Non so quanti abbiano ricordato che poco meno di vent’anni fa, a Genova, poliziotti, carabinieri, finanzieri si esibirono in prove di brutalità insensata e impietosa, come neppure negli anni sessanta o settanta della contestazione s’erano mai viste. Agenti in strada travestititi da rambo, altri in borghese con bastoni di ferro, altri ancora che incitavano i compagni all’assalto. Il pretesto era quello di fermare i black bloc, le tute nere con i sassi e con le molotov, poche decine all’inizio, qualche centinaio alla fine, che non sarebbe stato arduo isolare subito, all’apparire dei primi incidenti, il secondo giorno (dopo la pacifica manifestazione con i migranti del primo giorno), quando in piazza Alimonda morì Carletto Giuliani. Invece poliziotti, carabinieri e finanzieri si scatenarono contro un corteo inerme, contro ragazze e ragazzi che dormivano nella palestra della scuola Diaz, che detenevano armi letali come spazzolini da denti, tubi di dentifricio, vasetti di marmellata e tozzi di pane, infine massacrando nel segreto delle stanze di Bolzaneto quanti, tra ragazze e soprattutto ragazzi, erano stati fermati e reclusi. Nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarò all’unanimità che a Bolzaneto era stato violato l’articolo 3 sul divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti…
Allora mi capitò di raccogliere la
testimonianza di un anziano graduato della Ps, che aveva vissuto il Sessantotto
e il post sessantotto a Roma. Commentando le gesta dei suoi colleghi, mi disse:
“Hanno perso la testa”. Certo, ma credo anche che gli ordini fossero quelli,
ordini impartiti durante un lungo periodo di addestramento e di indottrinamento,
nel chiuso delle caserme o dei padiglioni della Fiera del mare. Il governo di
Berlusconi, ben sostenuto dalla cosiddetta destra post fascista di Fini, si
presentò così al mondo del G8: una città blindata, tra sbarre e muraglie di
container, l’orchestrata repressione nelle strade, come se si volesse
annichilire qualsiasi forma di protesta, per quanto pacifica, democratica,
inerme.
Siamo tornati indietro di vent’anni,
per la circostanza di un anniversario. Si sarebbe potuto tornare molto più in
là, e raccontare altri episodi, dal dopoguerra in avanti. Si rincorrono altri
nomi e altre immagini: Scelba, la Celere, il Luglio Sessanta, i morti di Reggio
Emilia. In una scena del film di Gian Butturini, “Il mondo degli ultimi”, si
ricostruisce la morte di un bracciante che protestava contro le condizioni di
vita imposte dai padroni: gettato a terra e colpito ripetutamente alla testa
con il calcio di un fucile da un poliziotto. Il bracciante si chiamava Marziano
Girelli. Era il 1949, nelle campagne tra Mantovano e Bresciano.
L’oltraggio alla Costituzione firmato
dalle cosiddette “forze dell’ordine” ha sembianze carsiche: è un fiume che ogni
tanto riaffiora, ma che continua a scorrere, sotterraneo, dimenticato, sospinto
talvolta da ispirazioni personali, individuali (ma il senso della solidarietà o
della connivenza non fa mai difetto in certi corpi), talvolta alimentato in
modo più o meno manifesto dalla politica e da molti tra i nostri concittadini
(non ci siamo mai liberati dalla seduzione dei manganelli e neppure dal mito
molto fascista della mano forte). Non vorremmo assolvere gli autori delle
violenze, vorremmo dire che raramente si ritrovano soli.
Quanto avvenuto a Santa Maria
Capua Vetere è appunto il riemergere di sequenze già note: le botte,
l’accanimento, il coinvolgimento della “catena di comando”, le coperture, i
tentativi di depistaggio, per giunta l’ingenua superficialità di un ministro,
che si fida, che non approfondisce, che sembra non voler trarre alcun
insegnamento dal passato (Bonafede, Cinquestelle). Con l’aggiunta dei
lunghi silenzi di troppa parte della politica. La ministra in carica, Marta
Cartabia, che conosce bene la Costituzione, per rimediare ha avviato una
inchiesta… una inchiesta come altre che riguardano molte altre carceri, da
Torino a Palermo, di cui poco si è saputo e di cui poco si sa. Probabilmente
perché tra quelle sbarre avevano avuto l’accortezza di spegnere le telecamere.
