1.
La situazione politica della Repubblica Democratica
del Congo (RdC), e in particolare della regione del Nord Kivu (dove è avvenuto
il tragico agguato in cui hanno perso la vita, nel febbraio scorso,
l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro
autista Mustapha Milambo), è segnata da decenni da una profonda e drammatica
instabilità. Utilizzando un’immagine evocativa, lo psichiatra e antropologo
francese Frantz Fanon scriveva che «se l’Africa fosse raffigurata come una
pistola, il grilletto si troverebbe in Congo». I gruppi in conflitto, in un
intreccio di cui risulta difficile ricostruire le ragioni originarie di
contrasto, sono formati soprattutto da ribelli hutu ruandesi
membri delle FDLR (Forze democratiche di liberazione del Ruanda) e da
componenti delle ugandesi ADF (Forze democratiche alleate), di religione
musulmana e, per questo, spesso associate alla realtà jihadista,
che però non pare essere la componente decisiva alla base degli attacchi. Un
altro gruppo numeroso, operativo in tutta la regione del Sud Luberu, è quello
dei banyamulenge, pastori tutsi di origine
ruandese, guidati da Michel Rukunda (“in arte” Makanika), che appoggiarono
Laurent-Desirèe Kabila nell’ascesa al potere ai danni di Mobutu nel 1997,
perennemente in conflitto con i combattenti delle milizie locali di villaggio,
genericamente indicate come mai-mai. Il 17 maggio 2021, per tentare
di porre in fine all’attivismo dei gruppi armati, il capo dello Stato
congolese, Felix Tshisekedi, ha dichiarato lo stato d’assedio nelle province
dell’Ituri e del Nord Kivu, sostituendo le autorità civili con reparti
militari, che però non sempre rispondono alle direttive statali, ma tendono ad
agire secondo fedeltà di corpo.
2.
Per intuire la complessità dell’attuale situazione,
bisogna guardare al vicino Ruanda (confinante a Nord-Est proprio con la regione
dei grandi laghi del Nord Kivu): a quel Ruanda, il cui territorio ha
un’estensione pari a circa un novantesimo rispetto a quello congolese e la cui
ricchezza di suolo e sottosuolo non è neanche lontanamente paragonabile a
quella dell’RdC, ma che risulta oggi curiosamente il primo produttore mondiale
di coltan (ne esporta circa 600 tonnellate all’anno, contro le 200 circa del
RdC, e ha registrato una crescita nelle esportazioni pari al 42% solo nel
2019). La storia del Ruanda è particolarmente significativa per comprendere
come le potenze occidentali abbiano sistematicamente cercato di creare uno
stato di caos nella cosiddetta regione dei Grandi Laghi. Nel 1919, con
l’entrata in vigore del Trattato di Versailles, l’ex colonia tedesca del Ruanda
divenne un protettorato nelle Nazioni Unite sotto il governo del Belgio, che ne
mantenne il controllo fino al 1962. Nei decenni di dominio coloniale, Germania
e Belgio hanno artificiosamente alterato i rapporti tradizionali fra le due
etnie che dal XVI secolo abitavano la regione, gli hutu e
i tutsi – che fino ad allora avevano un rapporto
collaborativo, condividevano la medesima lingua, religione e tradizione –,
fondando un vero e proprio sistema di classi in cui la minoranza tutsi (14%
della popolazione) veniva favorita sulla maggioranza hutu (85%)
grazie al fatto che solo ai primi era garantita una formazione basata sul
modello occidentale. La creazione ad hoc di tale spaccatura –
tanto profonda che nel 1926 è stato introdotto un sistema differenziato di
carte di identità tra le due etnie – è servita al Belgio per assumere il
controllo della regione. Il Belgio, infatti, non ha mai concretamente delegato
il governo locale ai capi indigeni, mantenendo uno stringente obbligo di
ratifica di ogni decisione da parte dell’amministrazione coloniale, che si
serviva dell’intermediazione operata dall’aristocrazia tutsi.
