La Federazione Italiana Giuoco Calcio e la nazionale, intesa come
selezione, hanno assunto una posizione incomprensibile riguardo all’iniziativa
antirazzista prima delle partite. “Ci inginocchiamo se si inginocchiano gli
altri” è, semplicemente, una risposta demenziale, priva di logica.
Guardiamo però in faccia la realtà: perché i calciatori italiani dovrebbero
inginocchiarsi, se non credono davvero in questa iniziativa antirazzista?
Perché li si dovrebbe costringere ad una messinscena ipocrita, se non sentono
alcun trasporto verso quel monito?
Badate bene che io non li sto giustificando né criticando, io semplicemente
guardo in faccia alla realtà.
I calciatori della nazionale sono lo specchio dell’Italia, in tutta la sua
multiforme complessità.
Dell’Italia migliore, dell’Italia peggiore.
Un’Italia che, stando agli ultimi sondaggi politici, vede la somma di Lega e
Fratelli d’Italia oltre il quaranta per cento del gradimento elettorale.
Un’Italia in cui troppa gente crede ancora che il razzismo sia nulla più che
una strumentalizzazione, un’arma di propaganda della parte sinistra del nostro
arco costituzionale.
I calciatori della nazionale sono ragazzi ventenni o trentenni cresciuti in
questo clima culturale.
Per quanto ricchi e famosi, questi giovanotti non vivono in una bolla: sono
figli del loro tempo. Si aggiunga il fatto che questa nazionale non ha neppure,
tra i suoi convocati, un calciatore di colore.
Per un Claudio Marchisio che non perde occasione per scagliarsi contro ogni
forma di discriminazione, tanti altri preferiscono non prendere posizione: il
che è già, di per sé, una presa di posizione.
Ma il problema riguarda tutto l’ambiente del calcio, non solo i giocatori.
Due anni fa, nell’aprile del 2019, si giocò a Cagliari un Cagliari – Juventus
investito da violente polemiche sulla questione degli ululati razzisti allo
stadio. A denunciarli furono, in particolare, due calciatori di colore della
Juventus, Moise Kean e Blaise Matuidi.
Il diciannovenne Kean segnò un gol e non trattenne un’esultanza provocatoria
verso la curva da cui erano giunti gli ululati. La conclusione fu paradossale:
furono lui e il suo compagno Matuidi a finire sul banco degli accusati, avendo
osato sfidare l’intoccabile pubblico.
A rimproverare Kean fu, uno per tutti, Leonardo Bonucci, senatore della
Juventus, lo stesso che nei giorni scorsi ha rappresentato la incomprensibile
posizione della nazionale con spericolati equilibrismi dialettici: disse che
Kean aveva sbagliato.
Il dibattito ebbe anche un acceso strascico su Sky, a fine partita,
protagonisti il presidente del Cagliari Giuseppe Giulini e il commentatore Lele
Adani.
Traggo dalla testata Il Post le dichiarazioni del presidente Giulini di
quell’aprile 2019, perché le trovo molto significative di quale sia il grado di
sensibilità del calcio verso il problema delle discriminazioni razziali.
Significative anche nell’ordine dei concetti espressi:
“Evitiamo moralismi – ha esordito il numero uno del club sardo nello studio con
Cattaneo i suoi ospiti -. Se quell’esultanza l’avesse fatta Bernardeschi la
reazione del pubblico sarebbe stata la stessa”. Insomma, non c’entra il
razzismo secondo Giulini: i tifosi avrebbero reagito a una provocazione del
giocatore. “Kean ha sbagliato, come del resto hanno detto anche i giocatori
della Juve (Bonucci nell’intervista flash a fine partita, ndr) – ha proseguito
-. Colpe a metà? Sì, ma dopo l’esultanza. Prima la colpa è del giocatore. In
ogni caso io ho sentito soprattutto fischi in realtà. Cori razzisti? Se ci sono
stati vanno condannati ovviamente”.
Davvero ci potevamo aspettare una nazionale schierata apertamente contro il
razzismo, cosciente del potente valore simbolico dei suoi gesti?
Ma, infine, avrebbe senso chiedere di inginocchiarsi a gente che non
riconoscere alcun valore a quel gesto?
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