«Federico Caffè amava ripetere che “fare politica
economica significa tre cose: analisi della realtà, rifiuto delle sue
deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle”. Una citazione che
si accompagna perfettamente al noto motto di Luigi Einaudi, secondo cui occorre
“conoscere per deliberare”. Le Commissioni Finanze di Camera e Senato hanno inteso
innanzitutto rispettare il motto di quei due grandi intellettuali, compiendo un
percorso di sei mesi di analisi della realtà, di rifiuto delle sue
deformazioni, di acquisizione di conoscenze e del loro impiego rivolto alla
soluzione dei problemi esistenti». È questa la motivazione che le Commissioni
Finanze del Parlamento ha dato alla “Indagine conoscitiva sulla riforma
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema
tributario”, che ha portato il 30 giugno all’approvazione di un documento
conclusivo, «affinché possa fungere da indirizzo politico al Governo per la
predisposizione della legge delega sulla riforma fiscale, che l’Esecutivo si è
impegnato a presentare entro il 31 luglio 2021». Il documento è articolato in
due capitoli. Il primo presenta gli obiettivi dell’intervento di riforma:
«stimolare l’incremento del tasso di crescita potenziale dell’economia italiana
e rendere il sistema fiscale più semplice e certo». Il secondo capitolo
contiene proposte riguardanti le principali imposte del nostro sistema
tributario: IRPEF, IRES, IVA, IRAP ecc.
Subito si nota una clamorosa assenza: tra gli
obiettivi dichiarati non c’è l’equità, che in realtà dovrebbe essere il
fondamento di ogni sistema fiscale. Da sottolineare anche la visione ideologica che
considera la crescita economica una priorità assoluta, a prescindere, ad
esempio, dalla sostenibilità ambientale. Se queste sono le premesse, è ovvio
che da questo documento parlamentare non c’è molto da attendersi. Eppure dal
testo emergono alcune considerazioni interessanti, a volte in palese contrasto
con gli obiettivi dichiarati nel documento, forse specchio delle diverse idee
rappresentate in Parlamento. Anzitutto il documento evidenzia la necessità di
una riforma: «Il ciclo di audizioni ha confermato in maniera chiara e
inequivocabile che la struttura delle aliquote marginali effettive presenti nel
nostro sistema imposte-benefici è altamente inefficiente nonché dannosa per la
crescita economica». Ennesima conferma che il problema non è l’iniquità, ma il
danno alla crescita. Infatti, si aggiunge: «Appare quindi fondamentale
semplificare e razionalizzare il quadro normativo, per garantire certezza
nell’applicazione delle norme e coerenza dell’impianto impositivo, nonché per
assicurare che il sistema tributario sia percepito come equo, affidabile e
trasparente e, infine, per ridurre l’elevato contenzioso». Non è rilevante che
il fisco sia equo: l’importante è che sia “percepito” come equo. Di
conseguenza, anche le dichiarazioni di principio sembrano più dovute che
convinte: «Mentre si conferma la piena adesione al precetto costituzionale di
progressività del sistema fiscale, si sottolinea che il conseguimento
dell’obiettivo redistributivo (oggi largamente affidato all’imposta personale
sui redditi) può avvenire non solo tramite l’operare dei tributi ma anche sul
lato delle uscite pubbliche». In altre parole, il compito di ridurre le
disuguaglianze deve essere spostato dal fisco alle politiche assistenziali. La
differenza di visione è evidente e notevole.
Analizzando la seconda parte del documento, nella
quale si trovano le misure specifiche, ci sono spunti interessanti. Ad esempio,
uno dei principali problemi dell’attuale sistema fiscale è dovuto a quei
redditi che sfuggono al criterio della progressività, attraverso l’applicazione
di imposte sostitutive proporzionali (di fatto si tratta di flat tax).