Dopo la Seconda guerra mondiale, con la rivoluzione
sociale e l’indipendenza di Ruanda e Burundi nel biennio 1961-1962, si aprì un
periodo molto travagliato per la regione. Nel 1960 gli hutu vinsero
le elezioni, e si fecero autori di numerose purghe e faide interne. La
situazione sfociò nella guerra civile ruandese, a causa della quale decine di
migliaia di tutsi furono uccisi e altrettanti costretti a
fuggire in Uganda. Nel 1987 la diaspora tutsi diede vita al
Fronte patriottico ruandese (FPR), guidato da Fred Rwigyema e Paul Kagame, che
mirava a far rientrare in patria i profughi tutsi e a
ribaltare i rapporti di forza con gli hutu. In questo contesto a
dir poco movimentato, segnato dalle prime azione armate del FPR in territorio
ruandese, il Belgio non intervenne, e il ruolo di traino occidentale fu assunto
dalla Francia, alleata di Juvénal Habyarimana, allora presidente ruandese di
origine hutu. Le autorità francesi dotarono le forze hutu di
armi e materiale bellico proveniente dall’Occidente, dal potenziale distruttivo
imparagonabile rispetto alle armi che circolavano nella regione.
Un’apparente tregua fu sancita il 4 agosto 1993 grazie
agli accordi di Arusha (firmati definitivamente il 3 ottobre del medesimo
anno), a cui contribuirono in maniera sostanziale Francia e Stati Uniti, che
prevedevano il rientro dei profughi tutsi e il riconoscimento
di un maggiore peso politico all’FPR in Parlamento. Ma la tregua fu solo
apparente. Da quel momento il presidente Habyarimana, con l’appoggio del suo
clan, iniziò a preparare quello che per molti è il secondo più grande genocidio
della storia. Fondamentale fu il sostegno cinese, che fornì centinaia di
migliaia di machete alle forze hutu, organizzatesi in eserciti
irregolari con l’obiettivo di sterminare la minoranza tutsi (da
qui il nome della famosa “Radio Machete”, centro di coordinamento delle
forze hutu, che coordinava gli attacchi e spingeva a completare lo
sterminio degli “scarafaggi”). Il sostegno finanziario alla base delle
operazioni fu cospicuamente fornito dalla Francia (i relativi documenti, in
parte recentemente desecretati dal governo francese, sono raccolti nel c.d.
“archivio Mitterand”).
Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale ruandese, con a
bordo il presidente del Burundi Ntaryamira e il presidente del Ruanda
Habyarimana (entrambi hutu), venne abbattuto da un missile
terra-aria nei pressi di Kigali. Ancora oggi l’attribuzione della
responsabilità dell’attentato è incerta. I tutsi del FPR
accusano gli estremisti hutu, che si sarebbero sentiti traditi
dagli accordi di Arusha firmati da Habyarimana; gli hutu accusano
invece il FPR, e più direttamente lo stesso Kagame, il quale avrebbe
cinicamente scommesso sulla reazione violenta degli hutu, che
avrebbe assicurato ai tutsi il sostegno internazionale di cui
necessitavano per superare l’ostilità francese. Come che sia andata,
l’abbattimento dell’aereo fu effettivamente il casus belli che
diede il via al genocidio. Nel giro di 90 giorni, vennero trucidati circa un
milione di tutsi e di hutu moderati. Nel
tentativo di impedire la fuga delle vittime, vennero costruite vere e proprie
barriere stradali, e chiunque ai controlli risultava di etnia tutsi veniva
massacrato a colpi di machete, mazze chiodate e asce. L’ONU assistette inerme
al massacro, decidendo inizialmente di ritirare la quasi totalità dei Caschi
blu presenti sul territorio. Il 22 giugno 1994 intervenne il governo francese,
con un’operazione che – secondo varie fonti – era originariamente destinata a
sostenere gli hutu, ma che fu poi appoggiata dall’ONU e
riconosciuta di carattere umanitario, a difesa della minoranza tutsi e
con l’obiettivo di arrivare a una tregua. Grazie a tale intervento, il 4 luglio
del 1994 Paul Kagame, attuale presidente del Ruanda e allora a capo del FPR,
entrò a Kigali, e il successivo 16 luglio il conflitto venne dichiarato
cessato.
