Svelata
la grande truffa su Cuba - Alberto Capece
Quasi niente ormai nel mondo occidentale è spontaneo, non è dunque
innescato da un potere ormai privo di un volto definito e che agisce
sottopelle, a tradimento come una sorta di despota nascosto. Anche la vicenda
di Cuba comincia a mostrare i fili dei burattinai che hanno approfittato del
covid e del durissimo colpo che la info pandemia ha inferto all’economia di
Cuba, ampiamente basata sul turismo, per tentare di sovvertire le cose e
lasciare mano libera alle grinfie delle multinazionali. Ma un analista It
spagnolo, Julián Macías Tovar ha meticolosamente ricercato e mappato tutti fili
della rete per arrivare alla “geografia” delle proteste e le sue scoperte
lasciano davvero senza fiato. Nei giorni precedenti le proteste dell’11 luglio
l’hashtag #SOSCuba ha iniziato a circolare in Florida. La campagna SOS
Cuba era già stata lanciata il 15 giugno a New York, con l’obiettivo di
influenzare il voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite contro il
blocco statunitense contro Cuba. Senza successo. 184 paesi hanno condannato il blocco, che strangola Cuba da
oltre 6 decenni. Solo Israele e gli Stati Uniti hanno votato contro.
Però le condizioni del tutto particolari in cui si trova l’isola ha
autorizzato a non cessare lo sforzo per portare le cose a un punto di rottura
Il 5 luglio , la piattaforma multimediale SOS Cuba con sede in Florida ha
lanciato una tempesta di twitter per l’intervento umanitario a Cuba. Ciò è
accaduto sotto la guida di Agustín Antonelli un argentino
membro della fondazione di destra Fundación Libertad. Questa non era la sua
prima campagna: in precedenza aveva lanciato operazioni sui social media contro Evo
Morales in Bolivia e Andrés Manuel López Obrador in
Messico. Il primo account che ha utilizzato #SOSCuba in relazione alla presunta
situazione Covid a Cuba aveva sede in Spagna. Sia il 10 che l’11 luglio ha
inviato più di mille tweet, con una frequenza automatica di 5 retweet al
secondo. Questo viene fatto comunemente da programmi chiamati bot, ma
quelli utilizzati in questa campagna sono all’avanguardia, costosi e molto
difficili da rilevare inequivocabilmente prodotti dal soffocante vicino che di
recente inaugurato uno speciale comando per la guerra nel cyberspazio.
Nella sua ricerca Tovar sottolinea che sono stati inviati tweet ad artisti
a Cuba e a Miami per partecipare con #SOSCuba: protesta per le presunte morti
da Covid e l’altrettanto presunta mancanza di risorse mediche. A questi tweet
sono pervenute più di 1100 risposte e quasi tutte provenivano da account
creati di recente o non più di un anno fa, ma in massima parte creati tra
il 10 e l’11 luglio. L’operazione ha fatto un uso intensivo di robot, algoritmi
e account creati per l’occasione. Con centinaia di migliaia di tweet e la partecipazione
di molti account di artisti che come abbiamo imparato dipendono totalmente dal
potere per la loro immagine, domenica 11 luglio l’hashtag è diventato di
tendenza in diversi paesi. A questo punto tutto ciò che serviva erano poche
centinaia di cubani da far scendere in piazza e la prima manifestazione nella
cittadina di San Antonio de Los Baños, a 26 km dall’Avana, è stata subito
pubblicizzata negli Usa dal racconto di Yusnaby con migliaia di
retweet. Yusnaby (US Navy) è un tipico esempio di account falso
automatizzato. E dietro queste trame si affollano e si addensano le bugie del
sistema:
Un post, ritwittato centinaia di volte, mostra una folla di diecimila persone che presumibilmente marciano lungo il Malecón, il grande viale sul mare dell’Avana. I fotoreporter di Reuters hanno scoperto che si tratta in realtà di una foto – con una risoluzione debole – di una manifestazione di massa ad Alessandria d’Egitto, febbraio 2011. I frammenti ingranditi mostrano le bandiere egiziane. Un’altra falsa informazione è la foto dei manifestanti presso la statua di Máximo Gómez all’Avana. Questi non erano contro-manifestanti ma sostenitori della rivoluzione cubana. Decine di media e importanti giornali come New York Times e The Guardian hanno diffuso questa notizia falsa. Un’altra invenzione era che Raúl Castro fosse fuggito in Venezuela su un aereo privato segreto. Questo falso messaggio è stato ritwittato quasi duemila volte. La foto che dovrebbe dimostrare la fuga di Raúl Castro ha quattro anni, precisamente quando è andato a un vertice all’estero.
