Palestina: la resistenza come terapia (1-3)
Conversazione
con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese
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(Apparsa il 17 maggio 2021 su Lundimatin, un sito informativo in rete, presente ogni
lunedì dal 2014 e pure una rivista cartacea semestrale dal 2017)
Uno spettro gira per
il mondo, lo spettro della Palestina. Ogni volta che una crisi acuta fa
riapparire questo tema nei media, occorre prestare attenzione sia alla
singolarità del momento sia al processo di lunga durata. Ci si guardi bene,
innanzitutto, di pensare che prima dell’evento esistesse una specie di
situazione normale, poi turbata da “scontri”, “tumulti”, bombardamenti”,
“razzi”, “un bilancio sempre più pesante”, tanto da temere “una conflagrazione
in tutta la regione”… Occorre, infine, ricordare la Nakba – la “catastrofe” o
il “disastro” occorso al popolo palestinese – come il fatto che “tutto continua
come prima”.
Questa intervista ad
una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in
Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi
e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese,
ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il
livello interpretativo politico da quello psicologico. Samah ci rammenta che
“la Nakba non è un fatto storico, passato, ma un processo che si ripete da
oltre 70 anni”…
Samah Jabr è la
protagonista principale del documentario di Alexandra Dols “Dietro i fronti,
resistenza e resilienza in Palestina”, attualmente presentato in varie città
italiane.
I Palestinesi
affrontano una nuova fase d’intensificazione della loro lotta contro
l’occupazione. Potresti illustrarci gli elementi che hanno dato origine alla
presente situazione e la continuità in cui si situa.
L’identità
palestinese-gerosolimitana non ha mai smesso di essere attaccata, ma la fase
attuale rappresenta effettivamente un’intensificazione, caratterizzata da tre
elementi scatenanti:
Vi è stata dapprima
l’occupazione israeliana della piazza antistante la Porta di Damasco (1),
impedendo la vita sociale che da sempre i Palestinesi svolgono in quel luogo,
normalmente molto vivace, conviviale, animato da attività di piccolo commercio
e manifestazioni culturali… La piazza è una specie di anfiteatro davanti alla Porta
di Damasco. C’è sempre molto movimento: venditori, musicisti, danze, gente che
ci si reca semplicemente per discutere… Ed è pure un luogo di continui scontri
con gli Israeliani, quando questi decidono di scacciare i mercanti e la gente
che vi sosta. L’anno scorso avevano persino deciso di cambiare il nome alla
piazza, che in arabo si chiama Bal ‘ Al Amud (porta della Colonna), dedicandola
a due soldati israeliani morti in uno scontro con i Palestinesi. Anche in
questo caso, si trattava di un attacco all’identità ed ai simboli del nostro
popolo, alla vita sociale e culturale dei Palestinesi di Gerusalemme.
C’è poi stato un altro
episodio cruciale, di stampo razzista, tendente alla pulizia etnica, quando le
autorità israeliane hanno tentato di espellere i Palestinesi dal quartiere di
Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est – uno schema ormai consueto nella nostra vita.
Questo quartiere, in cui vivono rifugiati del 1948 (2), occupa una posizione
strategica.
Il tentativo
d’espulsione avviene poco tempo prima della commemorazione della Nakba, che in
noi provoca sempre sentimenti traumatici. Per questo ci fu una grande
mobilitazione e molta solidarietà con Sheikh Jarrah… Recentemente, mentre
attraversavo il quartiere, sono rimasta bloccata per due ore a causa degli
scontri… era come in guerra, con molta violenza e un elevato livello
repressivo. Si potevano vedere i soldati colpire i manifestanti alla testa…
Il terzo elemento è
stato l’attacco contro i fedeli venuti a pregare nella moschea Al Asqa, un
luogo santo per oltre un miliardo di musulmani. In teoria, 7 milioni di
musulmani palestinesi avrebbero il diritto di recarvisi, ma in pratica ciò
riesce solo a poche migliaia, a causa degli innumerevoli impedimenti escogitati
dagli Israeliani. Coloro che, malgrado tutto, ci arrivano vengono malmenati
durante la preghiera, il rientro, il digiuno e pure ciò rappresenta un forte
attacco all’identità palestinese e musulmana che ha sconvolto i Palestinesi,
specialmente gli abitanti di Gerusalemme. Con il Covid e ancora prima, con le
rivolte arabe sfociate per lo più in guerra o colpi di stato, il mondo ha
pensato che la questione palestinese fosse da relegare agli archivi storici, ma
gli ultimi avvenimenti l’hanno con forza riproposta all’attualità.
Puoi dirci qualcosa
della Striscia di Gaza?
Gaza è il luogo meglio
predisposto per captare le tensioni sorte a Gerusalemme. Da anni assediata da
Israele e marginalizzata dal governo palestinese ufficiale, Gaza ha subito
guerre ed attacchi ripetuti. La sua gente è inoltre molto attaccata a
Gerusalemme. Il 30 aprile il presidente Mahmud Abbas ha deciso di rinviare le
elezioni (per la Cisgiordania si trattava delle prime elezioni nazionali in 15
anni), prendendo a pretesto gli scontri che avvenivano a Gerusalemme e la
mancata garanzia che si potesse votare anche in quella città. In verità,
sappiamo che temeva il responso delle urne se si fosse votato alle date
previste… Erano quindi riunite tutte le condizioni perché Gaza reagisse.
