L’appuntamento con Anwar è nella piazza principale del
quartiere di Atene in cui abito. Dopo qualche giorno di contrattazione via
mail, ha accettato di incontrarmi per rilasciare un’intervista. Lo riconosco
subito: ha in spalla un grosso zaino e una custodia cilindrica contenente il
banner che accompagna tutti i suoi sit-in, e indossa una maglietta a righe che
ho già visto molte volte nelle foto pubblicate sui suoi canali social.
Hostage of Europe. Questo il nome della pagina
Facebook di Anwar Nillufary, 34 anni, esule
forzato da 15. Tre parole che riassumono perfettamente il suo percorso travagliato da richiedente asilo prima e da rifugiato poi.
Tre parole che potrebbero essere probabilmente utilizzate per descrivere
l’esperienza di moltissime altre persone in movimento, loro malgrado rimaste
impigliate nella tela di ragno del sistema di asilo europeo.
È proprio tramite Facebook che sono venuta a
conoscenza della storia di Anwar. La pagina che gestisce è lo strumento
principale con cui documenta le sue proteste quotidiane.
Ogni giorno – ormai da diversi anni – carica video e fotografie che lo
ritraggono sotto alla sede degli uffici di qualche organizzazione
internazionale, istituzione greca o ambasciata straniera. Nei suoi post
descrive dettagliatamente le dinamiche che è costretto a fronteggiare, cercando
di tenere viva l’attenzione sul suo caso e cercando, soprattutto, di ottenere
delle risposte.
Anwar è ora seduto davanti a me, palesemente provato
dall’ennesima giornata inconcludente. Gli chiedo se voglia dell’acqua; mi
risponde di no. Ho la sensazione che abbia una grande
urgenza di raccontare. La mia impressione si rivela corretta: Anwar
parla per oltre due ore, senza sosta, senza tralasciare nemmeno il più piccolo
dettaglio.
Mi racconta di aver lasciato il suo Paese di origine,
l’Iran, all’età di 18 anni. Vittima di persecuzioni a sfondo politico e impossibilitato
ad ottenere un passaporto iraniano, raggiunge il Nord dell’Iraq illegalmente,
rischiando la vita durante l’attraversamento del confine. Lì si laurea da
ingegnere civile e trova lavoro in una società di costruzioni. La paga è buona,
e Anwar comincia a pregustare la possibilità di stabilizzarsi.
Ma ben presto le pressioni politiche si fanno sentire
anche in Iraq. Anwar comincia a ricevere minacce, e alla società per cui lavora
viene intimato di licenziarlo. L’unica via percorribile è ancora una
volta la fuga. Anwar vorrebbe raggiungere gli Stati Uniti o
il Canada con un visto, ma senza un passaporto è impossibile. Essendo residente
in Iraq da diversi anni prova ad ottenere un documento iracheno, ma la
procedura non va a buon fine.
Determinato ad evitare a tutti i costi quella fuga
nell’illegalità di cui ha già suo malgrado fatto esperienza e che lo ha quasi
portato alla morte, si rivolge allora agli uffici di UNHCR a Baghdad. Spiega
loro la sua situazione, chiedendo un aiuto per essere ricollocato legalmente in un Paese in cui la sua vita non sia a
rischio. Anche qui, nessuna risposta.
A quel punto ho dovuto fare una scelta, dice Anwar. Nessun documento, nessun lavoro, no soldi. Avevo bisogno di una
vita stabile. Tutti hanno diritto a stabilità e sicurezza, e sia in Iran che in
Iraq questo diritto mi era stato negato. Quindi sono dovuto scappare, ancora
una volta illegalmente. Fino a quel momento non avevo nemmeno lontanamente
preso in considerazione l’ipotesi Europa. Non era assolutamente nei miei piani,
ma ho dovuto.
Anwar raggiunge la Grecia nel settembre del 2014, percorrendo quel sentiero ad imbuto
che ad oggi è l’unica via per penetrare la Fortezza Europa.
Mettendomi in contatto con dei trafficanti ho
raggiunto la Turchia, e da Izmir mi sono imbarcato verso le coste greche con un
gruppo di altre persone. Una volta sbarcati sull’isola di Kos, mi sono separato
dal gruppo e ho raggiunto la cima della montagna vicina per far asciugare i
vestiti – completamente bagnati dopo la traversata. In qualche modo è stata la
mia fortuna, perché in quel frangente il gruppo si è incamminato verso il
villaggio vicino e lungo la strada sono stati tutti catturati dalla polizia.
