Ha ragione un mio amico facebookiano: «Bisogna ripartire dall’ABC», quello dei princìpi della lotta di classe e del comunismo (come «…movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»), se si deve spiegare oggi che il profitto di un imprenditore è un privilegio e non lo è invece il lavoro, attitudine umana che si ispira all’ingegno della razionalità, alla caparbietà dell’intuizione e alla necessità di un volontarismo senza cui, altrimenti, ogni occupazione produttiva sarebbe impossibile da concretizzare.
Tutto nasce
da una lettera che la Confindustria (il “sindacato” dei padroni, visto
che bisogna tornare all’ABC tutto va spiegato dettagliatamente e molto semplicemente)
di Genova invia ai portuali, agli storici “camalli“. Un attacco
frontale, brutale, che riporta indietro le lancette dell’orologio del mondo del
lavoro di parecchi decenni, a toni degni di uno scontro di classe tipico di
fine Ottocento ed inizio Novecento: «I lavoratori ricordino che oggi il
lavoro è un privilegio». Nessuna ironia, solo il pensiero imprenditoriale,
crudamente espresso, fuori da ogni metafora, immagine nitida del classismo che
esiste, persiste e insiste nel suo proporsi come regolatore di ogni destino
delle umane genti (e non solo).
Tradotto, il
lavoro è, dal punto di vista confindustriale, un privilegio perché un operaio,
un camallo del porto di Genova, lo si può sempre sostituire con un altro, vista
l’altra faccia della medaglia della crisi pandemica: se da un lato la
sofferenza delle imprese è evidente, è altrettanto evidente che l’esercito di
riserva dei lavoratori (i disoccupati, i precari), messi in concorrenza gli uni
contro gli altri dall’aumento di un pauperismo che dilaga nel Paese (e
nell’Europa dei 27), è un serbatoio di ricatto ideale, notevole ed
eccellentissimo cui attingere per abbassare i costi di produzione decurtando i
salari, costringendo i lavoratori a turni esclusi dai contratti stipulati e
ricreando delle vere e proprie condizioni di neo-schiavismo in tanti ambiti
produttivi.
Le parole di
Confindustria indignano chi ha un minimo di coscienza sociale, di orgoglio di
categoria (prima ancora che di classe), ma non devono sorprendere più di tanto.
Soltanto tre decenni di favoleggiamenti sulla necessità di un patto di sviluppo
tra impresa e lavoro (tra padroni e lavoratori) hanno consentito che si potesse
dimenticare la lotta fra le classi, che non è un ferrovecchio dell’analisi
marxista del passato, ma una realtà totalizzante e globale, presente in tutto
il mondo.
Se la
domanda seguente è: «Da cosa si capisce che esiste una lotta di classe?»,
la risposta è altrettanto semplice, ma non così banale come si può pensare sia:
«Dal fatto che c’è chi si arricchisce col lavoro altrui e chi vende la
propria forza-lavoro e ne ottiene soltanto un salario, spesso insufficiente ai
bisogni elementari e basilari del lavoratore stesso». Nelle dinamiche
dell’economia politica e del sistema capitalistico, la paga dovrebbe essere il
corrispettivo del lavoro svolto. Troppo spesso si ritorna su questo tema
facendo ricorso a terminologie che davvero – come avrebbe detto Carmelo Bene –
«fottono e trapassano chi le usa»: il salario non è la “giusta paga“.
E’ invece una “sottopaga“, una voluta sottostima del vero valore del
lavoro che non può essere dato all’operaio, altrimenti da dove uscirebbe il “plusvalore“,
prima espressione compiuta del profitto e genitore dell’accumulazione dei
capitali?