Bisogna evitare di
interpretare questa reazione riferendosi unicamente all’aspetto islamista dei
gruppi di resistenza, perché in tutte le realtà resistenti di Gaza si parla di
un fronte comune. Le più popolari, è vero, sono Hamas e la Jihad islamica, ma ci
sono anche formazioni meno note, il cui orientamento politico non si base
sull’Islam; talune sono d’ispirazione marxista, altre nazionaliste arabe… La
decisione di scatenare una risposta armata, è stata opera di un “fronte
comune delle brigate”. Nel loro comunicato, esse non menzionano solo l’attacco
alla moschea, ma pure la pulizia etnica in corso a Gerusalemme est e la
situazione alla Porta di Damasco. Fanno parte del fronte comune sia membri del
marxista Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), sia
elementi legati a Fatah (ma non più ritenuti membri del partito); è un fronte
largo, che va oltre i movimenti islamisti.
Ora però, i media
vogliono far credere che si tratti solo di Hamas. Quando c’è una risposta
verbale e politica della resistenza, Nethanyahu ribatte che a Gaza Israele si
confronta solo con Hamas… È chiaro che cercano di ridurre il
conflitto ai soli aspetti religiosi ed è altrettanto evidente che ciò genera
confusione, permettendo di affermare che si tratta solo di reprimere un
movimento islamista, ecc.
Inizialmente c’era
quindi stata l’intenzione di espellere gli abitanti palestinesi da Sheikh
Jarrah e di demolirne le case per far posto a una nuova colonia ebraica. Questo
fatto è spesso presentato da Israele e da coloro che ne riprendono
l’argomentazione come una semplice questione giuridica o un contenzioso
immobiliare. Ma per i Palestinesi esso fa parte di una lunga storia di
spoliazione, comprensibile solo con riferimento a termini quali Nakba e
“diritto al ritorno”. Potresti soffermarti sul senso di queste nozioni e sul
modo in cui esse si ripropongono nei recenti avvenimenti?
Nakba è il temine
impiegato per descrivere i fatti che precedettero la dichiarazione
d’indipendenza dello Stato d’Israele, azioni criminali di spoliazione,
espulsione, demolizioni e massacri che portarono alla cacciata di due terzi del
popolo palestinese. Una parte fu espulsa dai confini della propria terra,
diventando rifugiati, altri si ritrovarono in altre località della Palestina
lontane dai loro villaggi o in campi profughi. Ci fu poi la legge israeliana
del 1950, detta dell’”assenteismo”, che considera tutte queste persone come
assenti e dà al governo israeliano il diritto di confiscane i beni e impedisce
loro in seguito di rivendicarli.
È pur vero che nel
periodo ottomano o il mandato britannico – quindi prima della Nakba – degli
ebrei avevano dei possedimenti in Palestina. Questa gente era comunque
un’infima minoranza e godeva dei favori delle autorità mandatarie. A quei
tempi, era pure in vigore un sistema di affitto o d’uso esclusivo tramite il
quale era possibile utilizzare una data proprietà per un certo periodo. Alcuni
Ebrei venuti in Palestina come rifugiati hanno potuto usufruire di questo
sistema di locazione….
Oggi, nel mondo arabo,
con il discorso della normalizzazione dei rapporti con Israele, circola l’idea
che gli ebrei abbiano acquistato la Palestina, non che l’abbiano occupata! Come
dire che se dei Tunisini o Algerini comperano dei terreni in Francia, l’Algeria
o la Tunisia possono più tardi occupare la Francia, è la stessa logica. In
realtà, la Palestina è stata occupata in maniera pianificata, per mezzo della
pulizia etnica e dei crimini perpetrati in modo particolare dalle milizie
ebraiche. So che son cose difficili da udire, ma è esattamente come ciò che ha
fatto l’ISIS in Siria e in Iraq: ricorrere al terrore perché gli abitanti
abbandonino i loro villaggi; fu questa la modalità di vuotare e occupare la
Palestina. Allora, il diritto internazionale e l’ONU hanno da una parte riconosciuto
lo Stato d’Israele e dall’altra dichiarato il diritto al ritorno dei
Palestinesi. Un diritto sempre misconosciuto da Israele, che d’altronde
disconosce la maggior parte delle decisioni della stessa ONU.
Tu lavori come
psichiatra e psicoterapeuta in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est. Nei tuoi
interventi pubblici e nei tuoi scritti hai spesso sottolineato l’impossibilità
di separare gli aspetti politici e psicologici per quanto riguarda la società
palestinese. In che modo il tuo lungo lavoro pratico sul campo ti dà la
possibilità di capire ciò che sta succedendo?
Ci sarebbe molto da
dire in proposito… ma voglio affrontare la questione partendo da un caso
particolare: prendiamo per esempio la risposta di Gaza. Attualmente, la gente
partecipa alla resistenza soprattutto per ragioni psicologiche, sono di questo
tipo le motivazioni principali. Quando si parla dei Palestinesi dediti alla
resistenza, ci si riferisce d’un lato alla resistenza popolare messa in atto
dai giovani gerosolimitani, dall’altro a coloro che resistono in modo più
formale come a Gaza… Non si tratta di considerazioni finanziarie o di mero
calcolo – calcolo in vite umane perse, in danni materiali subiti o in possibili
vantaggi… No, le ragioni sono psicologiche, perché i Palestinesi si vedono
attaccati nella propria dignità, nelle loro convinzioni profonde, in ciò che
credono – e non mi riferisco qui alla religione istituzionale, ma alla fede nel
loro diritto a questa terra. Per questo è difficile voler gestire la resistenza
del nostro popolo. Perché limitandoci al solo calcolo dei rischi, gli
Israeliani non possono aspettarsi una simile resistenza, data l’enorme
differenza delle forze in campo…
Oggi Gaza è diventata
uno spazio di guerra senza via d’uscita, sorvolata da 160 aerei militari che
potrebbero demolirla interamente – lo si è visto nel 2014. C’è inoltre il
divario sul numero dei morti, del tutto sproporzionato: nel 2014 i
bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 2000 persone, mentre dal lato
israeliano ve ne furono una dozzina… Eppure, malgrado ciò, questo confronto
letale per i Palestinesi prosegue, a causa della prevalenza degli aspetti
psicologici, della giustizia, della dignità umana. Per mezzo della resistenza i
Palestinesi ritrovano la loro capacità d’agire, rifiutano di vedersi reificati
e disumanizzati, esprimono la loro soggettività. Se non si capisce ciò, le
azioni palestinesi risultano insensate ed è per questo che la resistenza appare
incomprensibile a molti governi e istanze internazionali, che la riducono ad
atti suicidari sfocianti nell’autodistruzione della loro stessa causa. Invece,
come detto, esistono aspetti psicologici decisivi: con la resistenza
individuale o collettiva si ripristina l’umanità e la dignità dell’intero
popolo palestinese.