Dopo aver passato due notti nei boschi dell’isola mi
sono messo in contatto con il trafficante ad Atene, il quale mi ha a sua volta
dato il contatto di una donna greca residente a Kos pagata per comprare
biglietti a nome suo e permettere così ai richiedenti asilo di lasciare
l’isola. Così, con in mano un biglietto a nome greco e senza bisogno di
mostrare i miei documenti, ho preso il traghetto e sono arrivato ad Atene.
Ciò di cui Anwar parla altro non è che il risultato
del cosiddetto “approccio hotspot”, introdotto a
livello europeo nel 2015. Tale sistema consiste nella creazione di strutture di primissima accoglienza – gli hotspot,
per l’appunto – in prossimità di zone di frontiera, con l’intento di rinforzare e velocizzare le procedure di identificazione,
registrazione e smistamento dei richiedenti asilo.
Il sistema hotspot è al momento operativo in Italia e Grecia e, stando a quanto si legge
nel documento esplicativo pubblicato dal Parlamento
Europeo, sarebbe funzionale a supportare quei Paesi europei
che si trovano a fronteggiare ingenti flussi migratori, snellendo
l’iter e offrendo l’assistenza di agenzie europee specializzate quali Frontex,
Europol ed EASO.
Nella realtà, il sistema hotspot rappresenta l’ennesimo dispositivo di controllo che
comprime enormemente i diritti delle persone in movimento. Basti pensare al
ruolo di Frontex: secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione Mare Liberum, nel
solo anno 2020 l’agenzia europea incaricata del controllo delle frontiere ha
preso parte attiva al respingimento di oltre 9.000
persone in transito dalle coste turche a quelle greche.
Ma non solo. Nel quadro legislativo nazionale greco il sistema hotspot si è
tradotto in una sorta di riserva geografica,
in base alla quale i richiedenti asilo entrati in Grecia tramite le isole
sono vincolati alla permanenza nel luogo di sbarco. Ciò
significa che chi fa domanda di protezione internazionale su un’isola
greca lì dovrà rimanere fino alla definizione della procedura – che ha
mediamente una durata molto lunga. E le condizioni di vita nei campi collocati sulle isole egee sono
tristemente note.
D’altra parte, basta dare un’occhiata alla distribuzione geografica dei centri hotspot per
capirne la logica: marginalizzare il più possibile –
nel senso più letterale e fisico del termine – chi giunge in Europa in cerca di
rifugio, circoscrivendone all’estremo la possibilità di movimento per poter
agevolmente operare eventuali respingimenti o deportazioni.
Per questo Anwar può definirsi relativamente
fortunato. La mancata cattura da parte della polizia gli ha risparmiato la
registrazione forzata sull’isola di Kos, permettendogli così di trovare uno
stratagemma per raggiungere la capitale greca e provare a raggiungere la destinazione
realmente desiderata.
Ad Atene ho raggiunto la casa del trafficante. Lo
avevo già pagato, ma a quel punto ha cominciato a chiedermi altri soldi.
L’accordo iniziale era di 2.500 euro – il prezzo stabilito per attraversare il
confine fra Grecia e Turchia. Alla fine ho speso 7.000 euro, con la promessa di
poter raggiungere il Canada. Sempre per vie illegali, ovviamente.
In quel momento non avevo idea di come funzionasse il
sistema in Europa. Non avevo altra scelta che fidarmi dei trafficanti.
Ma una volta vista la situazione ad Atene ho capito
che non sarebbe finita bene quindi, di nuovo, mi sono dato da fare per cercare
una soluzione alternativa. Ho cercato di mettermi in contatto con UNHCR, con
l’Ambasciata americana e con l’Ambasciata australiana tramite email, spiegando
loro che ero sopravvissuto ad un viaggio in mare e che in quel momento mi
trovavo nelle mani di un trafficante. Nessuna risposta.
