«La guerra dei vaccini che non possiamo perdere» (https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=93347), documentato e
utilissimo contributo di Alice Cauduro sugli aspetti giuridici e politici
dell’accesso ai vaccini antiCovid-19, ci induce a prospettare, in termini
necessariamente generali, un punto di vista che la nostra associazione, il
Forum per il Diritto alla Salute, propone nei suoi documenti/appello: quello
dell’industria pubblica del farmaco in Italia.
In realtà il tema potrebbe meglio definirsi dell’ampliamento e del
potenziamento dell’industria pubblica del farmaco.
Sì, perché Cauduro stessa opportunamente segnala che in Italia un’industria
pubblica del farmaco esiste sin dal 1853. È lo Stabilimento Chimico
Farmaceutico Militare del quale cita lo storico intervento nella produzione di
beni sanitari essenziali, come i vaccini (decisivo per la storia
dell’innovazione sanitaria italiana per la cura di numerose malattie tra cui
vaiolo, colera, malaria: cfr. chinino di Stato!), e richiama l’attuale
produzione di farmaci orfani e di altri prodotti farmaceutici. Il suo,
peraltro, è un ruolo marginale tanto che Cauduro osserva che «non abbiamo oggi
esperienza nazionale di impresa farmaceutica pubblica, sebbene attraverso il
finanziamento della ricerca scientifica vi sia un significativo intervento
pubblico nella ricerca e nello sviluppo di farmaci», pur richiamando il fatto
che il grande economista Federico Caffè, di orientamento keynesiano, già
maestro del neo primo ministro Draghi, un anno prima dell’istituzione del
Servizio Sanitario Nazionale, affermava «di non vedere la ragione per la quale
non si dovesse nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica». Come
dissentire?
Ci spingono in questa direzione sia il presente del mancato rispetto, da
parte di Big Pharma, dei contratti di fornitura sia la storia del rapporto tra
imprenditorialità privata, nazionale e internazionale, e bisogni di salute. In
questi giorni sulla stampa e da Filctem Cgil della Rsu di Gsk di Siena, sono
state ricostruite le fasi della svendita e delle delocalizzazioni (offshoring)
dell’industria italiana del farmaco e dei vaccini e il tentativo e l’interesse
successivi al “rientro a casa” in Italia (reshoring), tutto all’insegna
della ricerca della redditività (costi di produzione inferiori anche del 25%) e
senza alcun profilo di “responsabilità sociale dell’impresa”, come definita
nella Costituzione (art. 41: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»), e della sua interazione con
l’art. 32! «Il Paese sconta decenni di assenza di una politica industriale di
settore e il disastro Enimont che negli anni ‘90 portò allo spezzatino e poi
alla cessione a Big Pharma del leader nazionale, la senese Sclavo» segnala N.
Borzi su Il Fatto quotidiano del 5 marzo (Da Enimont in
poi: come l’Italia perse i suoi vaccini, con significativo
sottotitolo Spezzatino. La Sclavo era un’eccellenza, eppure fu ceduta
[anche dai Marcucci] a gruppi esteri). «Farmaci, piano da 1,5 miliardi per
riportare le filiere in Italia» segnala a sua volta N. Ronchetti lo scorso 21
gennaio su Il Sole 24Ore, richiamando il progetto del Cluster
Alisei [con Farmindustria, Egualia (associazione di oltre 50 aziende
produttrici di generici, con un fatturato che supera i tre miliardi e un export
a quota 39%) e Federchimica Aschimfarma (associazione di circa 50 aziende
produttrici di principi attivi per un fatturato di quasi 3,5 miliardi con una
esportazione del 90%)] «di trasferimento delle conoscenze e delle
tecnologie dal settore della ricerca multidisciplinare a quello
dell’industria farmaceutico-biomedicale, nonché di favorire l’attrazione di
capitale pubblico e/o privato, indispensabile per lo sviluppo di progetti
innovativi». Il risultato di tutto ciò è che in Italia non abbiamo vaccini al
contrario di Cuba (industria pubblica collegata ai centri di ricerca universitari)
e di Usa, Cina, Russia (con gli imprenditori privati finanziati da enti
governativi centrali). Noi siamo stati sino allo scorso anno alla
regionalizzazione del (micro)finanziamento alla ricerca privata (= autonomia
regionale differenziata)!
Nei giorni scorsi il Governo Draghi, con il titolare del MEF
Giorgetti, è intervenuto sul tema, ma scartando qualsiasi ipotesi,
anche parziale, di nazionalizzazione dell’industria dei vaccini e dei farmaci e
del coinvolgimento dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare, come
suggerirebbero invece sia le tesi in materia di F. Caffè sia la stessa storia
della gestione di successo delle grandi epidemie della sanità pubblica
italiana. Verificata infatti, esclusivamente tramite Farmindustria (?!), la
disponibilità delle aziende italiane a provvedere a tutte le fasi della filiera
produttiva ‒ dai bulk all’infialamento dei vaccini anti-Covid ‒ il Governo ha
ribadito la volontà di sviluppare un polo nazionale per la ricerca di farmaci e
vaccini con investimenti pubblici (sino a 500 milioni di euro, per adesso) e
privati (?) e «una maggiore collaborazione fra pubblico e privato» per
rilanciare l’economia nazionale. Nonché l’adesione al Piano Hera Incubator
della Ue, che ripropone la stessa grande alleanza tra pubblico e privato in
Europa. Il tutto con la decisione comune con Farmindustria «di mantenere il
massimo riserbo sulle aziende che saranno coinvolte nel processo di verifica in
corso» (cfr. comunicato MEF del 3 marzo), come se le denunce di Manon Aubry al
Parlamento europeo e alla Presidente U. Von der Leyen di essersi piegati di
fronte a Big Pharma europei («i grandi leader farmaceutici hanno stabilito la
legge per lei», «nessuna informazione sui negoziati», «tutte
le informazioni più importanti come prezzo, programma di consegna, o anche
i dettagli delle clausole di responsabilità sono nascoste») non costituissero
un impressionante e sinistro precedente e non valessero per l’Italia.
