mercoledì 14 luglio 2021

Non è questo il Paese di Beccaria, Gozzini e Basaglia – Oreste Pivetta

Non so quanti abbiano ricordato che poco meno di vent’anni fa, a Genova, poliziotti, carabinieri, finanzieri si esibirono in prove di brutalità insensata e impietosa, come neppure negli anni sessanta o settanta della contestazione s’erano mai viste. Agenti in strada travestititi da rambo, altri in borghese con bastoni di ferro, altri ancora che incitavano i compagni all’assalto. Il pretesto era quello di fermare i black bloc, le tute nere con i sassi e con le molotov, poche decine all’inizio, qualche centinaio alla fine, che non sarebbe stato arduo isolare subito, all’apparire dei primi incidenti, il secondo giorno (dopo la pacifica manifestazione con i migranti del primo giorno), quando in piazza Alimonda morì Carletto Giuliani. Invece poliziotti, carabinieri e finanzieri si scatenarono contro un corteo inerme, contro ragazze e ragazzi che dormivano nella palestra della scuola Diaz, che detenevano armi letali come spazzolini da denti, tubi di dentifricio, vasetti di marmellata e tozzi di pane, infine massacrando nel segreto delle stanze di Bolzaneto quanti, tra ragazze e soprattutto ragazzi, erano stati fermati e reclusi. Nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarò all’unanimità che a Bolzaneto era stato violato l’articolo 3 sul divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti…

Allora mi capitò di raccogliere la testimonianza di un anziano graduato della Ps, che aveva vissuto il Sessantotto e il post sessantotto a Roma. Commentando le gesta dei suoi colleghi, mi disse: “Hanno perso la testa”. Certo, ma credo anche che gli ordini fossero quelli, ordini impartiti durante un lungo periodo di addestramento e di indottrinamento, nel chiuso delle caserme o dei padiglioni della Fiera del mare. Il governo di Berlusconi, ben sostenuto dalla cosiddetta destra post fascista di Fini, si presentò così al mondo del G8: una città blindata, tra sbarre e muraglie di container, l’orchestrata repressione nelle strade, come se si volesse annichilire qualsiasi forma di protesta, per quanto pacifica, democratica, inerme.

Siamo tornati indietro di vent’anni, per la circostanza di un anniversario. Si sarebbe potuto tornare molto più in là, e raccontare altri episodi, dal dopoguerra in avanti. Si rincorrono altri nomi e altre immagini: Scelba, la Celere, il Luglio Sessanta, i morti di Reggio Emilia. In una scena del film di Gian Butturini, “Il mondo degli ultimi”, si ricostruisce la morte di un bracciante che protestava contro le condizioni di vita imposte dai padroni: gettato a terra e colpito ripetutamente alla testa con il calcio di un fucile da un poliziotto. Il bracciante si chiamava Marziano Girelli. Era il 1949, nelle campagne tra Mantovano e Bresciano.

L’oltraggio alla Costituzione firmato dalle cosiddette “forze dell’ordine” ha sembianze carsiche: è un fiume che ogni tanto riaffiora, ma che continua a scorrere, sotterraneo, dimenticato, sospinto talvolta da ispirazioni personali, individuali (ma il senso della solidarietà o della connivenza non fa mai difetto in certi corpi), talvolta alimentato in modo più o meno manifesto dalla politica e da molti tra i nostri concittadini (non ci siamo mai liberati dalla seduzione dei manganelli e neppure dal mito molto fascista della mano forte). Non vorremmo assolvere gli autori delle violenze, vorremmo dire che raramente si ritrovano soli.