Un giornalista peruviano di Prensa Alternativa – El Jota ha
studiato a fondo le immagini delle manifestazioni che si sono svolte in dodici
città con una partecipazione che va dalle 100 alle 500 persone e ha trovato che
ovunque gli slogan erano assolutamente identici e privi di qualsiasi lamentela
rispetto a ciò che avrebbe dovuto innescare la protesta come ad esempio carenza
di medicinali o di generi alimentari. Inoltre il più gettonato di tali slogan –
“Cuba Decide” appartiene a una campagna della Fundación para la Democracia
Panamericana , una ONG ricca di risorse con sede a Miami che
mira al cambio di regime a Cuba in alleanza col famigerato National Endowment
for Democracy . Ora non c’è dubbio che alcuni, abbiano partecipato
spontaneamente alle manifestazioni, – si tratta però di 5000 persone in tutta
l’isola, ma i fatti di cui sopra indicano che le manifestazioni stesse
erano pianificate, organizzate e preparate. Ora è mai possibile che qualche
migliaio di dimostranti a Cuba diventi una notizia planetaria, mentre rimangano
notizie assolutamente marginali i disordini degli ultimi giorni in Sudafrica
che hanno provocato la morte di oltre 70 persone o le centinaia di milioni di
contadini che hanno protestato in India per mesi o l 44 morti e i 500
scomparsi in Colombia vittime degli squadroni della morte (fondati a suo tempo
da Biden).
Inoltre mentre poche migliaia di persone comparse per qualche ora un giorno
di luglio e poi scomparse fanno notizia non viene nemmeno detto che Cuba è
l’unico piccolo paese al mondo che ha sviluppato i propri vaccini contro il
COVID-19. E che sarebbe interessante sapere un’altra cosa che non viene detta,
ossia come mai l’isola ha 12 volte meno morti per Covid rispetto agli
Stati Uniti, nonostante la sua terribile situazione economica e la mancanza di
medicinali. Ecco un vera e clamorosa notizia per un’informazione non venduta. E infatti
non compare da nessuna parte, mentre i soliti gusanos alla Gramellini recitano
le loro bugiardi litanie a comando.
Il problema di Cuba sono gli Stati uniti - Branko Marcetic
L'economia cubana è certamente afflitta
da questioni indipendenti dalla politica statunitense, ma i mali più acuti sono
l'effetto schiacciante del blocco che la assilla da sessant'anni e della
strategia di «massima pressione» condotta da Trump
«Danno sempre la colpa agli Stati uniti», ha detto questa settimana il senatore repubblicano della
Florida Marco Rubio al senato. «L’embargo, la prima cosa che incolpano, è l’embargo.
‘L’embargo sta causando tutto questo’».
Non è passato molto tempo da quando l’Assemblea generale delle Nazioni
unite ha votato per il ventinovesimo anno consecutivo la condanna al
sessantennale embargo degli Stati uniti contro Cuba – un voto 184 a 2 che ha
visto i governi degli Stati uniti e di Israele opporsi al resto del mondo – e
nel paese sono scoppiate massicce proteste causate dalla carenza di cibo e
medicine. Un coro di voci, che va da Bernie Sanders ad altri progressisti del Congresso fino all’ex presidente
brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, ha puntato il
dito contro gli effetti della politica statunitense di lunga data e chiesto che
finalmente si faccia un passo indietro.
