La Tunisia, il più piccolo Paese del Nord
Africa, attraversa un momento cruciale. La pandemia sta compiendo una vera e
propria strage. La povertà spinge migliaia di giovani a tentare la fuga tramite
le micidiali rotte del Mediterraneo centrale. Ci sono proteste e violenze per
le strade. La repressione è tornata a far parte del gergo politico del Paese e
il Presidente della Repubblica ha appena sospeso il Parlamento e mandato a casa
l’intero governo.
Molti sostengono la scelta del presidente
e applaudono la caduta del governo a maggioranza islamista accusato di essere
il principale responsabile di questa mala gestione. Altri invece gridano al
Colpo di Stato e parlano di scenario egiziano.
Nel frattempo le strade non si calmano. I
sostenitori e gli oppositori alla decisione del Presidente si affrontano nelle
vie, per ora solo con insulti e lanci di oggetti vari. Ma l’esercito è per
strada e fatica a mantenere a calma. Come si è arrivati a questo punto, in
quello che sembrava l’unico Paese uscito vincente dalle “Primavere arabe”?
L’unica “rivoluzione”
vincente è fallita?
Che cos’è la Tunisia nell’immaginario
dell’italiano medio? Poco o niente… spiagge bellissime e/o orde di disperati
sui gommoni. Queste le uniche immagini che arrivano tramite l’informazione.
Per anni molta gente pensava che la
Tunisia fosse una specie di paradiso tropicale, tutto spiaggia e pacchetti
vacanze all-inclusive.
La povertà esisteva allora, ma era
invisibile. Il regime feroce di Zinelabidine Benali teneva i poveri lontani
dalle zone turistiche e qualsiasi tentativo di protesta era represso nel
sangue. Quindi la stampa internazionale non risparmiava i complimenti per il
Paese più stabile e più moderno della sponda Sud del Mediterraneo.
Ma un giorno di dicembre 2010, un giovane
disoccupato del Sud povero e dimenticato, Mohamed Bouazizi, decise di darsi
fuoco in pubblico per protestare contro la povertà, contro la disperazione,
contro la corruzione e le ingiustizie del regime. Da quell’atto disperato iniziò
una stagione di proteste che infiammò non solo la Tunisia ma anche molti Paesi
arabi. Quella stagione, anche se iniziata nel cuore dell’inverno, fu chiamata
la Primavera Araba.
Ma la «Primavera» andò molto male per la
maggior parte dei Paesi. Libia, Yemen e Siria rasi al suolo. Egitto ricaduto in
una dittatura ancora più severa della precedente. Altri popoli che continuano a
lottare senza vedere la fine del tunnel. Unico Paese che ha messo un lieto fine
al suo moto rivoluzionario è stata la Tunisia. Il dittatore Ben Ali è scappato
in Arabia Saudita (terra benedetta… per i tiranni e gli oscurantisti).
L’esercito ha rifiutato di reprimere la gente inerme e ha accompagnato la
società civile in un percorso di transizione democratica abbastanza riuscito. Ora
in Tunisia ci sono istituzioni elette democraticamente e la libertà di
espressione. Però la Storia non ha né un inizio né una fine. E quindi il
racconto non può chiudersi con un “E vissero tutti felici e contenti”.
Il piccolo Paese nordafricano si è allontanato
da solo nel bosco popolato di mostri e stregoni. Ha seminato pietre bianche
lungo il cammino per tornare a casa, sano e salvo. Ma da un po’ di tempo si è
capito che qualcuno ha fatto sparire le pietre e il ritorno verso la quiete
sembra sempre più difficile.
Se oggi la bella avventura democratica
tunisina è in forte difficoltà i motivi sono due: 1. la Tunisia non è un’isola;
2. non si vive di democrazia e aria pura.
1. la Tunisia non è
una isola in mezzo al Pacifico: politica interna Vs geo-strategia globale
Se in Tunisia non fu versato sangue né
durante né dopo la “Rivoluzione” è in gran parte merito del popolo tunisino che
ha saputo manifestare in pace e non ha cercato lo scontro. É merito delle forze
armate che sono scese in strada non per aiutare la polizia di Ben Ali a
massacrare il popolo ma per interporsi limitando le violenze da una parte e
dall’altra. Ed è merito di una società civile tunisina che ha saputo inquadrare
la protesta per poi sedersi introno a un tavolo discutendo e confrontando le
alternative possibili.
Ma una parte non indifferente di questo
successo è dovuto alla fortuna. Alla “fortuna” che ha la Tunisia di essere
piccola e povera. Questa “fortuna” ha fatto sì che nessuno potenza predatrice
internazionale o regionale fosse impaziente di controllare il Paese.
Soprattutto in un momento in cui c’era da sbranare due prede belle grasse come
la Libia e la Siria.
Ma questo disinteresse non era totale,
Senza invasioni, né guerre civili teleguidate, l’influenza straniera si è fatta
sentire soprattutto tramite i petrodollari.
In pochi mesi dopo la caduta del regime di
Benali, il partito islamista Al-Nahda (tendenza Fratelli Musulmani) – da
decenni assente dalla scena politica locale a causa della forte repressione
subita – diventa il primo partito politico nazionale. Con sedi, mezzi
d’informazione e funzionari su tutto il territorio. I mezzi economici li hanno
messi i soliti Paesi del Golfo Persico, Qatar in testa. Ma siccome non esiste
filantropia disinteressata in politica, poco dopo si capì … in cambio di cosa.