Dopo essermi recato personalmente presso gli uffici di
UNHCR ed essere stato mandato via malamente dagli agenti della sicurezza
privata, sono riuscito a recuperare un numero di telefono e a parlare con
qualcuno. Ricordo di aver specificato chiaramente che non volevo rimanere in
Grecia, perché la mia breve permanenza prima a Kos e poi ad Atene mi aveva già
dato un assaggio di ciò che mi aspettava. In più, nella casa del trafficante
avevo sentito molte brutte storie che avevano confermato il mio
presentimento.
Mi dissero di non preoccuparmi, spiegandomi che
l’unica via legale per me era fare richiesta di asilo in Grecia, attendere la
fine della procedura e, una volta ottenuti i documenti, trasferirmi nel Paese
di mia scelta. Ho poi scoperto che non era vero: il sistema non funziona
affatto così.
Anwar ha ragione. Il sistema d’asilo europeo è
fondamentalmente una trappola. E se lo volessimo
pensare come una trappola composta da più marchingegni, il Regolamento Dublino
sarebbe di sicuro la tagliola che azzoppa il malcapitato, impedendogli di
muoversi.
Il Trattato di Dublino – entrato in vigore nel 1997 e
successivamente modificato nel 2003 e nel 2013, ma sempre rimasto invariato
nella sostanza – è quel documento che stabilisce le regole e i meccanismi atti a determinare lo Stato competente
all’esame di una domanda di asilo presentata in uno dei Paesi
membri dell’Unione Europea.
Specificamente pensato per prevenire il fenomeno del
cosiddetto asylum shopping (ovvero la
pratica di fare richiesta di asilo in più Paesi diversi), il Trattato prevede
il principio del Paese di primo approdo: la presa in carico della richiesta
di asilo ricade sullo stato europeo in cui il richiedente ha effettuato il
primo ingresso. Ciò si traduce in una fisiologica congestione dei
Paesi sud-europei – in primis Grecia e Italia -, Paesi i cui
scarsi strumenti di welfare rappresentano un grosso ostacolo per l’accoglienza
e il successivo percorso di stabilizzazione di chi giunge in cerca di rifugio.
La chiave per l’applicazione concreta del Trattato è
il sistema Eurodac, una banca dati condivisa a livello
europeo in cui ciascuno Stato può accedere alle informazioni rilevanti (dati
personali, impronte digitali, frontiera di ingresso) per verificare se un
richiedente abbia già fatto domanda da un’altra parte o meno. In caso positivo,
il Regolamento prevede che la persona in questione venga rispedita nel Paese risultato responsabile della presa in carico
della procedura.
Ma non finisce qua. Anche quando la procedura si
conclude con il riconoscimento dello status di rifugiato – e quindi con il
rilascio di un permesso di soggiorno e di un titolo di viaggio equipollente ad
un passaporto – spostarsi in un Paese che non sia quello in cui l’iter è stato
espletato è molto difficile.
Il quadro legislativo europeo stabilisce infatti che i
titolari di protezione internazionale possano soggiornare in Stati esteri per un massimo di tre mesi e solo per ragioni di turismo.
Nel caso in cui l’intenzione sia quella di trasferirsi in maniera stabile e
svolgere attività lavorativa, il percorso da seguire è lungo e insidioso: occorre rinunciare alla protezione
ottenuta – e quindi ai documenti rilasciati – e aprire una procedura ex novo
nel Paese prescelto, procedura che ovviamente varia per meccanismi e
tempistiche in base alla cornice legislativa nazionale.
Anwar è venuto a conoscenza di tutti questi cavilli a
proprie spese.
Decisi di fare richiesta in Grecia, con l’idea di
partire non appena avessi ottenuto i documenti. Dopo 10 mesi di attesa mi venne
riconosciuto lo status di rifugiato. In quell’arco di tempo avevo continuato a
tenermi in contatto con UNHCR e le ambasciate di Canada e USA per chiedere loro
di aiutarmi non appena i miei documenti fossero stati pronti. L’Ambasciata
canadese mi disse che la sede di Atene non si occupava della lavorazione di
questo tipo di richieste, e che mi sarei dovuto rivolgere agli uffici di Roma.