I sostenitori del cambio di regime come Rubio si sono contrariati. Per loro,
l’embargo è irrilevante rispetto a ciò che sta accadendo ora nel paese, che
sarebbe invece l’esito di «sei decenni di sofferenza sotto il
socialismo e il comunismo totalitari». Com’era prevedibile, la loro risposta
preferita alle attuali proteste non comporta la fine dell’embargo. Ma la realtà
è che l’«embargo» degli Stati uniti – o il blocco, più precisamente
– è stato progettato per intensificare la povertà e incoraggiare i disordini
sociali a Cuba. Per decenni, il blocco ha soffocato l’economia del paese e
privato i cubani dell’accesso a beni di prima necessità come le forniture
mediche, il suo successo nel creare miseria si è intensificato con la caduta
dell’Unione Sovietica, la pandemia di Coronavirus e quattro anni di «massima
pressione» sotto la presidenza Trump.
Ottanta democratici della Camera all’inizio di quest’anno hanno detto a Joe Biden che basterebbe «un tratto di penna», per
cancellare le azioni di Trump, «assistere le famiglie cubane in difficoltà e
promuovere un approccio più costruttivo tornando prontamente alla politica
dell’amministrazione Obama-Biden di coinvolgimento e normalizzazione delle
relazioni». Questa ovvia linea d’azione è solo il minimo che Washington
dovrebbe fare. Il blocco degli Stati uniti è una guerra economica non
dichiarata contro Cuba che prosegue da generazioni, una guerra che è
costantemente fallita anche alle sue condizioni, infliggendo un enorme dolore
ai cubani.
La guerra non dichiarata
Il blocco degli Stati uniti contro Cuba è stato una parte fondamentale
della lunga guerra di Washington contro quel paese, lanciata poco dopo che, nel
1959, Fidel Castro guidò la rivoluzione che rovesciò la dittatura militare
sostenuta dagli Stati uniti. All’inizio non c’era tutta questa ostilità. L’amministrazione
Eisenhower aveva adottato pubblicamente un atteggiamento prudente nei confronti
del nuovo governo. Incontratosi con Castro per tre ore e mezza, l’allora
vicepresidente Richard Nixon gli disse, come recitava il comunicato
post-riunione, «che era responsabilità di un leader non seguire sempre
l’opinione pubblica, ma aiutarla a dirigerla in modo appropriato, non per dare
alle persone ciò che pensano di volere in un momento di stress emotivo, ma per
farle desiderare ciò che dovrebbero avere». Con una sfumatura di rammarico,
Nixon raccontava che «la preoccupazione principale di Castro era lo sviluppo di
programmi per il progresso economico».
Nel settembre di quell’anno, mentre Castro ridimensionò la proprietà
privata dei terreni agricoli e si preparò a nazionalizzare l’industria di
proprietà straniera, l’ambasciatore statunitense nel paese espresse «seria
preoccupazione per il trattamento riservato agli interessi privati statunitensi
a Cuba». Il mese successivo, il presidente Dwight Eisenhower approvò un
programma a sostegno di elementi anticastristi, inclusi esuli cubani che
organizzarono incursioni nel paese e, in seguito, campagne di sabotaggio e
bombardamento foraggiate dagli Stati uniti, nella speranza che avrebbero
rovesciato Castro facendolo apparire come la causa della sua stessa rovina. A
dicembre, un capo divisione della Cia suggerì di «prendere in attenta considerazione
l’eliminazione di Fidel Castro».
La Guerra fredda conferì a questa missione statunitense un’urgenza in più.
Eisenhower avvertì i sovietici nel
1960 che il suo governo non avrebbe tollerato «l’instaurazione di un regime
dominato dal comunismo internazionale nell’emisfero occidentale», in linea
con la dottrina di lunga data di Washington secondo cui il governo
degli Stati uniti sarebbe intervenuto nei paesi dell’emisfero se avessero
contrastato gli interessi statunitensi. Sperando di fermare la diffusione del
«castrismo» e per farla finita con Cuba, Washington fece pressioni su altri
paesi dell’America Latina per interrompere i rapporti diplomatici, i viaggi e
le spedizioni di armi nel paese, minacciando di sospendere gli aiuti militari e
di comminare altre sanzioni a coloro che non lo avessero fatto, arrivando al
punto di espellere Cuba dall’Organizzazione degli Stati americani. Dopo aver
fatto pressioni con successo sulle banche europee e canadesi per annullare e
rifiutare i prestiti al governo cubano, nell’ottobre 1960 iniziò quella che fu
definita la «quarantena» statunitense sul paese, che vietava tutte le
esportazioni a Cuba, a parte cibo e forniture mediche, e nel giro pochi anni
riguardò tutto il commercio, le importazioni e persino le merci da paesi terzi
contenenti prodotti cubani. Nel 1963, sotto John F. Kennedy, il blocco per come
lo conosciamo oggi era pienamente in vigore.
