mercoledì 10 marzo 2021

Caveau e pollaio – La mediocrazia funzionale di Mario Draghi - Marco Revelli

 

La mediocrazia, perchè ne parliamo rispetto a Mario Draghi. In tempi di crisi il tempo vola. In appena tredici giorni il “governo dei migliori” ha rivelato un’altra faccia, rovesciandosi nel proprio opposto: una kakistocrazia. Un “governo dei peggiori”. In questo senso la fotografia inguardabile dell’accozzaglia di sottogovernisti appena entrati in carica potrebbe essere considerata come una “prova della verità”. Una sorta di prova del nove – o meglio “dei 39” – di quanto fosse fallace, e infantile, il Te deum elevato da quasi tutti – opinion leader e leader senza opinione – al momento dell’elevazione al trono. E di quanto sia malconcio, prostrato ed esangue – diciamolo pure: “senza speranza” – un Paese che si affidi a una tale soluzione con entusiasmo cieco. E’ la conferma dell’infausta diagnosi di chi fin da subito ha colto nella sua sindrome “bipolare” la patologia del nuovo governo, diviso tra caveau e pollaio: la cassaforte nelle mani dei fidati uomini di banca (ribattezzati per l’occasione “i migliori”) e il resto ridotto a stia appollaiati sulla quale gli avatar delle diverse forze politiche ormai estenuate potessero starnazzare a piacere, impaludati nella propria mediocrità. Insomma, un pasticciaccio brutto, degno risultato del “gesto inconsulto” con cui Matteo Renzi il 13 gennaio ha dato inizio alla reazione a catena che ci ha portati fin qui.

 

E’, d’altra parte, questa bipolarità, l’applicazione concreta del concetto di “pilota automatico” evocato dallo stesso Mario Draghi nel 2013 per tranquillizzare “i mercati” spaventati dai risultati di quelle elezioni: formula con cui frenò lo spread, è vero, ma inferse un colpo durissimo all’idea di democrazia, confessando di fatto che “i fondamentali” economici e finanziari – in sostanza le cose che contano e su cui si fanno i conti – sono sottratti al voto popolare, custoditi sempre e comunque “in buone mani”. Ora quell’immagine si fa carne e sangue (vive la propria teologica transustanziazione), se è vero, come si dice, che il nuovo presidente del Consiglio non ha voluto per nulla metter mano  alla lista dei sottosegretari e dei viceministri (de minimis non curat praetor) concentrato com’è sugli strumenti di volo e sul timone in cabina di pilotaggio, senza badare a cosa accade nella stiva. E non so se sia stato in questo prudente, perché comunque gli strafalcioni del suo membro di ciurma che confonde Dante Alighieri con Topolino (nell’anno del VII centenario della morte) e si accomoda alla Pubblica istruzione, o di quella che, incardinata ai Beni culturali, si vanta di non aver letto un libro da anni, o ancora la presenza dell’avvocato specialista in escort berlusconiane alla Giustizia, o dei like apposti all’elogio dei forni per gli immigrati e dell’indirizzo terronigohome@ scelto per la propria posta elettronica…, tutta questa fanghiglia, insomma, un qualche schizzo sulla sua immacolata tunica angelica finirà pur per lasciarlo… Tanto più che sotto quell’abito qualche magagna spunta: per esempio nell’acclamato discorso al Senato quel “copia incolla” (mica cosa da poco, una trentina di righe che a un normale tesista costerebbero la laurea) di un articolo di Francesco Giavazzi del 30 giugno 2020 – s’intitolava I passaggi necessari sul fisco –, per cui non si sa se deprecare di più l’atto del plagio o il profilo ideologico del plagiato…

 