Ma c’è di più. Consultando il web sono affiorate due notizie che non
sembrano aver avuto spazio adeguato nei dibattiti in materia sui media e che
invece costituiscono altrettanti quesiti cui il Governo Draghi (e i vertici
militari e parlamentari, le autorità accademiche universitarie e le fondazioni
bancarie) dovrebbero rispondere:
1) già nelle audizioni in Senato nel 2018 per la stesura del disegno di
legge n. 770 (Disposizioni in tema di prevenzione vaccinale) lo
Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare, unità produttiva della Agenzia
Industrie Difesa, venne esaminato in relazione alle sue potenzialità di sito di
produzione di vaccini con la conclusione che abbisognasse di circa 20 milioni
di euro e di adeguamento di personale per avviare produzioni di vaccino (cfr.
Fascicolo Iter DDL 770 del 07.03.2021 del Senato della Repubblica);
2) l’11 gennaio 2020 è stato presentato l’Accordo di collaborazione tra la
Fondazione Toscana Life Science (TLS) e l’Agenzia Industrie Difesa (AID) per il
coinvolgimento di una sua Unità Produttiva, lo Stabilimento Chimico
Farmaceutico Militare (SCFM) di Firenze, nella realizzazione di un programma
integrato di ricerca e sviluppo per la produzione di vaccini e anticorpi.
L’accordo è di cinque anni, si estende «alla realizzazione di alcuni asset
produttivi innovativi con i quali produrre, sia in condizioni ordinarie che
nell’emergenza, farmaci e vaccini essenziali per rispondere a eventuali
pandemie, come gli anticorpi monoclonali sviluppati da TLS oppure gli antidoti
contro gli aggressivi chimici» e «apre la strada alla possibile creazione di un
polo dedicato alla ricerca biomedica e farmaceutica per far fronte a eventuali
rischi pandemici, sviluppando nuove tecniche di produzione per vaccini e
anticorpi innovativi con particolare attenzione a target come virus, batteri
resistenti agli antibiotici, influenza e microorganismi patogeni emergenti».
Perché non si è proseguito su queste strade? Esse consentirebbero la
ricostituzione di un’industria pubblica del farmaco di sicuro affidamento per
il servizio sanitario nazionale e la tutela della salute (e dell’indipendenza
politica) dei cittadini italiani e non sarebbero in contrasto né con la
partecipazione al progetto europeo di gestione comune dell’emergenza vaccinale
e del diritto alla salute in generale, né con l’obbligo di necessità e
solidaristico di concorrere al diritto globale alla salute quale uno dei
principali driver della politica estera di pace dell’Italia. Tutt’altro.
L’alternativa, sfidante e più sicura della collaborazione pubblico-privato
su cui si continua a proseguire nonostante gli acclarati fallimenti, è sotto i
nostri occhi: un Network nazionale pubblico per la produzione e la
distribuzione dei farmaci, vaccini e farmaci salvavita compresi. Tale Network
sarebbe, senza alcun vincolo di riservatezza, sotto il controllo di congruità
politica del Parlamento e, finanziato dal bilancio dello Stato, vi
concorrerebbero il Servizio Sanitario Nazionale e le Università pubbliche,
nonché le Forze Armate, e sarebbe vincolato all’attuazione del dettato
costituzionale. Le forme specifiche di tale Network possono essere varie e
vanno definite nelle sedi competenti. Non sono da escludersi società di scopo a
proprietà unica del Ministero Economia Finanza, con il coinvolgimento nelle
funzioni di controllo di merito e contabile anche di altri organismi
istituzionali e pubblici oltre al MEF e/o la previsione nel Consiglio di
amministrazione e in altri organi statutari dei Ministeri della Ricerca e
Università, della Salute, della Difesa e di Agenas, dell’Istituto Superiore di
Sanità e delle Università. A fronte della impellente necessità di finanziare
adeguatamente tale Network per non subire i condizionamenti e gli imprevisti
del PNRR o di altri finanziamenti europei né caricare subito sul bilancio dello
Stato i finanziamenti necessari si potrebbero attingere fondi dalla Cassa
Depositi e Prestiti o addirittura dall’INAIL.
Non sarebbe male che su questi temi si attivassero esponenti delle
associazioni di professionisti che operano in sanità, esponenti del mondo
accademico e cultori delle varie discipline il cui contributo è indispensabile
a definire questa ipotesi, esercitando una facoltà critica dei limiti e dei
vincoli, molto più cogenti delle apparenti “opportunità”, del modello
neoliberista e incostituzionale di privatizzazione della ricerca e dei suoi
frutti. Ci si prova?
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