Non fu cosa da poco. Un blocco – diverso da un embargo, visto che includeva le
importazioni e cercando di costringere paesi terzi – è una forma di guerra che, secondo il diritto internazionale,
dovrebbe avvenire solo durante il conflitto armato. Non a caso i giuristi hanno sostenuto che il blocco di Cuba è una grave violazione del diritto internazionale, non
ultimo per il fatto che mira esplicitamente a forzare un cambio di governo.
Persino i consulenti legali del governo degli Stati uniti stabilirono nel 1962 che
«poteva essere considerato da Cuba e da altre nazioni del blocco sovietico come
un atto di guerra».
Allo stesso modo in cui Nixon avrebbe reagito nel 1973 di fronte
all’elezione di un governo socialista in Cile ordinando alla Cia «Fate urlare l’economia», i politici
statunitensi speravano apertamente che impoverire e affamare il popolo cubano
li avrebbe portati a rovesciare Castro. «Bisognerebbe utilizzare ogni strumento
per indebolire la vita economica di Cuba», scrisse un funzionario del Dipartimento di Stato nel
1960, al fine di «provocare la fame, la disperazione e il rovesciamento del
governo». Eisenhower affermò più chiaramente: «Se (il popolo cubano) ha fame, caccerà
Castro».
Il giro di vite
Essendo il partner commerciale più grande e più vicino di Cuba,
l’economia risentì immediatamente della fine ai
traffici con gli Stati uniti. La quota delle esportazioni cubane verso gli Usa
crollò da oltre il 60% negli anni Cinquanta a meno del 5% nel 1961, mentre da
circa il 70% delle importazioni nel paese dagli Stati uniti registrati fino
alla fine degli anni Cinquanta si arrivò a meno del 4%. Nel 2018, un’agenzia
delle Nazioni unite calcolò che l’embargo era costato a Cuba più di 130
miliardi di dollari in sei decenni, un dato significativo per un paese il cui
Pil medio annuo è solo una frazione di quella somma.
È stato il blocco sovietico a mantenere a galla l’economia cubana per decenni,
sia attraverso miliardi di sussidi annuali sia riempiendo il vuoto commerciale
lasciato dagli Stati uniti, diventando responsabile del 79-90% del commercio
estero. Dal carburante, ai macchinari e ai componenti, ai fertilizzanti, ai
pesticidi e persino ai grassi usati per fare il sapone, le risorse che hanno
permesso alla vita e all’economia di Cuba di funzionare normalmente avvenivano
per l’integrazione di Cuba in un campo comunista più ampio. La dissoluzione
dell’Unione Sovietica nel 1991 è stato il più grande dei numerosi shock che
hanno colpito l’economia cubana in quel decennio, rendendola più vulnerabile
che mai al blocco degli Stati uniti. Il Pil è crollato del 35%, mentre la
produzione agricola e la capacità manifatturiera sono crollate rispettivamente
del 47 e del 90%. L’edilizia e il trasporto passeggeri sono crollati di oltre
il 70% ciascuno, mentre le code per il cibo, le ore senza acqua corrente e i
blackout sono parte della vita quotidiana. Il sapone improvvisamente doveva
essere razionato, i cubani hanno dovuto accontentarsi di quattro miseri pezzi
all’anno.
Annusato l’odore del sangue, i legislatori statunitensi si sono mossi per
uccidere. Non appena il commercio cubano con le società controllate
statunitensi aumentò bruscamente sulla scia del crollo sovietico, il Congresso
degli Stati uniti ha approvato l’anno successivo il Cuban democracy act per
mettere al bando la prassi, nonostante la posizione contraria della Comunità
Europea e di altri alleati, e portando alla cancellazione di decine di accordi
commerciali con il paese. Inoltre, la legge ha vietato per la prima volta la
vendita di cibo (poi abrogata, in qualche modo) e creato un regime di licenza per
medicinali e attrezzature mediche così oneroso da porre di fatto fine al
commercio medico con il paese. I legislatori statunitensi, a quanto pare, non
hanno avuto problemi con la pesante ingerenza del governo nel settore privato,
purché fosse al servizio del rovesciamento di un governo che non gradivano.