Da quel testo “sinottico” (come per i Vangeli) del nuovo capo del governo e del suo nuovo consigliere, un osservatore maligno ma attento (Giovanni La Torre, un esperto in istituzioni bancarie e finanziarie, nella rubrica “I gessetti di Sylos” inteso come Labini, un nome e un cognome impegnativi), ha voluto trarre la costatazione “blasfema” che in realtà “san Supermario è un neoliberista di destra” – come, appunto, l’autore dell’originale e suo neoconsigliere – “e che tutto quanto si continua a diffondere su di lui, quale liberalsocialista, keynesiano, erede di Caffè, ecc. ecc., sono solo delle ciarle, e nulla più”. E non è il solo, a bestemmiare l’ultimo dio. Anche Carlo Clericetti, che non è certo un estremista di Potere al popolo ma un giornalista di Repubblica – gestisce un Blog su “Soldi e potere” in cui per primo ha “smascherato” il plagio sotto il titolo Si scrive Draghi si legge Giavazzi (ne ha già parlato su Volere la luna Tomaso Montanari) – si preoccupa, non tanto della scelta del brano “copiato” ma di quella del consigliere assunto in quanto, scrive, se Draghi “ha deciso di farsi consigliare da Giavazzi c’è da preoccuparsi ancor di più, perché significa che ci inoltreremo nel neoliberismo duro e puro, quello che ha permesso che milioni di persone delle economie sviluppate scivolassero nella povertà”. Giavazzi, infatti – ci ricorda Clericetti – è stato in Italia uno dei più attivi promotori, insieme al collega Alesina, della famigerata teoria dell’”austerità espansiva” che – sostenendo l’ardita tesi secondo cui i tagli a spesa pubblica e tasse favorirebbero il benessere di tutti – “mandò in sollucchero tutte le destre del mondo” anche se “alla prova dei fatti si è rivelata una bufala e ormai a sostenerla sono rimasti in pochi. Peccato che – conclude -, nel frattempo, chi l’ha applicata abbia massacrato la vita dei ceti meno abbienti, ma che ci vuoi fare, tutti possono sbagliare”…

 

Alla luce di questo, allora, la discrasia di una “squadra” dall’Io diviso, come si è detto, tra caveau e pollaio appare assai meno difficile da concepire e assai più congruente a un modello in fondo “generale”: la bruttezza estetica dell’emisfero inferiore del Governo non sarebbe infatti che il corrispettivo dell’ insensibilità sociale (per usare un eufemismo) del suo emisfero superiore. E il tanto decantato “cambio di passo” impresso dall’esecutivo non sarebbe altro che un “mettersi al passo” di un esistente intrascendibile: di un modello (iniquo e in prospettiva destinato al fallimento) che si presenta privo di reali alternative, e in cui appunto il dogma privatistico-liberista che ha dominato (e ci ha rovinati) nell’ultimo trentennio – sia pur temperato e riadattato alla situazione estrema prodotta dalla pandemia – si conferma come unica regola del mondo. Un universo, questo, in cui la mediocrità del personale politico e amministrativo appare più che un difetto una regola, come ci ha spiegato, d’altra parte, già qualche anno fa, il canadese Alain Deneault, che alla Mediocrazia ha dedicato un intero volume. In società altamente specializzate, con routines e funzioni standardizzate e orientate all’interesse di megastrutture tendenzialmente monopolistiche – dice il filosofo – “i poteri costituiti non deplorano i comportamenti mediocri, li rendono inevitabili”. Nelle “strutture dominate dall’allettamento del lucro” la “stupidità funzionale” – ovvero il “rifiuto di ricorrere al proprio potenziale intellettuale se non in maniera miope” e l’”arte dell’elusione di fronte a qualunque richiesta di giustificazione” – è “dottamente raccomandata” e sistematicamente praticata (d’altra parte, come osservava Musil, “se la stupidità non assomigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza e al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”). In questi contesti la forma politica dominante è la République des girouettes, in cui “appena data, la parola, fragile, fluida, effimera, si ritrova sciupata”. E il rischio perenne è la prevalenza della destra, spesso la peggiore, quella di cui si può dire che “la pulsione di morte è il suo mestiere, la fine del pensiero complesso il suo sogno e l’estirpazione di ogni differenza la sua soluzione” (Salvini docet).

Qui siamo. E forse dovremmo smettere di illuderci sulla sopravvivenza di un brandello di quella democrazia in cui crediamo, e incominciare a pensare al livello del buio in cui camminiamo. A chi come noi insiste nel chiedere “a che punto è la notte” la sentinella non può non rispondere che “l’alba è lontana”.

da qui

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