In migliaia a urlare contro una scelta scellerata, ufficializzata tre mesi or sono, ma per la quale le donne turche, kurde e d’altre minoranze presenti nel Paese non vogliono smettere di lottare. Il ritiro dalla ‘Convenzione di Istanbul’, attuato con decreto presidenziale, ha compiuto una retromarcia su un trattato che l’allora premier Erdoğan aveva promosso nel 2011 assieme a quarantacinque rappresentanti di altrettante nazioni. Era stato un passo importante di denuncia e contromisure da opporre alla violenza di genere. Presente ovunque, ma che in Turchia continua a crescere, facendo registrare nel 2020 trecento femminicidi e 171 casi di morti sospette di donne. Eppure la manovra politica del presidente - che al proprio conservatorismo somma quello degli alleati nazionalisti, sempre più indispensabili alla tenuta del sistema varato con la rinnovata Costituzione del 2017 che ne ha aumentato un personalissimo potere - può diventare un boomerang. Si registra una crescente adesione ai gruppi denominati “Fermeremo i femminicidi” animati da femministe, attiviste d’opposizione, cui aderiscono giovani e donne rimaste finora lontane dalle manifestazioni di piazza, anche per il livello di repressione cui sono sottoposte. Era accaduto ai primi raduni e sit-in, dopo la decisione del 20 marzo scorso, quando agenti in divisa e in borghese avevano trascinato via ragazze, malmenandole e arrestandole. Proprio com’era accaduto agli universitari bogazici, mobilitatisi nei mesi invernali contro l’insediamento d’un rettore non eletto bensì cooptato dal partito di maggioranza (Akp) e collocato a dirigere il prestigioso ateneo sul Bosforo.
Si mira a cancellare un decennio d’impegno che ha catalogato come bieca
violenza sulle donne la sequela d’uccisioni, che gli stessi media tendevano a
presentare come morti generiche, quasi fossero accidentali anche se si riusciva
facilmente a risalire all’assassino: marito, fidanzato, amante, amico,
conoscente o sconosciuto che fosse. Una campagna intensissima per sensibilizzare
fasce della popolazione, compreso il genere maschile, perché quest’innaturale
violenza potesse essere bloccata, perché non venisse più giustificata secondo
schemi patriarcali e machisti, difesa da alibi per comportamenti e costumi
fuori dalla civiltà e dal tempo. Ma i comportamenti criminali di quei maschi
assassini possono ritrovare conforto in un quadro legislativo e giuridico che
ritorna lasso e di cui la retromarcia sul Trattato di Istanbul è un palese
esempio. La linea governativa, ampiamente ripresa dai media locali, sottolinea
come i gruppi antiviolenza orientano le proprie posizioni su una
“normalizzazione dell’omosessualità” totalmente incompatibile coi valori della
famiglia e della tradizione. Un orientamento che accomuna il conservatorismo
d’ogni sponda e confessione, visto che simili tendenze sono espresse in Italia
da Salvini e Meloni, che si dichiarano cattolici come il premier ungherese
Orbán. E da Putin nell’ortodossa Russia. Da parte sua Erdoğan, ovviamente
sintonizzato con la tradizione della società e della fede islamica, ha
ricordato l’impegno statale a difesa del ruolo della donna oltre la Convenzione
un tempo sottoscritta. Ma proclami e comizi nulla possono davanti ai fatti. In
questi anni seppure in Turchia gli assassini di genere siano proseguiti e
aumentati, il Trattato costituiva un baluardo al quale potersi appellare. Ora
non più. Le donne l’hanno gridato per l’ennesima volta sulla sponda asiatica
del Bosforo, agitando cartelli con l’immagine delle sorelle private della vita.
Molte di quelle storie risultano drammatiche e al tempo stesso simili, i loro
aguzzini sono uomini frequentati nella travagliata esistenza
quotidiana.
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