A questo punto si generò un enorme movimento di
profughi hutu, fuggiti dopo l’ingresso a Kigali di Kagame e le
conseguenti rappresaglie tutsi, per cercare rifugio nel vicino
Congo. L’esodo ebbe dimensioni epocali. Tra aprile ed agosto del 1994, secondo
le stime del UNHCR circa 2,1 milioni di profughi hutu si
riversarono nelle foreste del Nord Kivu. Le frange più estreme, vicine alle ex
forze presidenziali, erano ancora determinate a colpire la minoranza tutsi ormai
al governo. Le forze hutu ruandesi riuscirono pertanto a
riorganizzarsi, e appoggiarono l’azione militare dell’Alleanza delle Forze
democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (AFDL), con a capo
Laurent-Désiré Kabila, al fine di potersi insediare nel territorio congolese al
confine col Ruanda. Con il sostegno di Uganda, Burundi e Angola, il fronte
riuscì a prendere possesso di Kinshasa e a cacciare il dittatore Mobutu.
Questo conflitto prese il nome di Prima Guerra del
Congo, e il successivo precario equilibrio che ne scaturì fu la base per lo
scoppio della Guerra mondiale africana (anche detta seconda guerra del Congo),
in Occidente praticamente sconosciuta nonostante si tratti del conflitto armato
che ha causato più morti dopo la seconda guerra mondiale (durante il conflitto,
anche per via delle connesse carestie, morirono circa cinque milioni e mezzo di
persone tra il 1996 e il 2003, ed il conflitto, nonostante gli accordi di pace
del 2003, è nei fatti ancora in corso).
3.
È impossibile ricostruire, in questa sede, le ragioni
e gli sviluppi di una guerra che porta con sé interessi e complessità
incalcolabili. In estrema sintesi, il fronte del FPR, con gli eserciti
nazionali di Ruanda e Burundi, che vantavano una forte influenza nella regione
del Nord e del Sud Kivu, appoggiato cospicuamente da Francia e Cina, si
contrappose al governo Kabila, che stava contraendo un ingentissimo debito
estero, e si scontrò con l’esercito nazionale congolese, che, oltre
all’appoggio di Angola, Ciad, Sudan, Namibia e Zimbawe, poteva contare
sull’appoggio degli Stati Uniti d’America, sponsor della prima
ora del presidente Kabila. Otto furono le nazioni africane coinvolte,
trentacinque i gruppi armati. Il vero oggetto di contesa erano le preziosissime
risorse del Congo orientale.
Dopo l’assassinio di Kabila nel 2001, il conflitto
vide formalmente la fine, con gli accordi di pace di Sun City del 2003, cui
seguì l’adozione della Costituzione transitoria dell’RDC e la formazione di un
governo transitorio guidato dal figlio di Laurent-Desirèe Kabila, Joseph,
sostenuto anche dalle forze di opposizione. Lo stesso Kabila jr. vinse poi le
elezioni del 2006, formalmente “libere”, anche se l’influenza americana sembra
essere stata decisiva per il successo del leader, al netto delle
pesanti ombre sul sistema di spoglio delle schede e di possibilità di accesso
ai seggi, venute fortemente alla luce in occasione delle elezioni del 2016. In
questo contesto, segnato da una profondissima instabilità, va registrato il
fatto che dal 1987 Paul Kagame è l’assoluto punto di riferimento del governo
ruandese. Dipinto inizialmente come paladino della libertà per la
minoranza tutsi, le ombre sulla figura di Kagame, riconfermato
presidente in Ruanda per la quarta volta nel 2017, si sono nel tempo infittite.