Hai appena toccato un punto
importante, menzionando l’approccio alla questione a livello internazionale.
Nella maggioranza dei discorsi ufficiali e nei media ci si concentra
soprattutto, se non esclusivamente, sulle fasi di crisi acuta, come quella
attuale, la quale avrà una ripercussione sul lungo periodo che ti prego di
evidenziare. Che cosa puoi dirci, inoltre, dei vari livelli, anche quelli
silenziosi, psicologici e mentali, in cui opera la guerra a bassa intensità?
Generalmente, ogni
colonizzazione ha la necessità di ammazzare un buon numero di colonizzati. Ma,
siccome non può ucciderli tutti, tenta almeno di ridurli a vivere come ombre,
privi di capacità d’agire, di volontà, d’identità, soprattutto privi d’identità
collettiva…
Agli Israeliani torna
utile se tu rinunci ad ogni sentimento collettivo, ad ogni volontà di
esprimerti. Le due alternative sono la morte fisica – vieni ucciso – o la morte
della coscienza, della soggettività. È ciò che succede a lungo termine. Israele
esercita il suo controllo sul popolo palestinese per mezzo dell’intimidazione.
Ma una crisi come questa arriva quando la gente supera la paura ed affronta la
situazione.
Palestinesi
intimiditi, sconfitti e ridotti al silenzio non disturbano nessuno, ma se
cominciano ad affermare la loro identità, il loro desiderio di liberazione,
allora gli Israeliani si sentono molto turbati e reagiscono brutalmente… Una
consuetudine perdurante negli anni è, invece, la totale intimidazione dei
Palestinesi. Un esempio: quando taluni hanno iniziato a mobilizzarsi, a recarsi
a Sheikh Jarrah e alla moschea Al Asqa, hanno ricevuto messaggi per mezzo dello
stesso software impiegato per la prevenzione Covid e le relative restrizioni,
messaggi del tipo: “Sei stato identificato nei pressi di Al Aqsa, sarai
punito”.
Esiste una specie di
dicotomia: o tu sei completamente succube e privo di soggettività o allora
rischi di morire, perché nella loro follia e nella loro ideologia gli
Israeliani ci vedono come barbari e terroristi oppure sottomessi e
disumanizzati.
Il primo punto è
dunque questa intimidazione permanente, mirante a sopprimere la nostra
soggettività.
Il secondo punto, per
noi, che siamo sempre impegnati nella resistenza – non solo nei momenti di
crisi – riguarda la necessità di uscire dalla posizione di vittime. Spesso, sul
piano internazionale ci sono manifestazioni in nostro favore quando il sangue
palestinese scorre a fiotti. Lo scontro attuale è però un po’ diverso del
solito: i Palestinesi mostrano la loro capacità d’agire e riescono a
contrastare le intenzioni israeliane. Il mio appello alla comunità
internazionale è di smettere di sostenerci solo per le disgrazie che ci
capitano e in quanto vittime, ma di supportare pure la nostra tenacia nel
resistere, la volontà di preservare la nostra dignità e la capacità di agire. Quest’appello
lo vado ripetendo senza sosta, perché si smetta di vederci solo come terroristi
o vittime! Noi non vogliamo essere dei terroristi, vogliamo ritrovare la nostra
soggettività, cambiare la situazione, riprenderci la nostra libertà individuale
e collettiva.
Per quanto concerne
gli effetti a lungo termine dell’occupazione, io li constato continuamente, sia
nella mia vita privata, sia nel mio lavoro di psichiatra. L’occupazione ha
delle gravi conseguenze traumatiche per i Palestinesi, conseguenze che non
corrispondono alla corrente definizione del PTSD (disturbo da stress
post-traumatico) nei manuali di psicologia occidentali… Poiché, come ho avuto
occasione di affermare più volte, per i Palestinesi le cause oggettive del
trauma non sono rimosse, esse sono sempre presenti e peggiorano. Noi siamo
permanentemente minacciati, perseguitati, espulsi, incarcerati o massacrati
dagli Israeliani… In quest’ottica, la Nakba non è un evento storico passato, ma
un processo che continua da oltre 70 anni. Volendo fare un paragone, questo
tipo di trauma assomiglia a quello subito da donne o bambini vittime di stupro
o di violenza domestica o coniugale, costretti a convivere con i loro
aggressori (3).
