Qui la politologia si arrende. E anche la politica, intesa come arte
conoscitiva del possibile. Forse solo la psicanalisi riesce in qualche modo a
dar conto delle convulsioni che stanno squassando i Cinquestelle. Il “buffet
delirante” che si è impadronito dell’unico fondatore sopravvissuto, spingendolo
a destabilizzare il “suo movimento” nel momento più delicato di una già di per
sé arrischiata transizione, si spiega solo con profonde patologie dell’Io.
Anzi, dell’Io “patriarcale”: il più arcaico, il più selvaggio, quello del
patriarca che non sopporta che la propria tribù possa vivere in qualche misura
di vita propria. Quello del creatore che odia persino l’idea che la sua
creatura si distacchi da lui. O del padre che odia i figli per la sola ragione,
biologica, che gli sopravvivranno. Insomma, la “sindrome di Crono”, che come ci
insegna la mitologia se non superata da un qualche Giove olimpico produce un
mortale arresto del corso storico.
Ora, proprio per l’insostenibile pesantezza del ruolo dell’Ombra e dell’Inconscio
in questa brutta faccenda, è difficile prevedere cosa ci aspetti nei giorni
prossimi, come evolverà o involverà la crisi. Se l’Uno si spezzerà in due (non
metà, ma quarti, ottavi, sedicesimi). Se si assisterà a una classica scissione,
o a una scalata dall’interno. O alla stipula di una tregua, che illuda di
congelare uno status quo ormai comunque perduto. Non è dato
neppure capire se la “mediazione” che porterebbe a superare l’elezione dei 5
del “Comitato direttivo” con la nomina di “7 saggi” (sette come “i re di Roma”,
come “i nani di Biancaneve”, come “I sette a Tebe” di Eschilo…), andrà in porto
oppure no. Se Conte allargherà le maglie della propria finora abbondante
pazienza o esprimerà il suo Vaffa… Ma quel che è certo è che il sistema politico
italiano ne esce ulteriormente dinamitato. Il sistema politico, si badi, non il
governo. Il quale anzi potrà rafforzare il proprio segno già naturalmente
conservatore. La propria vocazione alla verticalizzazione della decisione. Al
monopolio dell’indirizzo politico. Alla rappresentanza pressoché diretta e
senza residui dell’universo imprenditoriale, senza più nemmeno il fastidio di
possibili interferenze parlamentari: da parte cioè di un potere legislativo –
di un Parlamento – ridotto a mero ornamento, nel quale la maggioranza numerica
uscita dalle urne del 2018 sull’asse M5S e PD si disperde nei rivoli di una
crisi d’identità apparentemente terminale.
Draghi, dunque, potrà continuare a governare – con logica bonapartista –
indifferente alle contorsioni delle forze parlamentari come il praetor del
diritto romano che de minimis non curat (indifferente persino
– ed è uno scandalo! – al fatto che il leader dell’unico partito della sua
maggioranza che ha un ministro economico di primo piano, faccia lega con
sovranisti come Orban e neonazisti come quelli di Afd). Governerà, come un vero
Comitato d’affari dei potentati economici e finanziari quale appunto è. Ma lo
farà nel contesto di un sistema politico (e sociale) in disfacimento. Nel quale
le ampie falle aperte nell’involucro costituito a suo tempo dal M5S lasceranno
defluire flussi di voti consistenti in parte, probabilmente, verso
un’astensione già stellare, in parte (minore) verso un PD che nulla fa per
meritarseli, ma in parte e in misura consistente verso destra. E questo degli
ex voti grillini in marcia verso Meloni o Salvini sarà una piaga del prossimo futuro,
perché è un esodo verso una destra a sua volta divisa e litigiosa al suo
interno ma sempre più trasversalmente attraversata da sentimenti nazionalisti
(si veda il patto sovranista in Europa) e fascistoidi (anzi decisamente
fascisti, come testimoniano le reazioni alla mattanza carceraria di Santa Maria
Capua Vetere). Una destra, aggiungiamolo, che pretenderà di mettere il proprio
sigillo sulla prossima elezione del Capo dello Stato, forte della posizione in
cui la pone la dissoluzione del Centro.
Oggi festeggiano un po’ tutti – giornalini e giornaloni, partitini e
partitoni, da Libero al Foglio a Domani fino a Repubblica, dagli amici di
Draghi e quelli di Renzi o di Calenda -, la crisi di quell’anomalia selvaggia
che non avevano mai digerito, fin dal 2013, quando era emersa come il mostro di
Loch’ness nel mezzo della palude politica italiana e poi ancora dal 2018,
quando aveva doppiato tutti gli altri. Festeggiano, e sembrano l’orchestrina
che suona sul ponte del Titanic. Perché quello che vediamo all’opera oggi nei
5stelle è in realtà – in forma esasperata ed estrema, come nel loro carattere –
la rappresentazione di una crisi generale della politica democratica e dei suoi
assetti. Di un processo dissolutivo più generale e altrettanto profondo, il
quale affonda le radici nell’esito della parabola populista, e nel panorama di
rovine che lascia allo scoperto.
In fondo, se ci ragioniamo a mente un po’ più sgombra, non può sfuggirci
l’analogia tra l’attuale “follia” di Beppe Grillo, e il destino di altre due figure
chiave del populismo 2.0, come Matteo Renzi, da una parte, e Matteo Salvini
dall’altra. Tutti e tre hanno costruito le rispettive creature politiche sulle
proprie persone – su una personalizzazione esasperata -. E tutti e tre le hanno
“sabotate” nell’incapacità di mediare i propri Ego straripanti con la realtà.
E’ in fondo il destino della sindrome populista che di emotività personalizzata
ferisce e di emotività personalizzata perisce. Il successo, tuttavia, di quel
populismo di ultima generazione, la sua eccedente energia politica, nasceva dal
fatto che metteva allo scoperto una malattia mortale della democrazia
contemporanea: la sua incapacità a rappresentare i rispettivi popoli. Ora
quella domanda inespressa di rappresentanza rimane intatta, ma la risposta ad
essa rischia di ritorcersi contro lo stesso involucro istituzionale in cui è
contenuta. Per demolire anche gli ultimi simulacri di democrazia
costituzionale. Per questo lo scenario post-populista a cui ci affacciamo
rischia di essere istituzionalmente più disastroso di quello, pur travagliato,
che abbiamo vissuto.
Gramsci, ragionando sul 1921, scrisse a suo tempo che i comunisti stessi
allora erano stati parte del generale processo di dissoluzione il cui esito era
stato il fascismo. C’è il rischio che anche noi, oggi, sottovalutiamo la forza
della dissoluzione.
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