Allo stesso modo, l’Unione europea si è opposta alla legge Helms-Burton del
1996, che ha tolto l’autorità per il blocco al presidente e l’ha data al
Congresso, praticamente blindandola. Oltre a fare della rivoluzione una
condizione di incompatibilità, ha ulteriormente scoraggiato gli investimenti
stranieri a Cuba, ad esempio negando i visti statunitensi ai rappresentanti di
aziende che fanno affari con proprietà statunitensi confiscate. Ciò accadeva
nonostante solo un anno più tardi le agenzie militari e di intelligence
statunitensi avessero certificato che «Cuba non
rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza degli Stati uniti o di
altri paesi della regione» e il Pentagono fosse arrivato alle conclusioni
l’anno successivo.
Gli effetti di tutto ciò, come si può immaginare, sono stati brutali. Dopo
un’indagine durata un anno, l’Associazione americana per la sanità
mondiale ha concluso nel 1997 che il blocco aveva «minato
drammaticamente la salute e la nutrizione di un gran numero di comuni cittadini
cubani» e «causato l’aumento significativo della sofferenza – e persino dei
decessi – a Cuba» attraverso «carenze critiche anche delle medicine più
basilari e dell’hardware medico».
Il rapporto forniva un quadro caotico: aumento delle malattie a causa di
più acqua non trattata e meno sapone; ambulanze, altri servizi di emergenza e
strutture sanitarie incapaci di funzionare correttamente a causa di
interruzioni di corrente e mancanza di risorse come il carburante; alti tassi
di anemia, carenza di ferro e denutrizione, l’ultima delle quali ha colpito il
22% della popolazione; e centinaia di farmaci fuori portata o solo a volte disponibili,
aggravati dalle megafusioni farmaceutiche. Non sorprende che nel 1994 a Cuba ci
siano stati disordini simili a quelli che stiamo vedendo ora.
La situazione di quell’anno fu accolta con soddisfazione dalla destra della Fondazione
Heritage. Descrivendo con soddisfazione i racconti sulle madri che si dedicano
al lavoro sessuale, le famiglie che sopravvivono con un pasto al giorno e il
ritorno di malattie come la malaria, esortarono il governo degli Stati uniti a
mantenere il blocco fino al crollo del governo di Castro e negare una
«provvidenziale valvola di sicurezza«» respingendo i rifugiati cubani.
Segnalavano che questa condotta politica avrebbe probabilmente condotto a una
maggiore repressione per il popolo cubano e forse si sarebbe conclusa con
«sangue, conflitti armati e caos», prima di concludere, senza traccia di
ironia, che «gli Stati uniti non devono abbandonare il popolo cubano e
rilassare o revocare l’embargo commerciale».
Quindi, quando Marco Rubio dice oggi che «la carenza di cibo, medicine e
gas non è purtroppo una novità a Cuba», ha ragione: il blocco più lungo della
storia moderna ha assicurato che questi problemi persistevano da molto tempo.
Che Cuba abbia resistito a tutto questo è una testimonianza di ciò che è
possibile ottenere con un governo che assume un ruolo attivo durante le crisi e
cerca di garantire la sicurezza economica. Con l’inevitabile restringimento
della cintura, il governo ha lanciato un programma di «austerità umanitaria», con importanti tagli al settore statale
ma aumento della spesa sanitaria e sociale, e cibo, vestiti e altri beni
razionati per dare priorità ai gruppi vulnerabili come le donne incinte e gli
anziani.
Sabotaggio economico
Eppure queste misure temporanee hanno i loro limiti, come stiamo vedendo.
L’economia di Cuba è certamente afflitta da gravi questioni separate dalla
politica statunitense, ma i mali più acuti sono guidati in modo schiacciante da
due fattori: la strategia di «massima pressione» dell’amministrazione Trump e
la pandemia.