Così feci. Il giorno stesso in cui ritirai il mio
permesso di soggiorno e il mio titolo di viaggio partii per l’Italia. Raggiunsi
immediatamente l’ufficio immigrazione dell’Ambasciata canadese, e lì mi dissero
che avevo bisogno di un referral scritto e firmato da UNHCR. Così mi recai agli
uffici UNHCR di Roma, dove mi dissero che per il referral avevano a loro volta
bisogno di una richiesta scritta da parte dell’Ambasciata. Andò avanti così per
giorni, con un rimpallo continuo di responsabilità da una parte all’altra.
Il soggiorno a Roma mi stava costando troppo, e data
la situazione di stallo mi sembrava uno spreco di risorse economiche. Non
vedevo soluzioni all’orizzonte. Pensai così di raggiungere il Regno Unito e
fare richiesta di asilo lì.
Mi diressi verso la Francia e raggiunsi Calais, dove
passai una notte con l’intento di attraversare il canale della Manica. Quella
notte fu sufficiente per farmi cambiare idea: vidi la situazione
nell’accampamento [“la
giungla”, al tempo il più grande accampamento informale d’Europa, ndr] e parlai con molte persone che mi raccontarono storie orribili.
Capii che non era il caso di fare quel tentativo.
La mattina successiva presi il primo treno e mi
diressi verso Nord. Dopo due giorni di viaggio mi ritrovai in Svezia. Senza averlo
pianificato, senza alcun tipo di contatto, senza conoscere la lingua e senza un
posto dove stare. Mi sentivo completamente spaesato. Stavo solo seguendo il
fluire disordinato delle cose, senza avere la possibilità di programmare
niente. Non ero preparato per nulla di tutto quello che stava accadendo.
A Stoccolma mi rivolsi all’ufficio immigrazione. Mi
portarono in un centro di accoglienza, e dopo due giorni venni convocato per la
prima intervista. Le domande furono solo due: mi chiesero se avessi mai fatto
richiesta di asilo in un altro Paese europeo e se fossi in possesso di qualche
documento rilasciato dal suddetto eventuale Paese. La mia risposta ad entrambe
le domande fu ovviamente sì. Mi dissero immediatamente che il mio caso in
Svezia era chiuso e che rientravo nel Regolamento di Dublino.
Mi portarono in un villaggio vicino a Uppsala, in un
centro di detenzione, dove rimasi per due mesi in attesa di essere rispedito in
Grecia. Mi misi in contatto con varie organizzazioni – Caritas, No one is illegal,
ecc. – per ottenere del supporto legale ed evitare la deportazione, ma non
ottenni alcuna risposta.
Trovandomi in un vicolo cieco, cominciai uno sciopero
della fame. Ma anche questo non servì a nulla. Il giorno della deportazione mi
misero su un aereo, consegnarono tutta la mia documentazione al pilota e mi
dissero: le autorità greche ti stanno aspettando.
Per farsi un’idea dell’impatto concreto del Trattato
di Dublino, basta dare uno sguardo alle statistiche pubblicate da Eurostat. I dati disponibili più recenti
sono relativi all’anno 2019, e riguardano le richieste di trasferimento da un Paese
europeo all’altro ai sensi del Regolamento.
L’Italia è lo Stato membro che ha ricevuto più
richieste di ripresa in carico: ben 34.921. Un
numero davvero notevole, se si considera che l’ammontare totale delle persone
approdate sulle coste italiane nel biennio 2018-2019 è inferiore: 34.842.
Seguono la Germania, con 23.710 richieste; la Grecia,
con 13.382 richieste; e la Francia, con 10.668 richieste. Numeri considerevoli,
a cui corrispondono altrettante deportazioni e,
soprattutto, altrettanti progetti migratori puntualmente
frustrati.
Come il piano di Anwar, che dopo tanta fatica si
ritrova nuovamente al punto di partenza.
Non appena atterrato ad Atene la polizia mi prelevò al
gate dell’aeroporto e mi portò alla vicina centrale, dove venni trattenuto per
svariate ore. Una volta libero mi misi immediatamente, nuovamente in contatto
con UNHCR. E di nuovo, nessuna riposta.
O meglio: l’unica risposta che ottenevo era la
polizia, che puntualmente veniva a prelevarmi sotto gli uffici di UNHCR – dove
io chiedevo soltanto di poter parlare con qualcuno! – mi portava alla centrale,
mi perquisiva e mi tratteneva per ore in uno stanzino sporco. Tutto questo
accadeva abitualmente, senza che nessuno alzasse un dito o semplicemente desse
un cenno di riposta alle mie richieste.