Presto i movimenti gihadisti cominciarono a crescere come erba infestante,
mentre Libia e Tunisia diventavano vere e proprie piattaforme di reclutamento e
partenza per la Siria.
Le piattaforme salafite non solo lavorano
per l’esportazione ma vogliono imporsi anche per il consumo locale. Comincia
così una breve stagione di attentati (Il bardo, Hammamet, uccisione di politici
e intellettuali). Anche quella volta, la società civile tunisina seppe reagire
molto bene. Ci furono manifestazioni contro la violenza politica, le forze
laiche si ricompattarono mentreAl-Nahda fu costretta a scendere a patti e a
condividere il potere per non perdere tutto.
2. Non si vive di
democrazia e aria pura: una economia al collasso
Mentre sul fronte politico c’è stato
dell’ottimo lavoro, il fronte economico fu quasi del tutto tralasciato. La
Tunisia di Benali tirava le sue rendite da 3 fonti principali: turismo,
agricoltura-pesca e industria leggera.
Il turismo era ovviamente la prima fonte
di guadagno. È questo il parametro che faceva e fa tutt’ora della Tunisia un
Paese sbilanciato, con una zona costiera relativamente ricca e un entroterra
molto povero.
L’agricoltura è l’attività che copre più
territorio ma anche qui, in assenza di grandi investimenti per lo sviluppo di
risorse idriche alternative, le zone del Nord dal clima mediterraneo rimangono
quelle più fertili, mentre il Sud soffre sempre più della siccità.
La piccola industria nazionale era
principalmente concentrata sulla confezione tessile, in quanto la Tunisia
rappresentava una specie di “Pakistan di prossimità”, che assicurava lavoro a
basso costo (e bassi diritti) per le multinazionali francesi del prêt-à-porter.
Dopo la “rivoluzione” turismo e
manifattura sono ridotti al minimo. L’instabilità politica ha spaventato i
turisti e la ritrovata libertà di espressione e di organizzazione (anche
sindacale) ha fatto scappare le multinazionali. È rimasta solo l’agricoltura.
Ma in assenza di politiche di sviluppo, di valorizzazione e distribuzione di nuove
terre e di aiuto ai piccoli produttori, il settore rimane comunque al di sotto
delle capacità reali del Paese e le orde di disoccupati dell’interno continuano
a guardare con rassegnazione terre buone che rimangono incolte per mancanza di
irrigazione.
La pandemia come una
ciliegina sulla torta
La crisi da Corona Virus ha colpito la
Tunisia in pieno. Come in altre parti del mondo, la diffusione del contagio e
la moltiplicazione dei casi gravi ha scoperchiato un sistema sanitario che di
sano non ha proprio niente. Ospedali allo stremo. Ossigeno introvabile e
soggetto a speculazioni commerciali. Morti a centinaia. Con più di mezzo
milioni di positivi (conosciuti) – quasi il 5% della popolazione – con il
panico ovunque che aggiunge paura alla rabbia e al malessere già diffusi.
Rimpasto strutturale o
colpo di Stato “soft”
È su questo sottofondo di crisi e di
scontri per le strade che da mesi era iniziato una specie di braccio di ferro
tra il presidente Kaïs Saïed e il partito di maggioranza Al-Nahda. Da una parte
si invoca la cattiva gestione e la corruzione dilagante, dall’altra si parla di
autoritarismo e di ritorno al presidenzialismo assoluto.
Domenica scorsa (25 luglio) le strade del
centro della capitale Tunisi sono piene di manifestanti che chiedono la fine
del governo; la sera, al termine di una riunione di crisi, il Presidente
annuncia il congelamento delle attività di governo e del Parlamento (con
soppressione dell’immunità per tutti gli eletti) e l’allontanamento immediato
dei ministri della Difesa Brahim Bartagi e della giustizia Hasna Ben Slimane.
Inoltre annuncia la formazione imminente di un governo di crisi che risponderà
direttamente alla Presidenza della Repubblica.
Per fare tale interventi, il presidente
Kaïs Saïed – giurista rinomato e uno dei massimi esperti tunisini di diritto
costituzionale – ha invocato l’articolo 80 della Costituzione: in caso di
«pericolo imminente che minacci le istituzioni della Nazione e la sicurezza e
l’indipendenza del Paese e ostacoli il regolare funzionamento delle pubbliche
autorità, il Presidente della Repubblica può adottare le misure richieste da
tale situazione eccezionale». Il Capo dello Stato ha giustificato l’invocazione
di questo articolo con il fatto che il Paese stava attraversando «i momenti più
delicati» della sua storia e ha rassicurato sulle sue intenzioni: «Non si
tratta né di una sospensione della Costituzione né dalla legittimità
costituzionale, stiamo lavorando nel quadro della legge».
La maggioranza parlamentare, alla sua
testa Al-Nahda, ha indetto grandi assembramenti per denunciare quello che
chiamano Golpe. Di fronte al Parlamento sostenitori del presidente e delle
varie forze politiche si affrontano a colpi di accuse, insulti e lancio di
oggetti vari.
L’esercito occupa le strade e cerca di
evitare scontri violenti. Ma in molte zone del Paese ci sono saccheggi e
incendi, principalmente ai danni delle sedi del partito Al-Nahda.
E’ la più grande crisi affrontata dal
Paese dalla fine della “Rivoluzione dei Gelsomini”. La società civile tunisina
ha dimostrato grande maturità in passato, speriamo che saprà gestire questa
crisi con la stessa saggezza con cui ha gestito le precedenti.
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