Durante i suoi quattro anni alla Casa bianca, Trump ha firmato più di duecento
direttive volte a danneggiare l’economia cubana. Ha fortemente limitato le
rimesse (per ogni membro della famiglia a un massimo di 1.000 dollari a
trimestre) prima di vietarle definitivamente. Ha inoltre vietato ai viaggiatori statunitensi di effettuare
qualsiasi transazione con entità legate ai servizi militari e di intelligence e
di sicurezza, in pratica un attacco sia alla capacità di Cuba di attirare
investimenti stranieri che alla sua cruciale industria turistica, dato il pesante coinvolgimento del conglomerato di affari dei
militari in quello che, secondo una stima, interessa il 60% dell’economia. E ha imposto sanzioni alle compagnie di
navigazione e alle navi che trasportano petrolio a Cuba dal Venezuela, oltre a
un embargo già esistente sul paese che ha sovvenzionato e fornito
un terzo del consumo di petrolio di Cuba nel 2019.
L’impatto è stato rapido e netto. L’obiettivo delle esportazioni di petrolio
del Venezuela ha portato a un maggiore razionamento dell’energia, alla carenza
di prodotti per l’igiene personale che il governo non può permettersi dal
momento che acquista carburante sul mercato e sostituiscono i trattori con i
buoi nelle fattorie. Gli attacchi di Trump alle rimesse hanno portato
all’eventuale chiusura della Western Union sull’isola, mettendo in
pericolo centinaia di migliaia di famiglie cubane. Dopo l’incremento del turismo dell’era Obama, le varie restrizioni ai viaggi di Trump, incluso il divieto alle crociere nel
2019, hanno portato il calo del numero di turisti per la prima volta in un
decennio, del 9,3% nel periodo 2018-2019 e quasi del 20% nell’anno successivo. Con il calo
dei visitatori statunitensi del 70%. Inoltre, la diminuzione delle rimesse e
del turismo ha privato il paese delle principali fonti di valuta pregiata. Ciò ha causato l’ulteriore lotta del governo nel pagare i creditori esteri, ha ostacolato la sua capacità di importare dal 60 al 70% delle scorte di cibo che riceve
dall’estero e ha motivato l’apertura di costosi negozi in dollari che
sono stati uno dei motivi della rabbia che guida le proteste in corso.
Anche se può essere vero che il blocco degli Stati uniti tecnicamente
non si applica più al cibo né impedisce il commercio con altri paesi, la rete di sanzioni
sovrapposte di Washington ha di fatto impedito entrambi facendo di tutto, dal privare Cuba
del petrolio e della valuta estera, al paralizzare la sua economia più in
generale e costringere al duro mercato estero degli acquisti.
Tutto questo sarebbe stato abbastanza difficile da affrontare nel migliore
dei casi. Ma nel 2020, Cuba, come il resto del mondo, ha visto la sua economia
ulteriormente devastata dalla pandemia di Coronavirus che ha esacerbato tutti
questi problemi: ha bloccato il turismo, ha soffocato ulteriormente l’ingresso di
valuta forte, ha aggravato la penuria di cibo e causato perdite di posti di lavoro
che hanno reso i cubani sempre più dipendenti dalle rimesse estere che
Washington è determinata a soffocare. Nel corso dell’anno, il paese ha visto la
sua economia decrescere dell’11%.
Poiché la pandemia amplifica la devastazione del blocco statunitense, il
blocco ha a sua volta reso più difficile per Cuba gestire la pandemia. Nel
luglio 2020, un relatore speciale delle Nazioni unite ha sancito che il blocco stava «ostacolando le risposte
umanitarie per aiutare il sistema sanitario del paese a combattere la pandemia
di Covid-19». Tra le altre cose, il blocco ha fermato gli aiuti medici e i
trasferimenti di denaro da società e organizzazioni umanitarie estere, ha
negato ai cubani la possibilità di utilizzare Zoom, ha precluso l’acquisto di
macchine per la ventilazione e causato una carenza di questi e dei dispositivi
di protezione individuale (Dpi), mentre ha impedito una donazione per affrontare la
pandemia da parte dell’uomo più ricco della Cina.
