In piena emergenza
Covid-19, hanno sgomberato una famiglia con un bambino di quattordici mesi che
viveva in quella casa del quartiere Giambellino di Milano dal 2019. Li
hanno lasciati in strada per giorni a dormire sulle scale comuni delle cantine
del caseggiato. Nell’appartamento chiuso hanno dovuto lasciare le poche cose
che gli hanno tolto insieme alla casa: documenti, vestiti, il lettino del
bambino, i pannolini e gli omogeneizzati. Agli antipodi, in una favela
di Buenos Aires, Brian, Walter, Yesica e Janina hanno saltato completamente il
primo anno della scuola primaria e ora, a quasi otto anni, non sono
ancora in grado di riconoscere lettere e numeri.
Ed ecco allora
che il Covid mescola e confonde i piani di legalità,
responsabilità e morale. Che cos’è più morale, in un quartiere povero
di qualsiasi città del mondo durante il lockdown? Per qualcuno, la risposta è
restare asserragliati in casa, come prescrivono la legge e l’hashtag #iorestoacasa, primo comandamento della religione
planetaria di Facebook. Per altri è organizzare una scuola di strada. È più
responsabile che una madre rinunci al lavoro (anzi, smart work), per permettere
al suo bambino di usare il suo computer per i meet con la scuola, o che
sacrifichi l’educazione del figlio per non fare mancare al reddito della
famiglia il proprio apporto? Apporto che, in molti casi, è l’unico. Perché se
non si ha un lavoro, se non si ha di che comprarsi da mangiare, come si fa a
stare in salute? Se non si ha una casa, dove si può fare la quarantena? Se la
casa è composta da un mono/bilocale o non ha un accesso a Internet come fanno i
figli a fare la didattica a distanza? Se avremo una crisi economica
pesantissima, come pagheremo la sanità pubblica? La risposta che diamo
a queste domande, forse, è la misura del tipo di società che abbiamo costruito
e di quella che potremmo costruire. C’è chi ha pagato in modo sproporzionato le
conseguenze delle misure di contenimento del virus, senza averne ottenuto alcun
vantaggio.
Sono le classi
popolari di ogni latitudine, quelle che non hanno risparmi perché il basso
reddito se ne va tutto in consumi primari, quelle non tutelate dai blocchi
dei licenziamenti perché lavorano in nero e che, per lo stesso motivo,
sono impossibilitate a chiedere sussidi di disoccupazione. Sono le famiglie
povere intrappolate in case affollate e insalubri, dove l’areazione e il
distanziamento sono impossibili e dove i contagi vengono favoriti anziché
evitati. Sono i bambini che sono stati privati della scuola (in presenza e a
distanza) per un anno intero, a causa delle difficoltà di accesso a dispositivi
elettronici e connessione Internet. Sono le donne (non solo
quelle in difficoltà economica) che hanno rinunciato a un lavoro per
dedicarsi alla cura dei figli piccoli rimasti a casa da scuola, per
esempio bimbi di sei-sette in difficoltà nel seguire da soli le lezioni a
distanza.
Non a caso, per
Covid-19 sarebbe più appropriato, al posto del termine “pandemia”, quello di
“sindemia”, come ha scritto Richard Horton nel suo editoriale
su The Lancet di cui è caporedattore A differenza della
pandemia, che indica il diffondersi di un agente infettivo in grado di colpire
più o meno indistintamente con la stessa gravità chiunque, parlare di
sindemia vuol dire tenere in conto della interazione tra Covid-19, malattie non
trasmissibili e condizioni socio-economiche. Horton avverte che se tutti
gli interventi si concentrano solo sul limitare il contagio e la diffusione del
virus, finiamo col dimenticare che le misure restrittive a lungo
termine possono aumentare le diseguaglianze sociali e
creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi e
peggiora le condizioni di vita delle classi sociali più in difficoltà, di fatto
aumentando la mortalità.
Ora si parla tanto
della necessità di vaccinare anche i bambini ma, prima di
preoccuparci che si ammalino per Covid-19, perché come sappiamo succede assai raramente *, è fondamentale
ricordare che l’impatto delle misure di contenimento sulla salute
infantile è stato ed è devastante: 200.000 ulteriori casi di bambini nati morti
potrebbero verificarsi nel corso di un anno per il minore accesso delle donne
ai servizi di salute materna ed ed è stato stimato un aumento di 10.000 morti
infantili aggiuntive al mese per malnutrizione acuta nel corso di un anno di
pandemia. Nei “paesi in via di sviluppo”, si prevede un aumento del 15 per
cento della povertà infantile, con ulteriori 142 milioni di bambini che si
ritroveranno in famiglie al di sotto della soglia di povertà (dati Unicef).
In Italia la
situazione non è diversa: nel 2020 siamo arrivati a 5,6 milioni di persone
sotto la soglia della povertà assoluta: quasi il 10 per cento, in netto
aumento rispetto all’anno prima, quando erano il 7,7 per cento. Dei 444 mila
occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, il 70 per cento è
costituito da donne, di ogni livello socio-economico (Istat, Nature).
Ecco, noi insistiamo
che nel valutare le emergenze ci vuole meno miopia e meno ipocrisia. “La
romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe” stava scritto su
un lenzuolo appeso ad un balcone di Madrid. Perché se è vero che siamo nella
stessa tempesta, certamente non stiamo tutti sulla stessa barca.
* Considerando gli
Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Germania, Spagna, Francia e Corea del Sud, i
decessi per COVID-19 nei bambini sono rimasti rari fino al febbraio 2021, a
0-17 per 100 000 abitanti, comprendendo lo 0-48 per cento della mortalità
totale stimata per tutte le cause in un anno normale
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