Il livello di
depressione e d’angoscia è molto alto, come pure una diffusa sofferenza
sociale… Va però precisato che non bisogna patologizzare troppo rapidamente
l’esperienza palestinese, poiché questi disturbi derivano da una realtà
oggettiva, cioè dall’occupazione. L’angoscia, la depressione, il lutto possono
essere reazioni a fatti gravi, come la perdita di una persona cara, la
distruzione della propria casa, casi di violenza…
Io lavoro tra l’altro
con Médecins sans frontières, segnatamente nel campo dell’aiuto a persone che
hanno subito violenze di tipo politico. L’effetto dell’occupazione non si fa
sentire solo a livello individuale, ma si ripercuote sui legami e le relazioni
sociali. Senza resistenza, questo stato di cose genera una società che
interiorizza il sentimento d’oppressione, sviluppa sfiducia tra i suoi membri,
soffre di un basso senso di autostima e fiducia in se stessa.. Le persone
competono tra loro per riuscire a farsi curare in un ospedale israeliano, dove
c’è più posto… Si tratta di condizioni create dall’occupazione, che distruggono
la fiducia collettiva; al punto che qualcuno finisce coll’accettare l’impotenza
e la condizione di vittima…
Io penso che la
resistenza contribuisca a neutralizzare questi effetti. Da un lato, essa rende
almeno un po’ di dignità e fiducia in se stessi, anche quando non riesce a
raggiungere i suoi obiettivi… Come dice un proverbio arabo, “La cosa essenziale
per l’uomo è di avanzare sulla propria strada, non di raggiungere il
traguardo”.
Quindi, per riprendere
il discorso sul “calcolo”, io credo che obbedisca ad una logica economica, una
logica di business… Un tale discorso non funziona quando si voglia ritrovare
giustizia e dignità: occorre allora un calcolo d’altro tipo, un’altra logica,
in cui rientra a pieno titolo l’aspetto spirituale, simbolico, psicologico.
https://www.invictapalestina.org/archives/43360
Palestina: la
resistenza come terapia (2-3)
In quanto tu stessa
abitante di Gerusalemme, puoi illustrarci in che modo ti vedi confrontata con l’occupazione?
Al pari di tutti gli
abitanti arabi di Gerusalemme, non sono cittadina di nessun luogo. I miei
documenti ufficiali non parlano affatto di cittadinanza. Assomigliano al
documento di soggiorno che può richiedere uno straniero residente in Italia.
Ciò è già un’importante privazione, che porta a sentirsi permanentemente
minacciati…
Inoltre, la maggior
parte dei Gerosolimitani è assai povera. Molti di loro non possono vivere in
città per questioni economiche e mancanza di spazio… Per noi, continuare a
vivere a Gerusalemme è una lotta perenne. Io ho fatto una scelta difficile, per
il fatto che, pur continuando a vivere in città ho deciso di non collaborare
con le istituzioni israeliane e quindi lavoro in Cisgiordania, il che comporta
difficoltà di tipo economico…
Va poi detto che,
essendo cresciuta a Gerusalemme ho potuto osservare gli effetti
dell’occupazione, per esempio il modo in cui gli uomini vengono umiliati per
strada dalla polizia e dai soldati israeliani, che li perquisiscono apposta per
offendere la loro virilità. Parlo soprattutto degli uomini, perché vedo che
sono i più colpiti nella quotidiana interazione, nelle quotidiani frizioni con
l’occupante. Naturalmente, a Gerusalemme ciò può accadere a qualsiasi persona
araba….
Alla fine, con la mia
famiglia abbiamo deciso di acquistare un appartamento in città. La ricerca è
iniziata nel 2003 ed è terminata nel 2021, un periodo che ha consumato molta
energia e risorse mie e dei miei genitori.
Del tutto diverso è
invece il caso della colonia chiamata Ramat Shlomo, situata nei pressi del
nostro quartiere di Shuaffat, la quale s’è enormemente espansa negli ultimi
anni. Se si confronta la velocità dello sviluppo edilizio delle colonie
israeliane con la mancanza di case per i Palestinesi e gli ostacoli per
accedervi, si rimane basiti. Solo noi Gerosolimitani siamo confrontati a ciò
giorno dopo giorno oltre a dover affrontare un sacco di restrizioni economiche,
giuridiche e amministrative – tutte di natura politica – per il solo desiderio
di trovare una casa.
La mia famiglia ha
avuto la fortuna di riuscirci, ma il fatto è molto raro. E le generazioni che
ci seguiranno, i miei nipoti e le mie nipoti, ad esempio, non avranno più i
mezzi per vivere a Gerusalemme. Si pensi, poi, che io lavoro duramente
(nell’ambiente della psicologia palestinese mi chiamano “the Shark, lo squalo”!
[Samah ride]), svolgo da anni vari impieghi nello stesso tempo, onde mettere
qualcosa da parte e garantirmi l’autonomia finanziaria per tutte le ragioni
appena elencate…
La colonia di Ramat
Shlomo è stata costruita nell’area di Shuaffat in tempi rapidissimi, come ho
detto, e s’è estesa al punto da inglobare l’intero quartiere. Che cosa
hanno fatto gli Israeliani dopo l’occupazione del 1967? Per prima cosa si
sono impossessati del 10% dei terreni della Cisgiordania attigui a Gerusalemme
– che considerano la “capitale eterna d’Israele”. In secondo luogo hanno
costruito le colonie in modo da frammentare la zona araba, che avrebbe invece
dovuto rimanere connessa, creando ulteriori difficoltà di movimento per gli
Arabi, cui non è più permesso transitare nei pressi di queste colonie. Tra il
mio quartiere di Shuaffat e quello di Sheikh Jarrah, per esempio, ci sono le
colonie Ramat Shlomo e Colline Française, un fatto che fa incollerire i
Palestinesi di Gerusalemme.
