Paul Klee, Angelus Novus (1920)
Alla fine, il mare
“A Walter Benjamin /
filosofo tedesco / Berlino 1892 Portbou 1940”: così la lapide posta sul muro
del cimitero di Portbou, Catalogna. Un sentiero porta a una piattaforma
affacciata sul mare. La porta asimmetrica di un condotto entra nella terra,
ripidi gradini di ferro conducono a una lastra di cristallo spalancata sul blu.
Questo si presenta il memoriale sulla scogliera, aperto nel 1994 e progettato
dallo scultore Dani Karavan per Benjamin e gli esiliati dal 1933 al 1945.
Benjamin, ebreo e
antifascista, è morto suicida il 26 settembre 1940 mentre cercava di fuggire da
un’Europa su cui si era serrata la tagliola nazista. Diretto a Lisbona per
attraversare l’Atlantico, temeva di essere trattenuto dalla polizia spagnola al
confine con la Francia. Dopo anni a Berlino, Ibiza, Nizza e Parigi aveva
ottenuto un visto per gli Stati Uniti. Prima di partire da Marsiglia aveva
diviso con Arthur Koestler, un certo quantitativo di sostanze, probabilmente
morfina o Eukodal, da usare in caso di necessità. Internato per un breve
periodo in Francia (nel 1938), Benjamin aveva 48 anni, era cardiopatico; inetto
nelle cose pratiche, era un albatro della cultura, costretto in terra in tempi
difficili da abitare.
Quando sceglie di darsi
la fine è sfinito e angosciato, si sente in trappola. Lontano dall’ex moglie
Dora Sophie Kellner e dal figlio Stefan, che vissuti per molto tempo a San
Remo, si salveranno; lontano da Asja Lacis, che anni prima ha scelto la Russia
sovietica. Altri amici e amiche sono in situazioni analoghe, in fuga, in giro,
perduti o destinati a perdersi. Per luiBrecht ha scritto:«Stancare
l’avversario, la tattica che ti piaceva quando sedevi al tavolo degli scacchi,
all’ombra del pero. Il nemico che ti cacciava via dai tuoi libri non si lascia
stancare da gente come noi» (A Walter Benjamin, che si tolse la vita mentre fuggiva davanti a
Hitler).
La scrittura di un vortice
Riscoperte e recepite da
Adorno e al centro di una complessa storia editoriale, le Tesi vengono tradotte in italiano nel 1962
(in Angelus Novus da Renato Solmi) e poi riproposte
nel 1997 (da Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti) in una nuova traduzione e
edizione critica. Hanno la forma di un memoir teoretico
e di sintesi per l’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, trasferito negli
Usa, di fatto una sorta di manifesto del confronto con la storia e con il suo
significato: sono pagine scritte all’ombra del Patto Ribbentrop-Molotov, della
guerra e in condizione di esilio strutturale da uno studioso sedentario che ha
perso tutto e si sente braccato. Il testo condensa anni di lavoro e rifinitura,
è folgorante, oracolare, magnetico, abbacinante nella sua ermetica bellezza;
benché non volesse ancora pubblicarlo, Benjamin, lo considerava preziosissimo e
desiderava che gli sopravvivesse raggiungendo gli amici all’estero.
Sotto la spinta della
condizione di emergenza la tortuosità e l’elusività serendipica dell’autore si
fanno incedere sapienziale ed ellittico, conciso e allusivo, icastico e
profetico. Le note “immagini di pensiero” (Denkbilder) quali l’automa
scacchista e l’angelo della storia connettono la dialettica marxista a una
visione messianica, sotto la costellazione della catastrofe e nel segno del
tempo-rovina. Benjamin si riprende il comunismo, contro e nonostante
l’esperienza sovietica sfigurata dalle purghe staliniane e dall’alleanza
russo-tedesca; inchioda la socialdemocrazia europea alla responsabilità di aver
rinunciato alla giustizia sociale e alla felicità pubblica; smaschera i miti
del progresso, del futuro e della produzione figli della cultura storicistica e
teleologica. Come l’involontario testamento di un condannato a morte le Tesi difendono le ragioni degli oppressi e
le erigono a condizione determinante di un sapere, integralmente e radicalmente
politico, che servirà per porre fine all’infelicità. Sul concetto di storia intona il canto solitario e
solidaristico di un post marxismo critico e umanista, che aggiorna e corregge
l’originario programma illuminista e in cui non esiste felicità individuale
senza quella sociale.
Teologia e materialismo storico
I. «È noto che sarebbe esistito un automa costruito in
modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una
contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con
un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo.
Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare
attraverso da ogni lato. In verità c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro
nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino.
Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere
deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere
senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è
a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere».
La teologia è simboleggiata dal nano, il manichino è
il materialismo storico. L’intreccio tra messianismo e marxismo è il tratto
specifico di Benjamin: definito «teologo della rivoluzione» da Habermas o
«teologo trasferito in campo profano» da Scholem, il suo pensiero appare come
un «marxismo restituito al suo intrinseco significato religioso e profetico,
capace di contrastare la religione cultuale del capitalismo» (Cuozzo). L’idea
di una società senza classi nasce dalla secolarizzazione di un tempo che rinvia
all’ulteriorità; il tempo messianico sorge come la proiezione del bisogno di
giustizia in chiave teologizzata. Mi convince sempre di più la tesi proposta da
Assmann che un dato materiale e sociale si teologizzi e spiritualizzi
nell’antichità per poi secolarizzarsi e mondanizzarsi nella modernità, ma non è
rilevante qui cosa venga prima e cosa dopo. Importa l’aspetto utopico del
marxismo, che delinea un’ideale a cui tendere, nei termini di una mitologia
rivoluzionaria che deve sorreggere l’azione individuale e collettiva. Qualcosa
ancora tutta da fare.
Il rinvio alla redenzione
II. «[…] Nell’idea di felicità risuona ineliminabile
l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato.
Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non
sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima
di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le
donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è
così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono
state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come
ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha
diritto […]».
Redimere il passato
significa che conoscere ciò che è stato è il modo per realizzare, nel futuro,
ciò che allora è andato perduto ed è stato tradito: l’appuntamento segreto tra
le generazioni, sentire le voci del passato che mormorano nelle orecchie
simbolizza uno studio della storia rivolto al presente. Studiare il passato
significa in altri termini riconoscere la «tradizione degli oppressi» – i vinti
della storia, i milioni uomini e donne senza nome e volto macinati dalla storia
– come se fosse la profezia di un possibile futuro diverso, materiali per
l’utopia che si riaccende nel presente e capaci di parlare alle comunità che sono
e che verranno. Benjamin immagina il processo della ricezione come l’incontro
nella memoria, la nostra facoltà mnestica, della comunità dei defunti e dei
viventi. In questa visione dal respiro cosmico, che chiede di redimere
l’infelicità di chi ci ha preceduto, si delinea il bisogno di cambiare il modo
in cui ci relazioniamo al passato.
Un tempo pieno e discontinuo
VI. «Articolare storicamente il passato non significa
conoscerlo “proprio come è stato davvero”. Vuole dire impossessarsi di un
ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico
l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone
imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa
della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno
solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca
bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al
conformismo che è sul punto di soggiogarla. […] Il dono di riattizzare nel passato
la scintilla della speranza è presente solo in quello storico
che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico,
se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere».
Contro l’ottimistico
programma storicista e positivistico, fare storia comporta il bisogno di
rapportarsi a ciò che è stato come quando, si dice, nell’attimo prima di un
incidente tutta le cose importanti della vita importante passano davanti agli
occhi. È la significatività – importanza, rilevanza, salienza – il criterio del
rapporto con la storia: in base ad esso tra la montagna di informazioni e nel
mare delle storie si rende visibile il ricordo di ciò che è vitale, urgente e
attuale. Conoscere il passato permette di capire le onde presente e consente di
non esserne sommersi: lo storico traccia la continuità tra testi, eventi e
processi del passato e il momento della realtà sociale che li riceve: le tracce
di ciò che è stato altrimenti anonime, silenti e inerti, si rendono più
disponibili e fanno sentire chiaramente la loro voce nel tempo della
catastrofe. In esso quando fissiamo un’immagine del passato, in controluce
possiamo vedere il profilo del presente. Quando ci rivolgiamo al passato, lo
abbiamo già scelto perché parla di noi. Tale rapporto vivo con la storia
implica il disancoramento dellla tradizione dal conformismo del monumentalismo
identitario, dell’antiquariato lussuoso e del canone ossequioso. Il racconto
del passato deve poter essere la profezia di un futuro diverso: una stessa
eredità utopica torna ad accendersi ogni volta, nella porosità dei tempi, per
poter trasformare il ricordare in agire collettivo. In altri termini, la
politica.
Spazzolare il pelo lucido della storia
VII. «”Poche persone
s’immagineranno quanto sia stato necessario essere tristi per resuscitare
Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede
con chi poi propriamente si immedesimi lo storiografo dello storicismo. La
risposta non può non essere: con il vincitore. Quelli che di volta in volta
dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre.