Le Commissioni parlamentari prendono posizione: «La crescente estensione dei
regimi di tassazione sostitutiva infatti determina un carico fiscale diseguale
tra le varie fonti di reddito, generando una violazione del principio di equità
orizzontale e incidendo negativamente sulla capacità redistributiva
dell’imposta, anche in considerazione della mancata applicazione a tali redditi
delle addizionali comunali e regionali. Nel complesso, in Italia l’applicazione
ai redditi di regimi sostitutivi proporzionali riduce la base imponibile
dell’Irpef di circa un decimo, effetto in gran parte riconducibile alla
tassazione dei redditi finanziari, dei redditi d’impresa e dei redditi da
lavoro autonomo, soprattutto dopo l’estensione del prelievo proporzionale ai
soggetti con ricavi non superiori a 65 mila euro». Di conseguenza, dalla
Commissione ci si aspetterebbe la richiesta che l’imposta progressiva si debba applicare
al cumulo di tutti i redditi percepiti da un contribuente. Invece, subito dopo
si afferma che «tale opzione presenta numerose conseguenze di tipo economico e
politico, in quanto implicherebbe l’incremento anche sostanziale della
tassazione su diverse categorie reddituali». Insomma, il cumulo dei redditi
sarebbe giusto, ma penalizzerebbe le categorie con redditi elevati. Quindi, non
s’ha da fare…
Il documento affronta anche il nodo dell’unità
impositiva: è più corretto che le tasse vengano pagate dal singolo individuo
oppure dalla famiglia? La Commissione parlamentare pone il problema in modo
corretto: «La scelta dell’individuo presuppone che la sua capacità contributiva
sia indipendente dalle scelte personali in merito alla composizione del nucleo familiare.
La scelta della famiglia invece presuppone l’esistenza di economie di scala e
che le decisioni degli individui vengano prese in base al flusso di reddito
complessivo del nucleo familiare». Ma la risposta è deludente: «la Commissione
concorda che sia opportuno mantenere il reddito individuale come unità
impositiva dell’imposta personale sui redditi». Tutto ciò in palese contrasto
con un’affermazione contenuta nella prima parte del documento, laddove si trova
l’indicazione di «tenere esplicitamente conto della situazione patrimoniale e
reddituale del nucleo familiare, rafforzando quindi l’aspetto relativo
all’equità»: l’art. 53 della Costituzione identifica questo tema nella
“capacità contributiva”, come punto di riferimento per concorrere alle spese
pubbliche. Purtroppo il documento nulla dice sulla palese schizofrenia
dell’attuale sistema: le imposte sui redditi (IRPEF) si applicano ai singoli,
mentre il principale strumento per le agevolazioni (ISEE) è improntato sul
patrimonio della famiglia. Da una Commissione che si pone l’obiettivo
della riforma, ci si poteva aspettare almeno un’ipotesi di cambiamento.
Invece, due proposte di modifica sono chiaramente
indicate per l’IRPEF: 1) l’abbassamento dell’aliquota media effettiva con
particolare riferimento ai contribuenti nella fascia di reddito tra 28 e 55
mila euro; 2) la modifica della dinamica delle aliquote marginali effettive,
eliminando le discontinuità più marcate.
Il primo punto consiste nella proposta di riduzione
delle imposte per il ceto medio. Ma è proprio così?
In Italia su 60 milioni di abitanti i contribuenti sono circa 41 milioni,
suddivisi in 5 scaglioni di redditi. Nel primo scaglione (fino a 15 mila euro)
ci sono circa 18 milioni di persone. In quello successivo (da 15 a 28 mila
euro) circa 14 milioni di contribuenti. Nel terzo scaglione (appunto, da 28 a
55 mila euro) sono circa 7 milioni. Poi quasi un milione di contribuenti nel
quarto scaglione (da 55 a 75 mila euro) e altrettanti nel quinto scaglione
(oltre 75 mila euro). Pertanto, se consideriamo gli ultimi tre scaglioni (oltre
28 mila euro), troviamo in totale circa 9 milioni di individui, che
rappresentano poco più del 20% dei contribuenti. Il restante 80% (circa 32
milioni di persone) è collocato nei primi due scaglioni, cioè con redditi
inferiori a 28 mila euro. Quindi, tutto sommato il vero ceto medio sarebbe
quello del secondo scaglione, cioè circa 14 milioni di contribuenti, che
dichiarano redditi tra 15 e 28 mila euro. Tenendo conto di questi dati, la
proposta della Commissione parlamentare di diminuire le imposte ai contribuenti
del terzo scaglione risulta favorevole ai ceti più ricchi. Lo conferma il
fatto che non verrebbe compensata da un aumento delle aliquote del quarto e del
quinto scaglione. Ciò significa che lo sconto che verrà fatto ai contribuenti
del terzo scaglione, ovviamente varrà anche per quelli degli scaglioni
successivi, che usufruiranno del medesimo sconto. Non solo: mentre chi fa parte
del terzo scaglione potrà avere uno sconto soltanto parziale (a meno che si
posizioni al limite dello scaglione, cioè con 55 mila euro di reddito), i
contribuenti del quarto e del quinto scaglione potranno godere totalmente della
riduzione di aliquota del terzo scaglione. Insomma, saranno soprattutto i più
ricchi a risparmiare di più, pagando meno tasse.