Quanto avvenuto a Santa Maria Capua Vetere è appunto il riemergere di sequenze già note: le botte, l’accanimento, il coinvolgimento della “catena di comando”, le coperture, i tentativi di depistaggio, per giunta l’ingenua superficialità di un ministro, che si fida, che non approfondisce, che sembra non voler trarre alcun insegnamento dal passato (Bonafede, Cinquestelle). Con l’aggiunta dei lunghi silenzi di troppa parte della politica. La ministra in carica, Marta Cartabia, che conosce bene la Costituzione, per rimediare ha avviato una inchiesta… una inchiesta come altre che riguardano molte altre carceri, da Torino a Palermo, di cui poco si è saputo e di cui poco si sa. Probabilmente perché tra quelle sbarre avevano avuto l’accortezza di spegnere le telecamere. A Santa Maria Capua Vetere no: un film impietoso, il fermo immagine di un caso che non è isolato…

Gli abusi che dobbiamo contare e le storie che ci lasciamo alle spalle sono l’evidenza non di un episodio ma di un sistema che abbiamo pensato di poter correggere e che non abbiamo mai corretto, sperando che la cultura, da Beccaria in avanti, potesse metterci al riparo, potesse educarci al rispetto della persona e del diritto. Hanno imparato gli altri. Dostoevskij ha scritto uno dei capolavori della letteratura universale (“Delitto e castigo”), dopo aver letto Beccaria.

Dopo il fascismo e dopo la guerra di Liberazione, la Costituzione ha dettato principi insuperabili. Mario Gozzini ha promosso una legge (approvata nel 1986) che richiama al senso di umanità e alla rieducazione del condannato. Si sono combattute aspre battaglie, dentro e fuori il parlamento, per introdurre elementi di democrazia tra i regolamenti della polizia, perché venissero riconosciuti doveri e diritti (e tra questi anche il diritto a migliori condizioni di vita). Solo un paio di anni fa, Andrea Orlando, allora ministro della Giustizia, aveva avviato riforme dell’ordinamento penitenziario, contro il sovraffollamento, per le pene alternative…

Alla fine, Santa Maria Capua Vetere mostra come accanto alle strade più coraggiose e lungimiranti e utili continuino a snodarsi percorsi di segno opposto, tracciati appunto da certa politica, da chi all’interno delle carceri deve operare, in alto e in basso nella scala gerarchica, dall’opinione pubblica, perché vi è anche un’opinione pubblica che condivide, che ispira, che non riesce a superare le proprie paure, che cerca vendetta e rassicurazioni dalla cancellazione in una cella dei suoi “nemici”, veri o immaginari.

L’istituzione totale, dal manicomio alla prigione, continua ad affascinare: resistono in altre forme i manicomi, reinventati in cliniche private o in servizi psichiatrici che non funzionano, malgrado una legge del 1978 (la legge 180, approvata dopo la ventennale battaglia condotta da Franco Basaglia) li avesse aboliti, resistono gli ospedali giudiziari (anche questi esclusi da una legge del 2014), figuriamoci le carceri (al di là di qualche esperienza modello). Separare, rinchiudere, alzare muri, occultare: un’idea di società punitiva sopravvive e talvolta prospera nel paese di Beccaria, di Basaglia, di Gozzini, della Costituzione, di tanti spiriti liberi, un’idea che si può presentare in tante forme e assai diverse… Di istituzioni totali si dovrebbe parlare anche a proposito di luoghi di lavoro, teatri imperscrutabili di tante sciagure…

Accanto alle sequenze dei pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, non dovrebbero mai mancare una fotografia di Stefano Cucchi (un tempo immemorabile per superare grossolane bugie e arrivare ai colpevoli) o il film (dalle telecamere di sorveglianza, presentata in parte anche dalla Rai) della fine di Franco Mastrogiovanni, il maestro incolpevole morto dopo ottantasette ore trascorse legato a un letto di contenzione nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, cui era stato affidato per un tso, un trattamento sanitario obbligatorio, e neppure il volto di Luana D’Orazio, uccisa dagli ingranaggi del macchinario, al quale era stata sottratta una protezione, giusto per accelerare la produzione, come nessuna ispezione aveva mai rivelato.

da qui

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