Nel frattempo stavo cercando aiuto presso altre
organizzazioni non governative greche facendo telefonate, mandando mail e
recandomi personalmente presso le loro sedi. Avevo bisogno di supporto legale:
nulla. Avevo bisogno di un posto dove stare: nulla. Avevo bisogno di supporto
economico: nulla. Tutto questo andò avanti per un anno e mezzo, fino a che non
arrivai a pensare che tutto quello che stavo passando era pura follia.
Nel marzo del 2017 mi procurai una tenda e delle
coperte e mi piantai davanti alla sede di UNHCR. Cominciai il mio primo
sciopero della fame, durato 64 giorni. Anche in quei due mesi, benché fossi
allo stremo delle forze, qualcuno da dentro gli uffici si ostinava a chiamare
la polizia. E tutti i giorni, almeno tre volte al giorno, venivo prelevato e
trattenuto per ore nella cella della centrale. In quel periodo persi anche la
mia prima tenda – il mio unico riparo. Distrutta dalla polizia, il primo giorno
di sciopero della fame.
Al termine dello sciopero, grazie anche al supporto di
un gruppo di rifugiati, Anwar riesce ad ottenere un colloquio con
dei funzionari di UNHCR.
Mi dissero che non avevano uno specifico programma di
ricollocamento, ma che avevano la possibilità di fare una richiesta speciale in
circostanze particolari. Tuttavia, non avevano intenzione di applicare questa
opzione al mio caso perché altrimenti troppe altre persone si sarebbero rivolte
a loro chiedendo la stessa cosa. In sostanza mi stavano dicendo: sappiamo bene
che le condizioni di vita qui in Grecia sono dure, ma abbiamo deliberatamente
deciso di non soddisfare la tua richiesta per non creare un precedente.
Alla fine del colloquio mi dissero che, nonostante
quanto specificato, c’era una piccolissima, remota possibilità di lavorazione
del mio caso. Ma avrebbero avuto bisogno di tempo. Due anni, mi dissero. E
aggiunsero che non mi sarei dovuto aspettare alcun tipo di assistenza in
quest’arco di tempo.
Fu a quel punto che cominciai a farmi pubblicità da
solo, aprendo i miei canali social per raccontare quello che mi stava
succedendo. Continuai la mia protesta quotidiana sotto la sede di UNHCR.
Continuarono gli arresti da parte della polizia, le perquisizioni, il sequestro
e la distruzione dei miei effetti personali. Mi venne recapitata anche una
diffida emanata del Tribunale, in cui si stabiliva che dovevo mantenermi ad
almeno tre metri di distanza dalla porta d’ingresso dell’ufficio.
Tutto questo andò avanti per parecchio tempo, fino a
che non passammo al livello successivo: le denunce e i conseguenti processi in
Tribunale. Ad oggi sono stato costretto a comparire davanti ad un giudice 24
volte e incarcerato 5 volte.
Nel 2018 sono stato rinchiuso in un centro di
deportazione. Lo scorso anno ho perso la mia quinta tenda, distrutta insieme a
tutti i miei effetti personali (coperte, telefono, cibo) mentre mi trovavo di
nuovo in detenzione. Tutto questo solo per aver condotto una protesta pacifica
sotto gli uffici di UNHCR. Protesta che, se si fosse conclusa con l’ascolto
delle mie legittime richieste, non si sarebbe di certo prolungata così tanto.
Nell’estate del 2020 Anwar annuncia un nuovo sciopero della fame, interrotto dopo 73 giorni perché un gruppo di persone residenti in
Canada gli offre aiuto per il ricollocamento tramite il sistema di sponsorship. Nel frattempo riesce anche ad ottenere un
po’ di visibilità su alcuni media mediorientali, e avvia una campagna di
raccolta fondi per coprire le spese di sopravvivenza.
Al termine dello sciopero Anwar subisce due ospedalizzazioni. La sua salute è in condizioni
veramente precarie, rischia quasi la vita. I medici gli comunicano che la
prolungata astinenza dal cibo ha causato delle serissime ripercussioni sul suo
organismo, e che da questo momento in poi dovrà fare molta attenzione e seguire
una dieta specifica.
