Quello che accadde a Genova, in occasione del G8 del 2001, presenta delle analogie non tanto con un’azione repressiva, sia pur tremenda, ma piuttosto con la guerra. Infatti, il “volume di fuoco”, i rastrellamenti, le torture sembrano collocarsi più sul terreno della guerra che su quello di un intervento d’ordine pubblico, sia pure assai feroce.
E ciò si è accompagnato con la sospensione di ogni garanzia costituzionale
(anche per medici, avvocati, parlamentari, giornalisti e così via). Era
una delle facce del nuovo ordine mondiale: la cultura e le pratiche della
sicurezza a ogni costo e della tolleranza zero arrivano in Europa
principalmente dagli Stati Uniti: non per caso lo scenario di Genova presenta
delle analogie con i metodi usati per sedare le sommosse nei ghetti.
A tal punto che nel 2017, l’allora capo della Polizia, Franco
Gabrielli, avrebbe definito quei giorni come «una catastrofe» e rispetto
ai fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto avrebbe ammesso che lì «ci fu
tortura».
Quanto al centro-sinistra, con la barbarie repressiva di Genova istituì un
rapporto ben più di continuità che di pur blanda rottura.
Eredità del centro-sinistra era l’autonomizzazione dell’arma dei
carabinieri, realizzata nel 1999 per volere di Diliberto, Ministro della
Giustizia. Alludo alla creazione dei Gom (Gruppo operativo mobile): un corpo
speciale, che si era già distinto sul campo per ferocia nelle carceri di Opera
e di Sassari, e i cui metodi saranno messi in atto nel modo più feroce
possibile nella caserma di Bolzaneto. Come dimostra il caso atroce del carcere
di Santa Maria Capua Vetere, tutt’oggi perdura la più feroce militarizzazione
della società e in particolare degli apparati repressivi.
È la stessa cultura che ha prodotto l’ossessione della sicurezza. In
realtà, il progetto della gestione del G8 e la divisione in zone furono
creazioni del centrosinistra: Napoli fu un primo esperimento di durissima
repressione contro il movimento “No Global”.
In tutto ciò i DS svolsero un ruolo nefasto poiché consegnarono il
movimento nelle mani delle forze repressive. Con le astensioni incrociate essi,
i DS, dissero implicitamente alle forze dell’ordine: “Dei manifestanti, fatene
ciò che volete”. E lo stesso dissero non partecipando al corteo del 21 luglio,
dopo la morte di Carlo Giuliani.
Tutto ciò non toglie che il centro-sinistra fosse, naturalmente,
attraversato da qualche smagliatura e contraddizione.
È indubbio che una parte della leadership del movimento “No
Global” abbia compiuto qualche errore politico: come la leggerezza di non
considerare a sufficienza che la fase era cambiata, il non cogliere e
interpretare a sufficienza il segnale rappresentato da Goteborg: la città
svedese in cui, il 15 giugno 2001, in occasione del vertice del Consiglio dei
Ministri europeo, la polizia sparò ripetutamente ad altezza d’uomo (e di
donna).
Quanto a Genova, a mio modesto avviso la giornata del 20 (cui decisi
di non partecipare) fu probabilmente un errore: in quelle condizioni, non era
pensabile di poter tenere la piazza, dispersi come eravamo in una pluralità di
luoghi e cortei.
Non fu l’unico errore. La pratica del “mettiamo in gioco i nostri corpi”
sembrava essere ancora tributaria di una cultura della forza, che oggi, dopo
Genova, appare ben più che ingenua rispetto alla forza messa in campo
dall’avversario; al pari della feticizzazione dell’obiettivo di espugnare la
zona rossa, per usare ancora una metafora di tipo guerresco.
Fino a prima di Genova l’idea della messa in scena di scudi e bardature
(una stilizzazione e sublimazione della violenza) potevano forse risultare
efficaci; oggi non più, dopo quel massacro e l’omicidio di Carlo Giuliani
rischierebbero di apparire donchisciottesche.
L’obiettivo del governo era allora quello di spingere il movimento sul
terreno della militarizzazione del conflitto. All’opposto, la base del
movimento, quella costituita da giovani e giovanissimi/e, era tendenzialmente
pacifista. Una parte delle sue componenti non di primo pelo era, invece,
attratta da miti guerreschi e dall’idea che il conflitto si identifichi sempre
e principalmente con lo scontro.
Genova – scrivevo già vent’anni fa – avrebbe dovuto indurci ad aprire un
dibattito serrato e profondo sui metodi: non l’alternativa violenza/non
violenza, ma la salvaguardia-incolumità delle persone in carne e ossa che vi
partecipavano. Occorreva e occorre ancora, inoltre, un grande sforzo creativo
per elaborare simboli in cui tutte le componenti del movimento possano
tendenzialmente riconoscersi. Così come resterebbe necessario, infine, tornare
a disseminare il movimento nel sociale, darsi obiettivi concreti, istituire
saldature con le nuove lotte operaie, rinsaldare e allargare legami con
avvocati, giornalisti, medici democratici…
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