La seconda proposta di modifica riguarda
l’eliminazione della forte discontinuità delle aliquote marginali. La proposta
è sicuramente condivisibile, perché il sistema attuale è irrazionale: ci sono
alcuni livelli di reddito tra uno scaglione e l’altro o anche quando si supera
di poco la “no tax area” nei quali l’aliquota applicata subisce una brusca
impennata. Il metodo più logico per evitare queste incongruenze sarebbe
l’applicazione di una funzione continua (come avviene ad esempio in Germania),
con l’aliquota fiscale che aumenta con il crescere del reddito. Invece, «la
Commissione concorda che la modalità attraverso cui raggiungere questi
obiettivi sia da individuare in un deciso intervento semplificatore sul
combinato disposto di scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di
reddito». L’adozione di un sistema ad aliquota continua ‒ senza addurre
motivazioni ‒ è considerata “meno preferita” e comunque relativa «alle fasce di
reddito medie» (senza specificare l’ammontare dei redditi).
Nel documento c’è anche un paragrafo dedicato alle
imposte sul reddito di impresa. La Commissione parte dal fatto che attualmente
il prelievo fiscale sull’imprenditore individuale (o socio di una società di
persone) dipende dall’aliquota marginale e quindi dal reddito complessivo
Irpef, mentre sulle società di capitale insiste un prelievo proporzionale,
attualmente fissato al 24%. Secondo logica e in una visione costituzionale
verrebbe da chiedersi perché le società di capitali abbiano il privilegio di
una tassazione proporzionale. La Commissione, invece, si pone nella prospettiva
opposta, proponendo che anche le imprese individuali possano optare per la
tassazione proporzionale, opportunità già concessa per ricavi inferiori a 65
mila euro.
Per quanto riguarda la tassazione dei redditi
finanziari, il documento spiega che queste tipologie di reddito sono – nella
maggioranza dei casi – sottoposte a un’aliquota sostitutiva proporzionale
attualmente fissata al 26%. La Commissione segnala che «tale aliquota andrebbe
allineata alla prima aliquota progressiva sui redditi da lavoro», cioè
diminuita al 23%. Si tratterebbe di uno sconto di oltre il 10% sulle imposte
per i redditi finanziari. In realtà non si capisce per quale ragione i
guadagni in campo finanziario debbano essere parificati al reddito dei
contribuenti meno abbienti, quelli che al massimo arrivano a 15 mila euro di
reddito. Dato che i redditi finanziari evidentemente appartengono alle
classi più agiate, anche non considerando il cumulo dei redditi, sarebbe più
coerente applicare almeno un’aliquota mediana come quella del terzo scaglione,
che è del 38%.
Infine, prendendo atto che «la situazione vigente
incentiva implicitamente gli investimenti privi di rischio (quelli che
proteggono il capitale da possibili minusvalenze ma che lo remunerano con un
interesse modesto ma ragionevolmente sicuro)», la Commissione sostiene che
«invece un’impostazione pro-crescita dovrebbe quantomeno essere neutrale
rispetto a investimenti maggiormente in grado di convogliare il risparmio
privato nell’economia reale». Di fatto ignorando che «la Repubblica incoraggia
e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla
l’esercizio del credito» (art. 47 Costituzione).
Condivisibile invece l’indicazione sull’IVA: la
Commissione ritiene opportuna una «possibile riduzione dell’aliquota ordinaria
attualmente applicata». L’IVA infatti è considerata un’imposta regressiva,
poiché colpisce i redditi in forma decrescente: l’imposta sui consumi penalizza
i meno abbienti, costretti per vivere a spendere tutto ciò che guadagnano.
Peccato che la Commissione non spieghi come sia possibile ridurre
contemporaneamente le imposte dirette (sui redditi del terzo scaglione) e
quelle indirette (sui consumi). A logica ‒ per mantenere la parità di gettito ‒
se una tassa diminuisce l’altra deve aumentare. A meno che si voglia per scelta
esplicita diminuire il gettito fiscale complessivo, con la conseguenza
inevitabile di minori risorse per le spese sociali (scuole, ospedali, ambiente
ecc.).
Tutto ciò contrasta con alcune interessanti
affermazioni che si trovano alla fine del documento: «Il contribuente deve
pienamente internalizzare il beneficio collettivo che deriva dal pagamento dei
tributi, nella forma dell’erogazione di beni e servizi pubblici». E
persino: «lo Stato altro non è che l’insieme dei contribuenti stessi».
Belle parole, ma che sono largamente contraddette dalle proposte che la
Commissione parlamentare ha inviato al Governo come indirizzo politico
per la riforma del fisco.
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