
What The Internet Is Hiding From You, New York: The Penguin Press.
12 Come mostrano anche Quintero Johnson, J.,
Sionean, C., Scott, A.M. (2011) Exploring the presentation of news
information about the HPV vaccine: a content analysis of a representative
sample of US newspaper articles, in «Health Communication », 26, 6, pp.
491-501.
13 Bodemer, N., Müller, S.M., Okan, Y.,
Garcia-Retamero, R., Neumeyer-Gromen, A. (2012) Do the media provide
transparent health information? A cross-cultural comparison of public
information about the HPV vaccine, in «Vaccine», 30, 25, pp. 3747-56.
14 2016, cit.
15 Cfr. Lyons-Weiler, J., Thomas, P. (2020) Relative
Incidence of Office Visits and Cumulative Rates of Billed Diagnoses Along the
Axis of Vaccination, in «International Journal of Environmental Research
and Public Health» 22;17(22):8674, e Hooker, B.S., Miller, N.Z. (2020) Analysis
of health outcomes in vaccinated and unvaccinated children: Developmental
delays, asthma, ear infections and gastrointestinal disorders, in «SAGE
Open Medicine», 27;8:2050312120925344.
16 Cfr. Cavicchi, I. (2010) Medicina e
società: snodi cruciali, Bari, Dedalo.
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