L’immedesimazione con i vincitori torna perciò sempre a vantaggio dei
dominatori di turno. […] Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al
corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono
a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato viene trasportato nel corteo
trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale, [il quale] rivela una provenienza
che non [si] può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non
solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza
nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere
insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso
stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato
dall’uno all’altro. Il materialista storico, quindi prende le distanze da esso
nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia
contropelo».
La citazione di
Flaubert, in francese nel testo, connette la tristezza e la melancolia dello
storico alla tradizione degli oppressi, i senzanome dimenticati che
attraversano la storia con i loro corpi di ossa, carne e sangue. Si leggono in
controluce le Domande
di un lettore operaio (1935) di Brecht contro i libri in
cui si trovano solo gli eroi.
«Spazzolare contropelo
il manto troppo lucido della storia» (nella versione francese delle tesi
scritta dall’autore) vuol dire quindi rifiutare la storia degli avvenimenti e
delle classi dominanti fatta per il racconto di sé che ne danno le classi
dominanti; la storia evenemenziale istituzionale, politica e militare come
chiave unica di spiegazione della realtà, come avviene con l’assunzione piena
del pensiero idealistico-storicistico e con la sua ricaduta sulla cultura
europea otto-novecentesca. Si tratta quindi di decostruire il sapere tradizionale
ereditato per comprendere perché e come i “documenti” diventano “monumenti”. La
responsabilità di ricevere il senso riguarda anche la trasmissione del canone,
la capacità di affrontare criticamente l’archivio, la biblioteca e
l’enciclopedia che ne deriva e che si stratifica nei tempi. Contro la nozione
positivistica delle fonti si tratta di farne propria la concezione dinamica,
secondo la quale è lo storico che crea le sue fonti e delimita il campo della
ricerca. Queste infatti non sono oggetti naturali: il lavoro dello storico
trasforma le tracce in fonti selezionandole, interrogandole e traendovi
informazioni. L’avalutatività dello storico è sempre negoziata con il
coinvolgimento del soggetto nella società in cui opera. L’inutilità e
l’impossibilità di mappa in scala 1:1 dell’impero di cui ha scritto Borges si
saldano con l’idea che la storiografia è sempre orientata, il lavoro dello
storico sempre situato, la soggettività è sempre all’opera e
l’auto-riflessività dichiarata un vantaggio. Ogni presente produce un’immagine
del passato non modificando i fatti ma perché ne riorienta il senso in
relazione alla sequenza significante del processo culturale in cui è inserito.
La storia come cumulo di rovine
IX. «C’è un quadro di
Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in
procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi
sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della
storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove
davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede
un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le
scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata
nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa
bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle,
mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi
chiamiamo il progresso, è questa bufera».
In questa immagina di
pensiero l’angelo è un’intelligenza che ha visione d’insieme e coscienza della
catastrofe, a differenza degli umani e dei contemporanei resi ottusi dalla
narrazione del progresso. Per pensatori come Benjamin, Buber e Scholem, la cui
opera è innervata da tratti culturali ebraici, il rivolgersi al passato
coincide con il «cogliere il nesso tra catastrofe e redenzione e dunque
permettere l’individuazione del principio di catastrofe come luogo generativo
di una nuova identità». Dal ricordo dell’oppressione e dell’umiliazione si può
produrre la forza di invertire la dittatura del presente. Katastrophè è «rovesciamento», «rivoluzione»,
«mutamento», «trasformazione». La catastrofe è anche metamorfosi che racchiude
virtualmente delle promessa di un cambiamento che non si può ancora vedere.
Rapportarsi alla storia è «connettere al presente le possibilità interrotte nel
passato e riammetterle come strumenti per un futuro possibile: conoscere la
storia è “impossessarsi del passato”, ovvero saperlo tradurre in atto politico.
In questo senso riscattarlo» (Bidussa).
Il tempo dell’adesso
XIV. «La storia è oggetto di una costruzione il cui
luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso. Così, per Robespierre, l’antica Roma era
un passato carico di adesso, che egli
estraeva a forza dal continuum della
storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa
citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La
moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di
tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in
un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero
della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la
rivoluzione».
XIV. «La consapevolezza
di scardinare il continuum della storia è
propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. La
rivoluzione francese del 1789 introdusse un nuovo calendario. Il giorno
inaugurale di un calendario funge da compendio storico accelerato. E, in fondo,
è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di festa, che sono
giorni della rammemorazione. Dunque i calendari non misurano il tempo come gli
orologi: sono monumenti di coscienza storica di cui in Europa da cento anni
sembra non si diano più le minime tracce. Nella rivoluzione di luglio è
accaduto un episodio in cui questa coscienza si fece ancora valere. Giunta la
sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi,
indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei
campanili […]».