Una delle strategie
dell’occupazione è la frammentazione del popolo palestinese, fra gli abitanti
della Cisgiordania, i Gazawi, i Gerosolimitani, i Palestinesi del 48, (che
l’occupante chiama “arabi israeliani”) ed i Palestinesi della diaspora… In che
misura la presente rivolta riesce a sormontare questa divisione? Mi riferisco
particolarmente alla partecipazione del Palestinesi del 48 alla protesta, i
quali di solito sono meno attivi nella lotta contro l’occupante…
Hai ragione, è vero
che Israele ha pianificato contro il nostro popolo un sistema di frammentazione
molto efficace. Ma in una fase come questa tale sistema va in crisi ed i
Palestinesi serrano i ranghi… è il motivo per cui abbiamo visto Gaza
intervenire e rispondere agli attacchi contro i Gerosolimitani, mentre le
autorità palestinesi ufficiali non l’ha fatto, sebbene la geopolitica ufficiale
consideri Gerusalemme parte della Cisgiordania e l’ANP dovrebbe proteggerla…
Nel caso presente, il fatto più importante è comunque l’intervento dei
Palestinesi del 48. Penso che la presenza di alcuni di loro quando fu attaccata
la grande moschea ha favorito la mobilizzazione di molta gente… Anche perché
ciò avvenne poco prima della commemorazione della Nakba, che tocca ferite aperte
in molti Palestinesi del 48. Siamo di fronte ad un momento assai importante per
la loro ripoliticizzazione. E poi, sì, Israele ha lungamente tentato di
neutralizzarli, d’intimidirli fortemente onde impedire loro d’intervenire con
efficacia quando in Cisgiordania o a Gaza ci sono scontri. C’erano tante buone
intenzioni, ma nessun atto concreto, perché ciò era severamente punito. Conosco
parecchi colleghi medici, palestinesi del 48 o di Gerusalemme impiegati nel
sistema sanitario israeliano che in questo momento rischiano di perdere il
posto per il solo fatto di avere espresso la loro opinione su quanto sta
succedendo…
Anche alcuni miei
pazienti di Gerusalemme o del 48 che hanno effettivamente perso il lavoro a
causa della loro presa di posizione su Facebook o per aver partecipato a
manifestazioni; sono in questa posizione da parecchi anni e non possono quindi
più lavorare per gli Israeliani, poiché questo implica avere una “attestazione
di buona condotta” rilasciata dalla loro polizia!
Ci sono giovani Gerosolimitani
impossibilitati di viaggiare all’estero e di ottenere un lavoro per il fatto di
avere espresso il loro attivismo una sola volta nella loro vita. Anche questa è
una maniera d’intimidire, di ridurre, di ammaestrare, di controllare i
comportamenti individuali frequentemente praticata verso i Palestinesi del 48 o
di Gerusalemme est: toccarli nella loro esistenza con minacce inerenti il
lavoro o i loro mezzi di sussistenza… D’altro canto, in questi giorni nella
Palestina dei 48 si assiste ad attacchi fisici diretti d’estrema crudeltà. A
Tel Aviv, per esempio, s’è visto un’ottantina d’Israeliani continuare a
picchiare un Palestinese che già era a terra e così sfinito da non riuscire ad
opporsi alle botte… Un fatto che ha scioccato pure certi Israeliani. Sebbene le
autorità tentino di presentare la faccenda come una lite tra giovani, in realtà
questi giovani israeliani possono agire in tutta impunità, tanto è vero che
alcuni pestaggi sono avvenuti sotto gli occhi di soldati e poliziotti che non
sono intervenuti. C’è una palese complicità tra coloni e soldati. Nethanyahu,
dal canto suo, da un lato chiede ai militari di portare la calma nella
Palestina del 48 e dall’altro assicura loro che non dovranno temere nessuna
commissione d’inchiesta… ecco il messaggio comunicato loro! Non è difficile
immaginare come lo intrepreteranno i coloni, che si vedono concessa totale
impunità di sfogare la loro crudeltà e ferocia.
È pensabile, secondo
te, che l’attuale conflitto possa servire a riportare all’ordine del giorno il
diritto al ritorno dei Palestinesi? O, più in generale, esiste una loro
prospettiva sul piano giuridico?
Sul piano giuridico
israeliano no di certo! Perché Israele ha creato un arsenale di mezzi al
servizio dell’occupazione. Il suo sistema giuridico è concepito in modo da
impedire l’applicazione del diritto internazionale in favore della Palestina,
per esempio per implementare l’Accordo di Ginevra, che vieta ad Israele
d’insediarsi in un territorio occupato e dichiara illegali le colonie… mentre
le leggi israeliane lo permettono. La situazione attuale rimette quindi al
centro del discorso quest’aspetto della causa palestinese. Sono stati citati
tre fatti: Cheikh Jarrah, la Porta di Damasco e l’attacco alla moschea Al Aqsa.
Sono solo tre tappe, tre soglie o gradi di un lento processo costantemente in
atto a Gerusalemme, dove la nostra identità è sempre sotto attacco. Si pensi
alle leggi, introdotte già da molto tempo, miranti a limitare o ad impedire del
tutto il raggruppamento famigliare… Se sei un Palestinese di Gerusalemme che
sposa una donna di Ramallah, non puoi portarla a vivere con te in città, mentre
se vai a vivere a Ramallah, i tuoi figli non saranno riconosciuti come
cittadini di Gerusalemme e non potranno mai venire a viverci.
Come ho già detto prima,
i Palestinesi che ci vivono subiscono ogni sorta d’angheria a tutti i livelli e
in ogni momento. L’ultima scena è come un risveglio, un appello a tutti noi
perché alziamo la testa, ritroviamo la nostra dignità, riprendiamo l’azione
politica, ma è pure un richiamo al mondo a vedere quello che succede in
Palestina. Questi avvenimenti hanno avuto luogo durante il Ramadan, un mese in
cui ci si sarebbe potuto aspettare un po’ più d’attenzione da parte dei
musulmani… Perché quando si parla dei fatti di Cheikh Jarrah, o della Porta di
Damasco, ad essere presa di mira è l’identità araba e musulmana.