Secondo quanto riportato da diversi report (su tutti uno
realizzato da Amnesty International), già dal 2000, anno della sua prima
elezione, Kagame ha costantemente violato i diritti delle minoranze politiche,
silenziando, censurando e perseguendo i propri oppositori politici, creando un
vero e proprio clima di terrore. La sua avversaria alle ultime elezioni del
2017, Diane Rwigara, si è dovuta ritirare dalla corsa alla presidenza a seguito
di dubbie accuse di falsificazione di firme a sostegno della propria
candidatura. Lo stesso Kagame è accusato in Francia (a seguito della citata
declassificazione degli “archivi Mitterand”) di essere stato l’autore
dell’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava Habyarimana, e di avere pertanto
giocato un ruolo non del tutto “limpido” nella gestione del genocidio. Dal
canto suo, Kagame sta ulteriormente rafforzando la propria popolarità in
Ruanda, e la narrazione interna è quella di un eroe-nazionale insostituibile,
che garantisce ricchezza e prosperità alla nazione.
Per tentare di comprendere a fondo la figura di Paul
Kagame e i motivi che sottostanno alla prosperità del Ruanda, parlano chiaro le
testimonianze (pur negate o comunque fortemente “edulcorate” da fonti ruandesi)
che ci arrivano da Timothy Longman, professore di Scienze Politiche
all’Università di Boston e già delegato delle Nazioni Unite all’Osservatorio
per i diritti umani in Ruanda:
«Nel 2000 ho condotto una ricerca nel Congo orientale
e ho raccolto numerosi racconti di testimoni oculari dei massacri compiuti dal
FPR guidato da Kagame e dall’esercito di cui questo era parte. Naturalmente,
all’epoca il presidente ruandese ha negato che le sue truppe fossero presenti,
ma io le ho viste e ho intervistato alcuni testimoni oculari che le hanno
viste. […] Lo sfruttamento delle risorse del Congo è una parte molto
significativa del recente sviluppo economico del Ruanda, anche se non è
l’unica. È importante rendersi conto che la prosperità del governo di Kigali
poggia in maniera indissolubile su due fattori determinanti: il senso di colpa
dell’Occidente e la sua affidabilità. Una fetta molto consistente del bilancio
del Ruanda, infatti, proviene dai finanziatori internazionali e gli ingenti
investimenti che arrivano si basano in parte sulla narrazione che il FPR ha
costruito a proposito di come abbia salvato il Ruanda, perdonato i nemici,
sostenuto i diritti umani e l’unità nazionale. L’occidente riconosce Kagame
come un leader serio, sa che i soldi a lui destinati saranno spesi per i
progetti concordati e non dispersi tra le maglie di un sistema corrotto e sa
che il Paese è stabile. Lo considera un dittatore buono» (T. Longman,
intervista riportata in M. Giusti, L’omicidio Attanasio,
Castelvecchi, Bologna, 2021, p. 41).
L’infinito conflitto africano rappresenta
plasticamente quelle che il sociologo italiano Marco Deriu ha definito «guerre
invisibili», ossia guerre che «sono condotte – sia dal punto di vista militare
che della comunicazione – in modo tale da non essere viste o registrate dall’opinione
pubblica. Nell’epoca della televisione di massa [e dei social network!], a
livello comunicativo esiste solo ciò di cui esistono le immagini. Se le
immagini non arrivano o sono censurate, l’evento, dal punto di vista della
percezione comune, non è mai successo» (M. Deriu, Dizionario critico
delle nuove guerre, Emi, Bologna, 2005).
4.
In questa tragica vicenda, la vera posta in gioco è
sempre stata il Congo, reso oggetto (e non soggetto) della propria storia. Come
detto, il Ruanda risulta essere il primo esportatore di coltan, nonostante
circa l’80% delle risorse mondiali si trovi in RdC. Ciò è anche dovuto al fatto
che sia negli Stati Uniti, sia in Europa corre l’obbligo di certificare la
provenienza dei minerali adoperati nella produzione, per combattere lo sfruttamento
minorile. È per questo (ed anche a seguito di una legge varata nel 2018 da
Joseph Kabila, che ha raddoppiato le royalties governative a
carico delle multinazionali) che le multinazionali hanno, illegalmente e quasi
interamente, dirottato l’esportazione del coltan al Ruanda, privo di miniere e
ove non si ha traccia di sfruttamento minorile.