Al fine di realizzate la
comprensione del senso di ciò che è stato il materialismo storico deve assumere
il punto di vista degli oppressi e dei ribelli di ogni tempo, i dimenticati e i
‘dannati della terra’: nell’adesso, momento di
conoscenza e ricezione, passato e presente realizzano un incontro in virtù di
una temporalità disomogenea, priva della irenica linearità processuale e
continua della cronologia; un tempo denso, reso emotivamente carico di tensioni
dalle contraddizioni del presente. Nella filosofia del tempo di Benjamin non
c’è spazio per un tempo percepito come oggettivo e assoluto, da sempre la finzione
ideologica costruita dalle classi dominanti per rafforzare il dominio; si
tratta di far valere una diversa concezione della temporalità disomogenea e
piena, fatta di accelerazioni e periodi densi perché saturi di di futuro. Ci
sono tempi che scorrono in modo diverso, o interrompono processi e introducono
discontinuità. Basti pensare a come vengiono nominati: nella storia d’Europa il
1789, il 1917, il 1936; i venti mesi della Resistenza. Il Sessantotto. Il 1989.
Il 2001. Il 2020? Senza contare i tempi degli altri, le differenti
cronologie e periodizzazioni prodotte da ricezioni differenti che vengono
rimossi e poi riscoperti in base al gioco degli scarti tra culture e
appartenze.
Conta in Benjamin
l’attualità del senso che una comunità alla ricerca della sua emancipazione
attribuisce a un momento storico, la sua capacità di dire qualcosa del presente
saldando in un nodo passato, presente e futuro. L’intenzione di cambiare anche
le prospettive e ibridare i calendari con altre storia e narrazioni nasce da qui,
con l’idea di mettere in discussione il canone pastorale e nazionale che la
storia, in una sua versione ingenua e addomesticata, quella di un montaggio o di «una retorica del tempo esplorato»
tende a diventare (Didi-Hubermann).
La rammemorazione
XVIII B. «È noto che
agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li
istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo
il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli
indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e
vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale
poteva entrare il messia».
La memoria è in fondo
parola vuota che implica una funzione. Il ricordare è sempre un processo
dinamico e ricostruttivo, persino inventivo, che qualcuno compie per qualcosa
pensando a qualcun altro; ed è la categoria di un’ontologia plurale: ad essa
appartiene l’immaginazione storica che porta indietro nel tempo e fa instaurare
un dialogo con i morti. Tutta la cultura storica è una katabasis, un dialogo selettivo con l’umanità che
ci ha preceduto. Il rammemorare (eigendenken in
Benjamin) nel pensiero di Arendt è espresso con andenken e
può essere inteso come unmovimento di pensiero verso l’assente e che implica la
comunità di coloro che sono, che sono stati e che verranno. Senza e contro
la religio mortis della mistica eternizzante
fascista, appare rivolto invece alla “natalità” e all’istituzione del tempo
nuovo che viene. Proprio Arendt aveva definito il suo amico Walter un pescatore di perle: nella rovina del tempo
le cose belle e piene di senso che rimangono riempiono di significato le vite;
sono cristalli di storia capaci di farsi azione, esercizio politico, vita
attiva. Se la storia è un cumulo di rovine, è altrettanto vero che è possibile
e giusto superare il lutto e la melancolia che da questo deriva. Pensare la catastrofe significa anche la cura
del dopo, progettare il cambiamento, porre le condizioni del riscatto dalla
solitudine, dall’anomia e dalla povertà di immaginazione.
Testi di riferimento:
W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, Torino 1962
W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997
(usata per le citazioni).
Per il commento:
H. Arendt, Walter Benjamin, SE, Milano 2004.
J. Assmann, Potere e salvezza. Teologia politica nell’Antico Egitto, in
Israele, in Europa, Einaudi, Torino 2002.
D. Bidussa, Uno sguardo senza nostalgia. Walter Benjamin e il suo angelo,
«il manifesto», Roma, 27 agosto 2003.
G. Didi-Hubermann G., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini,
Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
G. Cuozzo, L’angelo della melancholia. Allegoria e utopia del residuale in
Walter Benjamin, Mimesis, Milano – Udine 2009.
G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico
contemporaneo, La Nuova Italia, Milano 2001.
J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia
Einaudi, vol. 5, Einaudi, 1977.
F. Jesi, Il testo come versione interlineare del commento, in E.
Rutigliano e G. Schiavoni (a cura di), Caleidoscopio benjaminiano,Istituto
Italiano di Studi Germanici, 1987.
G. Schiavoni, Walter Benjamin, il figlio della felicità, Mimesis,
Mimesis, Milano – Udine 2016.
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