Per ritornare alla tua
domanda: sì, il diritto al ritorno è importante, ma il problema è più ampio; ci
sono cose più attuali e spinose che noi tutti tentiamo di affrontare. Sai
perfettamente anche tu che i fatti del 48 sono successi in un’epoca ancora
priva di internet e di tutte le odierne possibilità offerte dalla comunicazione
di massa. Oggi ognuno è in grado di sapere. Che Israele possa approfittare
dell’impunità per compiere le stesse cose che faceva in Palestina negli anni
Trenta o Quaranta del secolo scorso, è un fatto per noi insopportabile, tanto
per questa sua impunità quanto per la capitolazione o la complicità
internazionale. Gli si lascia mano libera pur assistendo in diretta a quanto
succede…. Ma qui non posso non accennare all’oscuramento da parte di Facebook e
Instagram, delle testimonianze e delle campagne “Save Cheikh Jarrah”.
Hai appena menzionato
la coscienza araba e musulmana, l’identità araba sotto attacco, che dovrebbe
risvegliarsi. Ma non pensi che, in una fase come questa, l’appello alla
solidarietà internazionale deve superare la differenza tra Arabi e Musulmani
(che si ritengono più vicini alla causa palestinese per ragioni politiche,
storiche, religiose o altre) e altri popoli o categorie identitarie? Suppongo
che in Europa molte persone potrebbero chiedersi come mai ti appelli
all’identità araba e musulmana e non in forma più generale all’umano senso di
ribellione di fronte a ciò che succede?
Il problema ha varie
facce… Non è possibile fare astrazione dell’attacco all’identità araba e
musulmana, come non si può negare che si tratti di una guerra etnica contro i
Palestinesi. C’è comunque pure una grave violazione dei diritti umani e tutti i
popoli che hanno vissuto la colonizzazione sanno esattamente di cosa parlo. Ma,
ripeto, non si può eludere la volontà di negazione ed il disprezzo di stampo
coloniale, questo disprezzo che Israele esprime per l’identità culturale del
nostro popolo, il quale è, di fatto, arabo e musulmano, sebbene potrebbe essere
altro.
La situazione di
risveglio da me menzionata va vista in contrapposizione al recente
avvicinamento a Israele da parte di quattro regimi arabi – il Marocco, il
Bahrein, gli Emirati Arabi ed il Sudan. Il pretesto addotto era che tramite i
trattati di pace e gli accordi di pace sarebbe possibile normalizzare le
relazioni con Israele senza cadere in contraddizione. Così almeno i dirigenti
politici hanno tentato di giustificarsi davanti ai loro popoli. I fatti hanno
però svelato le loro menzogne. È per questo che insisto sul livello
arabo-musulmano. Penso che nessuna colonizzazione può imporsi senza
disprezzare, schiacciare, negare l’identità culturale del colonizzato. È
precisamente ciò che Israele fa con i Palestinesi e questo fatto non riguarda
solo loro, ma tocca tutti coloro che s’identificano nella stessa identità
culturale.
Ma sul piano della
violazione dei diritti dell’uomo, dell’ingiustizia è chiaro che chiediamo alla
solidarietà internazionale di cogliere l’occasione per ampliare l’impegno
politico contro questa forma tutta speciale di colonizzazione, che estirpa gli
indigeni dalla loro terra per insediarvi estranei. Si tratta di un livello di
colonizzazione ben più grande e grave del corrente concetto del fenomeno o di
ciò che si definisce con il termine di apartheid.
https://www.invictapalestina.org/archives/43367
Palestina: la resistenza come terapia (3-3)
In molti Paesi occidentali
la gente comune non riesce a cogliere la dimensione religiosa e simbolica del
conflitto, usata sovente per ridurlo ad una guerra di religione, per suggerire
una falsa simmetria e mettere i due contraenti sullo stesso piano o – peggio –
per associare i Palestinesi al terrorismo islamico… Ovviamente, non voglio
ridurre le cause delle numerose rivolte palestinesi a questa dimensione, ma
spiegami qual è il senso simbolico e religioso di Gerusalemme e dei luoghi
santi nel conflitto.
Ritorno a ribadire la
grande importanza della fede e dell‘aspetto simbolico, ma c’è dell’altro…
Gerusalemme per molti suoi abitanti è il loro quartiere, il fulcro della loro
vita. Prendiamo la moschea Al Aqsa: essa è molto cara per esempio ai bambini…
Io, da piccola ci andavo a fare pic-nic con mia nonna. Quindi per noi è come un
foyer, è la nostra casa. Ci sono cose non riducibili alla sola dimensione
religiosa e simbolica. È la nostra geografia, il luogo dove siamo cresciuti,
tutte cose da non sottovalutare. Ho accennato poc’anzi alla Porta di Damasco:
c’è una canzone che ce ne dà un bel quadro, evocando la venditrice di caffè e
altri commercianti emblematici, s’intitola Bab Al-Amoud, di Maggie Youssef (4)
Ci fa capire che la
Porta di Damasco non ha un mero valore personale, individuale, un legame con
talune persone particolari. Essa possiede ai nostri occhi qualcosa di bello e
sacro, si riflette nelle nostre canzoni, nei detti popolari, è un riferimento
d’obbligo per tutti noi… infine, la sentiamo come un luogo archetipico.
Tutto ciò è parte
integrante dell’identità individuale e collettiva palestinese e di altre
persone, anche fuori dalla Palestina. E noi, che ben sappiamo come Israele ha
rubato la nostra terra e impedisce a molti di accedere a questi nostri luoghi,
sentiamo un dovere di responsabilità verso i Gerosolimitani, il dovere di
preservare l’identità del luogo, di salvaguardare il suo aspetto storico,
simbolico e religioso… Conosco parecchie persone non credenti o non praticanti,
persone dediti alla droga, che non frequentano la moschea. Ma che sono accorsi
a proteggere Al Aqsa. Partecipano alle manifestazioni, difendono coloro che
vanno in moschea a pregare perché si sentono parte della stessa identità
culturale. Ci tengo inoltre a dire che quando i Palestinesi mancano di tante
cose, quando subiscono fortemente le privazioni, allora il simbolico assume una
dimensione più rilevante. Evidentemente, il simbolico è importante per tutti,
ma predomina quando ci si vede privati dei diritti essenziali…
Da Gaza sono stati
lanciati razzi contro Israele, che ha risposto con bombardamenti che hanno
provocato dozzine di morti e centinaia di feriti (5). Lo scontro tende ad
essere associato ad altre crisi simili, per esempio a quella del 2014… pare che
Nethanyahu ed i dirigenti israeliani siano più a loro agio a gestire questo
tipo di conflitto, in termini di comunicazione sul piano internazionale e di
politica interna, che l’aspetto del sollevamento della gioventù di Gerusalemme.