Nel frattempo l’emergenza Covid è scoppiata
nuovamente, e la Grecia piomba in un lockdown completo. Anwar necessita di
riposo, e in più la situazione generale gli impedisce di proseguire con le sue
proteste. Trova riparo a casa di una donna greca che gli aveva dato una mano
durante l’ospedalizzazione, e utilizza buona parte dei soldi ricevuti con le
donazioni per pagare l’affitto e procurarsi nuovamente i dispositivi
elettronici che gli servono.
Contestualmente la già debole attenzione mediatica sul
suo caso si spegne del tutto, e quelle persone che dal Canada gli avevano
promesso aiuto ritrattano.
Dopo la fine del lockdown, all’inizio del 2021, Anwar
si ritrova di nuovo per strada. Ancora una volta, completamente solo. E ancora una volta, determinato a
farsi ascoltare.
Continuerò a fare quello che sto facendo fino a che
non avrò prosciugato l’ultimo centesimo dei soldi che ho, dopodiché sarò
probabilmente costretto ad annunciare un nuovo sciopero della fame. Non so
precisamente quando, ma sono certo che accadrà. Non ho altra scelta.
Ogni giorno vado a protestare sotto qualche ufficio e
cerco di raccogliere qualche firma per la mia petizione. La sera mi reco alla Libreria Nazionale
Greca, l’unico posto dove posso utilizzare l’elettricità per ricaricare i miei
dispositivi elettronici e il wifi per aggiornare i miei canali social con foto
e video. Quando finisco, solitamente a tarda notte, piazzo il mio sacco a pelo
nei cespugli vicino all’edificio e dormo lì. La mattina successiva tutto
ricomincia. Questa è la mia vita ora. L’hanno resa una beffa.
Cosa succederà? Non lo so. Risolveranno il mio
problema? Non lo so. Qualcuno sarà disposto ad ascoltare quello che ho da dire?
Non lo so. Tutto quello che so è che sto chiedendo riposte ovunque, a tutti. Ho
scritto email, fatto telefonate, parlato con così tante persone. Sono un
beneficiario di protezione internazionale e sto solamente chiedendo di poter
avere una vita stabile e dignitosa in un posto che sia in grado di offrirmi
delle possibilità in questo senso. Voglio lavorare, studiare. Voglio avere una
vita normale.
L’esperienza di Anwar è rappresentativa. Svela tutte
le falle e i paradossi del sistema di asilo europeo, un meccanismo nominalmente
legale, ma sostanzialmente generatore primario di
situazioni di illegalità: Anwar costretto ad affidarsi a dei
trafficanti per raggiungere l’Europa, data la totale assenza di altri canali;
Anwar costretto a lasciare l’isola di Kos con uno stratagemma; Anwar che vaga
per l’Europa e si ritrova in Svezia, dove la sua permanenza è inammissibile ai
sensi del Regolamento di Dublino; Anwar che mi confessa di aver smesso di
rinnovare i suoi documenti greci perché non ne vede l’utilità.
Sorgono anche delle domande sul ruolo di organizzazioni internazionali come UNHCR (già
messo in discussione a seguito di quanto emerso circa il loro operato in zone come la Libia, o nel processo di esternalizzazione delle frontiere
europee), il cui
mandato è teoricamente quello di garantire protezione a richiedenti asilo e
rifugiati, lavorando nel loro esclusivo interesse.
La storia di Anwar getta delle ombre sui principi
fondanti di tali organismi, e viene da chiedersi se il loro
operato non sia in qualche modo double face: da una
parte, soddisfare la naturale necessità di un agire etico di fronte alle
richieste di aiuto di esseri umani in difficoltà; dall’altra, mantenere quello
status quo che agli Stati-nazione tanto sta a cuore.
Per chiudere con le parole di Anwar:
Non sto chiedendo nulla di impossibile. Sto chiedendo
qualcosa che è un mio diritto. Non capisco tutta questa ostinazione. Non siete
in grado di offrirmi ciò di cui ho bisogno? Bene, lasciatemi libero di andare
da un’altra parte. Perché trattenermi qui e costringermi ad affrontare tutto
questo?
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