La
mediocrazia, perchè ne parliamo rispetto a Mario Draghi. In tempi di crisi il
tempo vola. In appena tredici giorni il “governo dei migliori” ha rivelato
un’altra faccia, rovesciandosi nel proprio opposto: una kakistocrazia.
Un “governo dei peggiori”. In questo senso la fotografia inguardabile
dell’accozzaglia di sottogovernisti appena entrati in carica potrebbe essere
considerata come una “prova della verità”. Una sorta di prova del nove – o
meglio “dei 39” – di quanto fosse fallace, e infantile, il Te deum elevato
da quasi tutti – opinion leader e leader senza opinione – al
momento dell’elevazione al trono. E di quanto sia malconcio, prostrato ed
esangue – diciamolo pure: “senza speranza” – un Paese che si affidi a una tale
soluzione con entusiasmo cieco. E’ la conferma dell’infausta diagnosi di chi
fin da subito ha colto nella sua sindrome “bipolare” la patologia del nuovo
governo, diviso tra caveau e pollaio: la cassaforte nelle mani
dei fidati uomini di banca (ribattezzati per l’occasione “i migliori”) e il
resto ridotto a stia appollaiati sulla quale gli avatar delle
diverse forze politiche ormai estenuate potessero starnazzare a piacere,
impaludati nella propria mediocrità. Insomma, un pasticciaccio brutto, degno
risultato del “gesto inconsulto” con cui Matteo Renzi il 13 gennaio ha dato
inizio alla reazione a catena che ci ha portati fin qui.
E’, d’altra
parte, questa bipolarità, l’applicazione concreta del concetto di “pilota
automatico” evocato dallo stesso Mario Draghi nel 2013 per tranquillizzare “i
mercati” spaventati dai risultati di quelle elezioni: formula con cui frenò
lo spread, è vero, ma inferse un colpo durissimo all’idea di
democrazia, confessando di fatto che “i fondamentali” economici e finanziari –
in sostanza le cose che contano e su cui si fanno i conti – sono sottratti al
voto popolare, custoditi sempre e comunque “in buone mani”. Ora quell’immagine
si fa carne e sangue (vive la propria teologica transustanziazione), se è vero,
come si dice, che il nuovo presidente del Consiglio non ha voluto per nulla metter
mano alla lista dei sottosegretari e dei viceministri (de minimis non
curat praetor) concentrato com’è sugli strumenti di volo e sul timone in
cabina di pilotaggio, senza badare a cosa accade nella stiva. E non so se sia
stato in questo prudente, perché comunque gli strafalcioni del suo membro di
ciurma che confonde Dante Alighieri con Topolino (nell’anno del VII centenario
della morte) e si accomoda alla Pubblica istruzione, o di quella che,
incardinata ai Beni culturali, si vanta di non aver letto un libro da anni, o
ancora la presenza dell’avvocato specialista in escort berlusconiane alla
Giustizia, o dei like apposti all’elogio dei forni per gli
immigrati e dell’indirizzo terronigohome@ scelto per la
propria posta elettronica…, tutta questa fanghiglia, insomma, un qualche
schizzo sulla sua immacolata tunica angelica finirà pur per lasciarlo… Tanto
più che sotto quell’abito qualche magagna spunta: per esempio
nell’acclamato discorso al Senato quel “copia incolla” (mica cosa
da poco, una trentina di righe che a un normale tesista costerebbero la laurea)
di un articolo di Francesco Giavazzi del 30 giugno 2020 – s’intitolava I passaggi necessari sul
fisco –, per cui
non si sa se deprecare di più l’atto del plagio o il profilo ideologico del
plagiato…
Da quel
testo “sinottico” (come per i Vangeli) del nuovo capo del governo e del suo
nuovo consigliere, un osservatore maligno ma attento (Giovanni La Torre, un
esperto in istituzioni bancarie e finanziarie, nella rubrica “I gessetti di Sylos” inteso come Labini, un nome e
un cognome impegnativi), ha voluto trarre la costatazione “blasfema” che in
realtà “san Supermario è un neoliberista di destra” – come, appunto, l’autore
dell’originale e suo neoconsigliere – “e che tutto quanto si continua a
diffondere su di lui, quale liberalsocialista, keynesiano, erede di Caffè, ecc.