Affermare
che “il lavoro è un privilegio“, a questo riguardo, è persino corretto
se si adotta il punto di vista del liberismo moderno, erede del liberalismo di
un recente passato. Cos’altro è un privilegio se non una concessione? Chi ha la
proprietà dei mezzi di produzione, delle aziende, per far funzionare il tutto
ha bisogno di “acquistare” la forza-lavoro, quindi gli operai, i moderni
sfruttati che lo sono a prescindere dalla bontà o dalla cattiveria
dell’imprenditore. Non è questione etica, ma di ruoli: nel sistema delle merci
e dei profitti, nel capitalismo, il padrone svolge il suo “ruolo di classe“.
Deve sfruttare i più per poter conservare il suo posto di privilegio nella
società.
Di
privilegio, sì. Perché è il profitto il vero privilegio e non il lavoro. Il
lavoro lo diventa solo se deve sottostare alle regole perverse del sistema
capitalistico. Liberato da queste catene, tutta la specialità dell’attività
umana nella trasformazione delle materie prime in materie elaborate, complesse
e adattate ai bisogni tanto del singolo quanto sociali, potrebbe riemergere da
dove è stata confinata per fare spazio all’estrazione del “plusvalore”
dalla decurtazione del salario per ore di lavoro svolto. Il dipendente è il
vero “datore di lavoro“, mentre l’imprenditore è un “datore di
salario“. Molto abilmente, è stata sempre adottata come sinonimo di “padrone”
proprio la locuzione “datore di lavoro“, mostrando una evidenza
incredibile (nel senso che è davvero non credibile o almeno dovrebbe esserlo)
tra proprietà dell’impresa e giustezza morale della stessa.
Se stiamo
sempre all’ABC della lotta di classe, è evidente che il profitto non nasce
dalla circolazione delle merci, perché nel momento in cui vengono immesse sul
mercato, queste hanno già in sé quel valore aggiunto dall’impegno dell’operaio
che le rende, a prescindere dalla loro vendita, qualcosa “di magico“,
scriveva molto bene Marx per rendere evidente e comprensibile questo concetto
complesso.
Il punto
etico dell’immoralità del capitalismo sta soltanto in questo dogma: a
permettere al lavoratore di essere tale, di lavorare dunque, è il padrone. Ne
consegue la famosa epigrafe, scolpita tristemente nelle menti di tanti
proletari di vecchia generazione e anche dell’oggi, secondo cui «Senza i
padroni, chi ci farebbe lavorare?». Se si restringe l’osservazione alla
mera attualità e la si contestualizza, ciò è ovvio. Ma non per questo deve
essere passivamente accettato come dato di fatto incontrovertibile.
Perché la
risposta deve essere una ulteriore domanda: «Perché c’è bisogno di qualcuno
che ci faccia lavorare?». Non è possibile pensare che sia, mediante una
evoluzione del genere umano, superare la divisione di classe, oltrepassare il
privilegio millenario della proprietà privata e dare vita ad una società di
liberi e federati produttori che non perseguono alcun profitto, che non
vogliono arricchirsi, ma solamente vivere esprimendo al massimo le peculiarità
date dalle proprie forze materiali e dalle proprie forze intellettuali?
Spezzare
questo “pensiero unico” è stato compito (ante litteram rispetto
al concetto stesso di unicità del pensiero nel moderno liberismo, nascente
dagli anni ’90 del secolo scorso) dello scienziato Marx, che non si è limitato
ad ipotizzare una società saturniana, della felicità universale, ma ha
dimostrato tutte le incongruità di un sistema economico che pretende di dirsi
l’ultima e più felice creazione della storia umana, che si traveste da
benefattore sociale mentre è la struttura su cui crescono tutte le
diseguaglianze e le ingiustizie.
Il grande
lavoro analitico e scientifico del Moro (così era soprannominato familiarmente
Marx per la sua capigliatura castano scura) si risolve in un messaggio tanto
grande quanto sintetizzabile in un concetto che Nicolao Merker ha reso con
grande lucidità, unendo antropologia, filosofia e persino letteratura
biografica (mai agiografica) del fondatore del materialismo dialettico e
storico: «Marx ha voluto mostrare che il sistema capitalistico è una realtà
economico-sociale storicamente determinata, come tutte quelle che lo hanno
preceduto e che gli succederanno. Esso, perciò non può accampare nessuna
pretesa di eternità».
