Dei tre
artisti che sono stati, io credo, i più «anarchici» nella storia della nostra
cultura almeno nella seconda metà del Novecento e dei primi lustri del Duemila
– Fellini, Pasolini e Bene – solo il terzo si dichiarò più di una volta
pienamente anarchico; gli altri due furono più cauti nelle loro dichiarazioni
di idealità politiche, ma la radicalità della loro ispirazione, messa a
confronto con i vari conformismi del loro tempo, ce li fa considerare tali
almeno in alcune fasi e opere della loro creazione.
Pasolini
tentò quasi ossessivamente un dialogo con la società in cui viveva e con il
proprio tempo, da
provocatore-educatore, soffrendo delle reazioni che ne risultavano e finendo,
io credo, per cercare la morte, per tirarsi fuori dalla società, dalla storia,
dalla vita.
Bene guardò
le cose dall’alto di un’eccezionale diversità, seguendo fino in fondo la propria vocazione, e fu il
più genialmente diverso di tutti.
Fellini,
infine, mediò per il possibile tra le sue convinzioni e acquisizioni e il mondo
dello spettacolo, lo spettacolo della società. Fu il più «mobile» dei tre, nonostante l’apparente
chiusura al confronto Rimini-Roma, e cioè provincia-città, passato-presente,
realtà-visione, normalità-eccezionalità e in definitiva io-tutti, io-tutto.
Formidabile
affascinatore di masse (di intellettuali e di popolo), Fellini espresse
una diversità esplosiva che poteva conquistare la curiosità l’attenzione il
rispetto dei pubblici più diversi e più lontani. Fu simile in questo, in
cinema, ai più grandi, ai Buñuel, Kurosawa, Bergman ma più di tutti a Kubrick,
per la grandiosità e libertà della sua invenzione. Mentre Pasolini e
Bene, pur grandissimi, si rivelarono o meno astuti di lui nella loro ricerca di
una fascinazione «di massa», o (Bene) più radicalmente altro e profondo, o
(Pasolini) più accanitamente alla ricerca di un dialogo, di un confronto.
Se Bene fu
coscientemente anarchico (individualista), Pasolini lo fu senza averne piena
coscienza, per
disillusione nei confronti di una collettività che tradiva le speranze di una
generazione e i valori di una tradizione, e Fellini progressivamente,
via via che il suo confronto con la Storia del suo tempo gli imponeva una
visione meno ironica della realtà (e cioè distanziata, da grande umorista quale
anche era). Più di Bene – che si contentava di un pubblico elitario e
fedele – e più di Pasolini – che si voleva in fin dei conti poeta-vate come
quelli del tardo Ottocento – Fellini, come Kubrick, voleva piacere al colto e
al semplice, all’alto e al basso; e prese presto gusto a un cinema «for the
millions», che era tra i pochi a saper praticare, con una diversità che era
insieme stupefacente e profonda, comprensibile e libera.
Dopo
l’iniziale adesione ai valori di un umanesimo che possiamo ben dire anarcoide
(soprattutto La strada [1954]), è di fronte all’euforico
disordine del boom e più ancora alla cinica reazione del potere alle
prospettive di cambiamento cercate da una minoranza (spesso superficiale nelle
analisi e nei valori) e al crollo dell’illusione in un diverso controllo della
storia in una chiave diciamo pure socialdemocratica e progressista, che Fellini
si disincanta e che gli si fa chiaro un quadro sociale, nazionale e
internazionale, nuovo e terribile, non diversamente da quanto hanno vissuto e
considerato altri, da quello che altri grandi hanno sofferto e su cui hanno
ragionato, anche diversissimi da Fellini, e su cui infine è stato Christopher
Lasch a scrivere le pagine più lucide in La cultura del narcisismo.
Dire Fellini
anarchico è una forzatura? Forse lo è pensando ai film degli anni di splendore – ideologicamente incerti nonostante
la solidità e la forza del quadro sociale affrontato, la loro immaginifica
ricchezza, la loro formidabile vitalità, la crudeltà profonda dell’insieme
anche se superficialmente colorata – ma lo è sempre di meno via via che
Fellini ha sentito l’urgenza di spingersi più a fondo, l’insoddisfazione del
presente, il bisogno di scavarne il senso e la paura delle conclusioni a cui
tutto questo avrebbe potuto portarlo e lo ha infine portato.
Il giudizio si fa più profondo e insieme più amaro, ma si fa anche più limpido. Più amaro e perfino più tragico. È sul fallimento di una civiltà che infine Fellini ragiona negli ultimi film: dell’umanesimo, della democrazia. Ed è qui che sentiamo Fellini più vicino, amaro della nostra stessa amarezza. Fino alla jacovittiana «sagra dello gnocco» che è il quadro più spietato dell’imbecillità che ci sovrasta – la società del consumo e, più tardi, del coronavirus… Due poveri sbandati e sciocchi, marginali per condizione ma anche per scelta, sono gli unici a volere e sapere ascoltare ancora, leopardianamente, «la voce della luna». Il giro è chiuso, e sì, Fellini è arrivato a convinzioni che sono ormai pienamente e saldamente anarchiche. Disperatamente anarchiche. «Una forma di disperazione creativa» definì l’anarchia Colin Ward, il più chiaro dei suoi teorici. A questo Fellini era ormai giunto, ed è a questo punto che la sua parabola si è conclusa.
da qui
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