Dal punto di vista strategico, questa militarizzazione conveniva veramente ai
Palestinesi? Mi pare di assistere al tentativo di soffocare e sviare la
dimensione insurrezionale, spontanea e popolare della rivolta, la quale per
Israele era forse più pericolosa che uno scontro con le organizzazioni armate
della resistenza a Gaza.
Questo ci riporta alla
questione del calcolo. Ti ho spiegato il perché non sia possibile applicare un
calcolo dei rischi del tipo “costi-benefici”, perché siamo in presenza di
motivazioni psicologiche importanti. Ma se proprio vogliamo fare questo calcolo,
direi che è solo quando Israele ha cominciato ad essere toccato nel vivo che il
mondo ha capito la portata di ciò che era successo a Gerusalemme. Fin tanto che
c’erano solo scontri quotidiani alla Porta di Damasco o a per Cheikh Jarrah, i
media statunitensi, per esempio, vi hanno dedicato ben poco spazio e Instagram
e Facebook hanno bloccato la diffusione di testimonianze… Quando i Palestinesi
protestavano disarmati, quando le loro manifestazioni popolari venivano
represse, quando i soldati israeliani li colpivano alla testa nelle strade di
Gerusalemme si rimaneva muti… Fu soltanto quando Israele ha iniziato a subire
danni, quando ha dovuto chiudere l’aeroporto di Tel Aviv che i media
internazionali si sono svegliati. A quel punto persino l’ONU si è mosso per
dare l’impressione di occuparsi della faccenda. Ogni dirigente politico si è
sentito obbligato a fare una dichiarazione pubblica. Ormai ci siamo abituati…
Penso inoltre che se non ci fosse stato l’intervento di Gaza, i Palestinesi non
avrebbero potuto pregare nella grande moschea alla festa dell’Aid, e il
tribunale israeliano non avrebbe rimandato la decisione in merito a Cheikh
Jarrah, che scadeva il 10 maggio. Allora, Israele può sì reprimere ogni
sollevamento popolare ed il mondo continuare a fare come le tre scimmiette, ma
quando Israele sente su di sé la pressione della resistenza i riflettori si
accendono. Certo, Israele può utilizzare la stessa macchina mediatica, la
stessa propaganda per diabolizzare la resistenza a Gaza – l’ha già fatto altre
volte – ma non si deve scordare che dopo ogni attacco a Gaza la resistenza
palestinese si rafforza, mentre i vari attacchi venivano lanciati con il
pretesto di annientarla. D’altro canto, come ho già detto, la resistenza di
taluni individui o di qualche gruppo, ristabilisce la coscienza di un
collettivo efficace e capace d’agire. Ciò umanizza i Palestinesi, nonostante
tutti i discorsi subiti pronti a diabolizzarne la resistenza.
Noi Palestinesi non
condividiamo il parere dominante a livello internazionale sulla nostra
resistenza. Non possiamo condividerlo perché noi facciamo un’esperienza di
prima mano, diretta, nella vita di tutti i giorni. Malgrado tutte le riserve
che possiamo addurre in merito alla politica delle varie organizzazioni e
fazioni, credo che ci sia consenso per quanto riguarda l’importanza della
resistenza, di tutte le forme di resistenza messe in atto dal popolo
palestinese. Perché nessuno, né l’ONU, né i regimi arabi o i democratici di
tutto il mondo, è in grado di proteggere il nostro popolo, di ricostruirne la
dignità e l’umanità; questo compito solo la resistenza in tutte le sue svariate
forme può svolgerlo.
A questo proposito
voglio ribadire che ritengo valida ogni forma di resistenza. Per un popolo
occupato, la resistenza è un diritto umano, oserei dire un dovere. E il quando
e il come della scelta dei modi è cosa che compete solo agli stessi
Palestinesi. Sta a noi decidere quale forma privilegiare e quando possiamo
metterla in pratica.
Ultimamente abbiamo
visto taluni paesi arabi normalizzare le loro relazioni con Israele o perlomeno
riavvicinarglisi diplomaticamente. È poi stato detto a più riprese che la
questione palestinese avesse perso peso. Nell’assenza di un forte sostegno
statale, sia ne Paesi arabi che altrove, e di fronte al discredito dei loro
governanti, la lotta dei Palestinesi assomiglia sempre più ad un sollevamento
popolare, il quale non è interpretabile solo nei termini dell’appartenenza
identitaria (araba o islamica), di scontro tra fazioni interne o di rivalità
geopolitiche… Paradossalmente ciò potrebbe rivelarsi un vantaggio, di fronte
alla superiorità militare di Israele?