Il libero
mercato lotta (classisticamente) ogni giorno per perpetuarsi, per sopravvivere
e mantenere i privilegi del minuscolo numero di proprietari dei mezzi di
produzione al mondo, rispetto ai miliardi e miliardi di salariati, di veri “datori
di lavoro” che tutt’oggi esistono e che sono sempre più immiseriti a causa
della crisi pandemica. Il problema è che l’evidenza di questa lotta viene
narrata come un normale avvicendamento di quote, interessi e indici di borsa:
ogni mossa degli imprenditori, come le delocalizzazioni degli impianti, causate
naturalmente dalla ricerca di una stabilità sugli assi portanti dei mercati e
della concorrenza, così da trarre sempre maggiore profitto dall’impiego di “capitali
variabili” (salari in primis), diventa una “necessità“, addirittura
un “sacrificio” fatto nell’interesse comune…
Questa
narrazione veramente tossica è utilizzata ogni giorno per sedare gli istinti
ribelli dei lavoratori, per arginare le richieste sindacali e per addomesticare
i migliori servitori del padrone del vapore: i governi. E qui si
aprirebbe tutto un vastissimo capitolo sugli aiuti di Stato alle imprese e
sulla vera natura del cosiddetto “rischio di impresa“, tante, troppe
volte messo al riparo con i soldi pubblici. I profitti ai padroni e i rischi a
tutti gli altri. Il capitalismo è “mors tua, vita mea“, ed è impossibile
farne una questione “privata“. Deve essere una questione totalmente
pubblica, di massa, della grande massa dei lavoratori che deve riappropriarsi
di una cultura dell’alternativa di classe e pensarsi coscientemente come il
motore principale del capovolgimento di questo sistema fondato sull’egoismo
singolare, sull’individualismo esasperato, sulla concorrenza estesa ad ogni campo
della vita umana, di quella animale e della casa che abitiamo: la Terra.
Di tutto il
capitalismo fa merce, annichilendo le proprietà più genuine di ogni persona, di
ogni essere senziente, di tutto quello che può essere asservito alla
trasformazione per fini commerciali, ricavando dallo sfruttamento dell’essere
umano sull’essere umano, di questo sugli animali e la natura (considerati alla
mercé della straordinarietà dell’intelligenza “superiore” nostra), le
fonti primarie per avviare il processo di accumulazione del capitale e
alimentare la forbice delle diseguaglianze.
Ma
Confindustria ogni tanto faccia almeno finta di ricordarselo, visto che lo sa:
i lavoratori tutto fanno, tutto possono distruggere, perché la contraddizione
del sistema delle merci e dei profitti è irrisolvibile. Mai potrà garantire a
tutte e tutti una vita libera, dignitosa ed eguale e al contempo continuare ad
arricchire poche centinaia di migliaia di persone al mondo… Prima o poi, la
resa dei conti (è proprio il caso di dirlo), arriverà. Non è una minaccia, è
una sorta di determinismo storico che obbedisce alle leggi “anarchiche”
del mercato. La fine del capitalismo sarà inevitabile e sarà “naturale”
se toccherà proprio alla natura (come la pandemia ha dimostrato) agire per
proteggersi dalla distruzione del mondo da parte dell’uomo per meri fini
privati, prescindendo da tutto il resto.
Se invece la
lotta di classe riprenderà il suo corso, allora forse le generazioni future
potranno sperare di veder preservata la vita sul pianeta insieme all’esistenza
della specie umana. Non ci sono alternative: senza la fine del capitalismo c’è
sempre e soltanto la barbarie. Guardatevi attorno e la vedrete. Ogni giorno.
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