Oxfam riferisce che il blocco ha avuto un «effetto drastico
sull’industria dei vaccini di Cuba», rendendo difficile ottenere le materie
prime necessarie. Anche così, l’investimento generoso e a lungo termine dello
stato nell’assistenza sanitaria e nell’istruzione ha permesso di sviluppare il
proprio vaccino anti-Covid, per poi dover affrontare una carenza di siringhe, visto che il blocco ne rende difficile
l’acquisto dai produttori.
È sempre il blocco che ha guidato la rinascita della pandemia sull’isola,
grande motore delle attuali proteste. La stretta economica ha spinto una Cuba
disperata a riaprire il paese al turismo a novembre, il che, combinato con la carenza di mascherine e di 20 milioni di siringhe, ha
portato a un aumento delle infezioni. Tuttavia, è facile per i Rubio del mondo
sostenere che «la disastrosa risposta al Covid del regime è il prevedibile
risultato di un governo corrotto» mentre suonano i tamburi del cambio di regime, quando, anche con lo
sforzo determinato di Washington per sabotare la ripresa dalla pandemia di Cuba,
la sua risposta – con 1.608 morti al 12 luglio – non si avvicina nemmeno alla morte di massa di cittadini
statunitensi progettata da Rubio e da quelli come lui durante la
pandemia.
Naturalmente, niente di tutto questo è importante per i politici di Washington
che non ci pensano due volte a far morire di fame e uccidere casualmente
persone straniere, sia con bombe che con sanzioni economiche. Ma l’ironia è che
il blocco ha avuto un effetto devastante sul settore privato di Cuba, che
dipende fortemente dal turismo e dai viaggi negli Stati uniti per acquistare
materiali. Ciò non è particolarmente positivo nemmeno per l’industria
statunitense, visto che il blocco si stima costi alle imprese e agli agricoltori
statunitensi quasi 6 miliardi di dollari l’anno in entrate dalle esportazioni.
Né è popolare. Per anni, i sondaggi hanno mostrato che la maggioranza degli statunitensi, persino
una maggioranza oscillante di cubani statunitensi nel sud della
Florida, chiede la fine del blocco, probabilmente rendendosi conto che è sia
disumano sia, dopo quasi sessant’anni, inefficace.
Sfortunatamente, fedele all’approccio alla politica estera di Trump, Biden ha tradito le promesse elettorali e sta continuando con fermezza la
politica di Trump, allontanandosi dall’approccio di successo
dell’amministrazione democratica di cui è stato parte. Nonostante si appelli
«al regime cubano per ascoltare la loro gente e soddisfare i loro bisogni»,
Biden si rifiuta di revocare le restrizioni di Trump sulle
rimesse da cui dipendono più che mai quei cubani.
Opera di Washington
I disordini della scorsa settimana a Cuba non possono essere compresi
appieno al di fuori del contesto del blocco. Niente di tutto ciò assolve il
governo cubano per la sua repressione dei dissidenti, o per gli errori commessi
nel corso della gestione economica del paese. Ma mettere l’accento sulla sua
«economia pianificata in stile sovietico e centralizzata» e sull’insufficiente
zelo nelle riforme del mercato come causa dei mali del paese, e non sul più di
mezzo secolo di guerra condotta dalla più grande potenza mondiale, è quantomeno
fuorviante.
A parte il sadismo e l’arroganza imperiale, non c’è una buona ragione per continuare
il blocco contro un paese che non rappresenta una minaccia per gli Stati uniti e che crea una miseria
schiacciante per la gente comune che figure come Donald Trump e Joe Biden dicono di difendere. Anche
se rimuoverlo completamente sarà un compito difficile, che richiede il voto del
Congresso, il presidente da solo potrebbe almeno annullare le politiche di
Trump che lui stesso una volta ha riconosciuto essere un fallimento
abominevole. Non fare nulla servirà solo a dimostrare quanto siano vuote le
parole dell’establishment in difesa dei diritti umani.
*Branko Marcetic è staff writer di JacobinMag. Vive a Toronto, in
Canada. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
https://jacobinitalia.it/il-problema-di-cuba-sono-gli-stati-uniti/
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