A Santa Maria Capua Vetere no: un film impietoso, il fermo immagine di un caso
che non è isolato…
Gli abusi che
dobbiamo contare e le storie che ci lasciamo alle spalle sono l’evidenza non di
un episodio ma di un sistema che abbiamo pensato di poter correggere e che non
abbiamo mai corretto, sperando che la cultura, da Beccaria in avanti,
potesse metterci al riparo, potesse educarci al rispetto della persona e del
diritto. Hanno imparato gli altri. Dostoevskij ha scritto uno dei capolavori
della letteratura universale (“Delitto e castigo”), dopo aver letto Beccaria.
Dopo il fascismo e dopo la guerra
di Liberazione, la Costituzione ha dettato principi insuperabili. Mario Gozzini ha
promosso una legge (approvata nel 1986) che richiama al senso di umanità e alla
rieducazione del condannato. Si sono combattute aspre battaglie, dentro e fuori
il parlamento, per introdurre elementi di democrazia tra i regolamenti della
polizia, perché venissero riconosciuti doveri e diritti (e tra questi anche il
diritto a migliori condizioni di vita). Solo un paio di anni fa, Andrea
Orlando, allora ministro della Giustizia, aveva avviato riforme
dell’ordinamento penitenziario, contro il sovraffollamento, per le pene
alternative…
Alla fine, Santa Maria Capua
Vetere mostra come accanto alle strade più coraggiose e lungimiranti e utili
continuino a snodarsi percorsi di segno opposto, tracciati appunto da certa
politica, da chi all’interno delle carceri deve operare, in alto e in basso
nella scala gerarchica, dall’opinione pubblica, perché vi è anche un’opinione
pubblica che condivide, che ispira, che non riesce a superare le proprie paure,
che cerca vendetta e rassicurazioni dalla cancellazione in una cella dei suoi
“nemici”, veri o immaginari.
L’istituzione totale, dal manicomio alla
prigione, continua ad affascinare: resistono in altre forme i manicomi,
reinventati in cliniche private o in servizi psichiatrici che non funzionano,
malgrado una legge del 1978 (la legge 180, approvata dopo la ventennale
battaglia condotta da Franco Basaglia) li avesse aboliti, resistono gli
ospedali giudiziari (anche questi esclusi da una legge del 2014), figuriamoci
le carceri (al di là di qualche esperienza modello). Separare, rinchiudere,
alzare muri, occultare: un’idea di società punitiva sopravvive e talvolta
prospera nel paese di Beccaria, di Basaglia, di Gozzini, della Costituzione, di
tanti spiriti liberi, un’idea che si può presentare in tante forme e assai
diverse… Di istituzioni totali si dovrebbe parlare anche a proposito di luoghi
di lavoro, teatri imperscrutabili di tante sciagure…
Accanto alle sequenze dei pestaggi
a Santa Maria Capua Vetere, non dovrebbero mai mancare una fotografia di
Stefano Cucchi (un tempo immemorabile per superare grossolane bugie e arrivare
ai colpevoli) o il film (dalle telecamere di sorveglianza, presentata in parte
anche dalla Rai) della fine di Franco Mastrogiovanni, il maestro
incolpevole morto dopo ottantasette ore trascorse legato a un letto di
contenzione nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, cui
era stato affidato per un tso, un trattamento sanitario obbligatorio, e neppure
il volto di Luana D’Orazio, uccisa dagli ingranaggi del macchinario, al quale
era stata sottratta una protezione, giusto per accelerare la produzione, come
nessuna ispezione aveva mai rivelato.
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