In questo contesto, in Congo si è ormai passati dallo
«stato fallito» allo «stato inesistente», formalmente in piedi ma nei fatti del
tutto incapace di dare risposta a qualsiasi legittima attesa dei suoi
cittadini, né tanto meno di riuscire a opporsi all’illegale prepotenza delle
multinazionali. Tutto ciò è frutto di quella che è stata correttamente definita
«geopolitica del cinismo»: «I protagonisti della geopolitica del cinismo non
sono gli Stati direttamente. Essi sono presenti sullo scenario congolese per il
tramite di soggetti privati (gruppi armati, multinazionali, trust funds
finanziari, associazioni) che agiscono con modalità prettamente economicistiche
per massimizzare i loro profitti saccheggiando il Congo. Ecco perché è assai
fuorviante chiamare il conflitto in Congo, come fanno tanti, una guerra
«etnica». Dentro la guerra del Congo c’è certamente una componente etnica,
innegabile nella funzione combattente strumentale. Ma le strategie, le finalità
e il bottino finale sono extracongolesi. Questo dato rende difficile stringere
accordi di pace perché gli attori in campo non sono dichiarati e non hanno
interesse a interrompere il business ormai consolidato nei decenni. Tuttavia,
nella giungla delle sigle combattenti e degli operatori economici globali e
locali che alimentano la geopolitica del cinismo in Congo, alcuni attori sono
identificabili e portano avanti alla luce del sole i loro piani di aggressione al
gigante ferito». (J.-L. Touadi, Le guerre invisibili del Congo,
in Limes, 12/2015).
Nonostante gli abitanti della regione del Kivu si
siano fin dall’inizio mostrati estremamente disponibili ad accogliere i
profughi, una cascata di eserciti, congolesi e ruandesi, si è riversata, come
visto, nel loro territorio, provocando continui scontri armati che non hanno
mancato di coinvolgere i civili. In questo contesto, la popolazione interviene
con quello che può, accoglie nei propri villaggi il vicino, nonostante sia
travolta da un fiume in piena. Non nelle grandi città, davanti agli eserciti e
alle telecamere, ma nei piccoli villaggi della foresta la popolazione cerca di
dare il proprio contributo positivo, di mettere a disposizione né più né meno
che la propria relazione umana, senza paura o diffidenza nei confronti dello
straniero che chiede aiuto.
Ma ciò a cui stiamo impassibilmente assistendo è un
vero e proprio «genocidio in dosi omeopatiche», che ha causato e continua a
causare milioni di morti. Dosi omeopatiche che garantiscono il silenzio, la
connivenza. Negli ultimi mesi i massacri di civili nella regione, e in
particolare a Beni, sono all’ordine del giorno, nel segno di una totale assenza
dello Stato e di una qualsiasi forma di tutela e sicurezza per la popolazione:
basti pensare che, a ottobre dello scorso anno, più di mille detenuti sono
fuggiti dalla prigione centrale di Kangbayi per recarsi a Beni, senza che
l’esercito abbia mosso un dito, come spesso avviene con tanti altri gruppi di
ribelli. Appare condivisibile l’analisi recentemente proposta da Joan Tilouine
su Le Monde, secondo cui «la comunità internazionale, o più
precisamente alcune potenze occidentali, hanno sfruttato gli eventi drammatici
accaduti in Ruanda nel 1994 per completare il progetto cominciato nella
conferenza di Berlino del 1885, cioè rendere il vasto spazio congolese un
magazzino di risorse e materie preziose a cui i vincitori possono attingere
liberamente. Di qui è facile intuire che le ragioni umanitarie sventolate da
chi ufficialmente si trova nel paese per assistere, aiutare, sostenere e
rafforzare l’RdC non sempre corrispondono alle motivazioni reali» (J.
Tilouine, Interessi, alleanze e tradimenti al centro dei conflitti
ventennali, Le Monde, trad. it. a cura di Internazionale n.
1398 del 26 febbraio 2021).
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