ecc., sono solo delle ciarle, e nulla più”. E non è il solo, a bestemmiare
l’ultimo dio. Anche Carlo Clericetti, che non è certo un estremista di Potere
al popolo ma un giornalista di Repubblica – gestisce un Blog su “Soldi e
potere” in cui per primo ha “smascherato” il plagio sotto il titolo Si scrive Draghi si legge Giavazzi (ne ha già parlato su Volere la luna Tomaso
Montanari) – si preoccupa, non tanto della scelta del brano “copiato” ma di quella del
consigliere assunto in quanto, scrive, se Draghi “ha deciso di farsi
consigliare da Giavazzi c’è da preoccuparsi ancor di più, perché significa che
ci inoltreremo nel neoliberismo duro e puro, quello che ha permesso che milioni
di persone delle economie sviluppate scivolassero nella povertà”. Giavazzi,
infatti – ci ricorda Clericetti – è stato in Italia uno dei più attivi
promotori, insieme al collega Alesina, della famigerata teoria dell’”austerità
espansiva” che – sostenendo l’ardita tesi secondo cui i tagli a spesa pubblica
e tasse favorirebbero il benessere di tutti – “mandò in sollucchero tutte le
destre del mondo” anche se “alla prova dei fatti si è rivelata una bufala e
ormai a sostenerla sono rimasti in pochi. Peccato che – conclude -, nel
frattempo, chi l’ha applicata abbia massacrato la vita dei ceti meno abbienti,
ma che ci vuoi fare, tutti possono sbagliare”…
Alla luce di
questo, allora, la discrasia di una “squadra” dall’Io diviso, come si è detto,
tra caveau e pollaio appare assai meno difficile da concepire e assai più
congruente a un modello in fondo “generale”: la bruttezza estetica
dell’emisfero inferiore del Governo non sarebbe infatti che il corrispettivo
dell’ insensibilità sociale (per usare un eufemismo) del suo emisfero
superiore. E il tanto decantato “cambio di passo” impresso dall’esecutivo non
sarebbe altro che un “mettersi al passo” di un esistente intrascendibile: di un
modello (iniquo e in prospettiva destinato al fallimento) che si presenta privo
di reali alternative, e in cui appunto il dogma privatistico-liberista che ha
dominato (e ci ha rovinati) nell’ultimo trentennio – sia pur temperato e
riadattato alla situazione estrema prodotta dalla pandemia – si conferma come
unica regola del mondo. Un universo, questo, in cui la mediocrità del personale
politico e amministrativo appare più che un difetto una regola, come ci ha
spiegato, d’altra parte, già qualche anno fa, il canadese Alain Deneault, che
alla Mediocrazia ha dedicato un intero volume. In società
altamente specializzate, con routines e funzioni
standardizzate e orientate all’interesse di megastrutture tendenzialmente
monopolistiche – dice il filosofo – “i poteri costituiti non deplorano i
comportamenti mediocri, li rendono inevitabili”. Nelle “strutture dominate
dall’allettamento del lucro” la “stupidità funzionale” – ovvero il “rifiuto di
ricorrere al proprio potenziale intellettuale se non in maniera miope” e
l’”arte dell’elusione di fronte a qualunque richiesta di giustificazione” – è
“dottamente raccomandata” e sistematicamente praticata (d’altra parte, come osservava
Musil, “se la stupidità non assomigliasse così tanto al progresso, al talento,
alla speranza e al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”). In questi
contesti la forma politica dominante è la République des girouettes,
in cui “appena data, la parola, fragile, fluida, effimera, si ritrova
sciupata”. E il rischio perenne è la prevalenza della destra, spesso la
peggiore, quella di cui si può dire che “la pulsione di morte è il suo
mestiere, la fine del pensiero complesso il suo sogno e l’estirpazione di ogni
differenza la sua soluzione” (Salvini docet).
Qui siamo. E
forse dovremmo smettere di illuderci sulla sopravvivenza di un brandello di
quella democrazia in cui crediamo, e incominciare a pensare al livello del buio
in cui camminiamo. A chi come noi insiste nel chiedere “a che punto è la notte”
la sentinella non può non rispondere che “l’alba è lontana”.
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