Penso che per i
Palestinesi ciò sia allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza. Da un
lato, la resistenza gode di un sostegno diffuso, non ufficiale, il che
impedisce d’imbrigliarla per mezzo della cooptazione, la corruzione o
l’intimidazione. Essa saprà sempre rinnovarsi e rinvigorirsi, grazie al suo
carattere popolare. È dunque un bene che non si tratti di una resistenza
finanziata da alcuni Stati, gli Emirati Arabi, ad esempio, o l’Arabia Saudita,
così che non la si può né ricattare né intimidire. Ci saranno sempre forze
nuove, dei giovani pronti a tenere testa agli Israeliani, nei campi profughi,
nella città vecchia di Gerusalemme, in tutta la Palestina. D’altro canto manca
una dirigenza decente, che sappia esprimere le aspettative popolari, sviluppare
ulteriormente questa resistenza e cogliere l’occasione per realizzare obiettivi
politici…
Tu denunci un’assenza
di dirigenza… Nello stesso tempo, se pensiamo a ciò che è successo negli ultimi
anni, si vedono un po’ ovunque sollevamenti, rivolte, specialmente prima della
crisi del Covid… e la mancanza di una dirigenza capace, cioè la crisi della
rappresentanza politica si nota nella maggior parte dei casi. Oggi c’è una
sanguinosa repressione in parecchie città della Colombia, che ricorda la serie
di rivolte del 2019, a Hong Kong, in Cile, Honduras, Algeria, Iraq, Libano e
pure i sollevamenti nei Paesi arabi nel 1911. Più recentemente, ci sono stati i
tumulti negli USA dopo l’assassinio di George Floyd. Dappertutto, si è trattato
di grandi e diffusi movimenti popolari, che offuscavano i partiti, i gruppi
tradizionali, l’appartenenza politica istituzionalizzata o addirittura
geopolitica… C’era diffidenza verso la dirigenza, un po’ come ciò che è
successo inizialmente in Palestina con il sollevamento di Gerusalemme est e
pure all’inizio della Grande Marcia del Ritorno del 2018, che non era
inquadrata da un gruppo o da un partito. D’un tratto, sebbene la situazione
palestinese sia particolare, non ti sembra che queste somiglianze tra vari tipi
di contestazione che sfuggono a ogni forma di direzione, possa fare emergere
nuove forme di solidarietà, di risonanze, di nuove prospettive di lotta per i
Palestinesi?
Sì, penso che nella
lotta palestinese contro l’occupazione si possa riconoscere un carattere
universale. La nostra lotta può ispirare molte persone in tutto il mondo e,
inversamente, noi possiamo imparare molto dalle lotte di altri popoli
colonizzati, occupati o repressi, altri popoli che hanno fatto molti sacrifici
per la giustizia e contro l’oppressione. Secondo me, la situazione
contemporanea permette soprattutto di poter ricorrere a tali sollevamenti
popolari quando non abbiamo una dirigenza politica che faccia proprie le nostre
speranze…
La mia critica è
rivolta soprattutto ai dirigenti palestinesi ufficiali. Questi non
rappresentano le aspettative e la volontà del popolo palestinese; momenti come
questo permettono quindi l’emergere di altre opzioni politiche, di altre
opportunità, di altri leader più meritevoli di rappresentare i Palestinesi.
Io sostengo che
l’occupazione tenti con ogni mezzo di contrastare il processo democratico in
Palestina. Israele ha avuto quattro elezioni in meno di un anno e mezzo, eppure
ha impedito la prima elezione che da noi doveva tenersi dopo 15 anni. Ecco
l’enorme squilibrio tra le due parti.
Che si tratti della
scelta dei dirigenti o delle forme di resistenza, i Palestinesi devono essere
in grado di decidere… Naturalmente, io sono favorevole alla discussione, al
dibattito, alle opzioni riguardanti le forme di resistenza. Ma ciò dev’essere
fatto fra Palestinesi, fra tutti i Palestinesi dei vari frammenti geografici
creati dall’occupazione e pure fra i Palestinesi della diaspora. Non tocca a
capi di Stato stranieri e nemmeno a leader non eletti democraticamente decidere
al posto del nostro popolo.
La solidarietà
internazionale è comunque molto importante. Voglio dire in particolare agli
abitanti di paesi democratici che la loro solidarietà può giovarci molto: può
perlomeno contribuire alla sopravvivenza della nostra identità e quindi dare
fastidio a Israele, impedirgli di godersi un’occupazione tranquilla. Inoltre,
la solidarietà internazionale ha un effetto terapeutico per il nostro trauma
collettivo, perché esprime un’affermazione della nostra umanità, della nostra
soggettività e capacità di agire, un riconoscimento della nostra esperienza e
dei nostri sentimenti. Essa si fa portavoce della nostra narrazione e ci aiuta
a liberarci dello statuto di vittime per diventare attori di cambiamento…
Vedendo quello che sta
succedendo sotto i nostri occhi, quale sarebbe, per te, il migliore scenario
possibile? Come l’immagini tu la liberazione della Palestina?
[Samah ride] Penso che
la situazione attuale offra l’occasione di una ripoliticizzazione, sia per i
Palestinesi, sia per coloro che ne sostengono la causa. Spero che questa
situazione crei imbarazzo ai regimi ufficiali, non solo a quelli arabi, ma in
tutto il mondo, a regimi ipocriti che continuano a permettere l’uccisione dei
bambini di Gaza solo per confortare la cattiva coscienza europea in relazione
ai massacri degli Ebrei commessi sotto il nazismo. Spero che questo mutamento
di coscienza costringa Israele a rendere conto dei suoi atti e porti alla
modifica dello statu quo, permettendo ai Palestinesi di diventare indipendenti
e più liberi. Penso pure che sia arrivato il momento di un rinnovamento
politico in Palestina, perché la nostra società non è sterile al punto di
accettare la dirigenza attuale… Se la comunità internazionale smette
d’intervenire negativamente nell’agenda politica del nostro popolo, questo sarà
capace di darsi il personale politico più capace di esprimere il suo desiderio
di libertà e di liberazione.
1.
Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in
arabo (Porta della Colonna).
2.
Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata
dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto
centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la
“Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune
precisioni in merito.
3.
Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
4.
https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
5.
Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo
giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il
bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39
donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)
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