𝗧𝗿𝗮 𝗹𝗲 𝗳𝗿𝗮𝘀𝗶 𝗲 𝗰𝗼𝗻𝗰𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗹’𝗲𝗽𝗶𝗱𝗲𝗺𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗖𝗢𝗩𝗜𝗗 𝗵𝗮 𝗿𝗲𝘀𝗼 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶, una merita
sicuramente un posto speciale: “Didattica a Distanza”, la DAD. Con il termine
DAD si indica l’insegnamento (di ogni ordine e grado) condotto a distanza,
utilizzando le nuove tecnologie digitali. Le opinioni di docenti e discenti
sulla DAD sono varie e spesso discordi: c’è chi la ritiene sempre dannosa o,
comunque, molto meno efficace della didattica basata sulla presenza fisica;
c’è, invece, chi sostiene sia utile e possa costituire, soprattutto nelle
scuole secondarie e università, una valida alternativa all’insegnamento
tradizionale, tanto da prospettare un futuro in cui la DAD sarà la norma e la
presenza fisica l’eccezione. 𝗜𝗼 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗰𝗼𝗻𝘃𝗶𝗻𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗳𝗶𝘀𝗶𝗰𝗮 𝘀𝗶𝗮 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗻𝘇𝗶𝗮𝗹𝗲 da un punto di vista
educativo, proprio perché gli esseri umani usano contemporaneamente molteplici
linguaggi, veicolati e catturati da diverse modalità sensoriali. La comunicazione digitale privilegia le
comunicazioni acustiche e visive ed esclude tutte le altre. Tuttavia,
gli altri linguaggi (spesso definiti “corporei”) sono altrettanto importanti e
contribuiscono, in modo cruciale, anche se subliminale, a fissare nella mente
del discente concetti, informazioni, modi di pensare, prospettive e a informare
il docente del grado di ricezione del messaggio educativo. L’insegnamento non è, se non in minima parte,
trasmissione di informazioni (che, tra l’altro, oggi possono essere
rintracciate online con estrema facilità) ma è comunicazione di stili, di modi
di apprendere, di pensare.
Naturalmente è impossibile escludere che in un futuro tecnologie di realtà
aumentata possano mimare tutte le modalità sensoriali e riprodurre l’esperienza
immersiva della comunicazione in presenza: a quel punto le persone vivranno in
un perenne stato onirico, incapaci di distinguere tra sogno e realtà. Oggi,
però, siamo ancora lontani da una simile condizione.
𝗡𝗼𝗻 𝘃𝗼𝗴𝗹𝗶𝗼, 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗮𝘃𝗶𝗮, 𝗽𝗮𝗿𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗮𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗲𝗱𝘂𝗰𝗮𝘁𝗶𝘃𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗗𝗔𝗗, quanto dei suoi
effetti psicologici e sulla salute mentale di docenti e discenti. Per fare ciò,
è essenziale distinguere due diverse situazioni: la 𝗱𝗶𝗱𝗮𝘁𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗻𝗼𝗻𝗼𝘀𝘁𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗹𝗮 𝗱𝗶𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮 e la 𝗱𝗶𝗱𝗮𝘁𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗱𝗶𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮. La “didattica
nonostante la distanza” è la situazione in cui, per impedimenti di forza
maggiore, non è possibile una didattica in presenza e quindi si ricorre a un
insegnamento a distanza. È una condizione in cui si cerca di far buon viso a
cattivo gioco, in cui ci si barcamena dinanzi a una impossibilità che va oltre
la volontà di insegnanti ed alunni. La “didattica nonostante la distanza” non è
certo una condizione ottimale: da un punto di vista educativo presenta numerosi
problemi, ma non è di per sé pericolosa per la salute mentale dei protagonisti.
Qualcosa di diverso accade, invece, con la didattica della distanza. Chiamo
“didattica della distanza” quell’insegnamento che fa della distanza fisica il
suo elemento essenziale, che lo ricerca come soluzione alternativa
all’insegnamento in presenza, proponendosi come “nuova didattica”, come
didattica dell’era digitale. La distanza non è subita, ma diventa il nucleo
stesso dell’insegnamento: prima ancora che insegnare ciò che esplicitamente si
prefigge, questa didattica insegna che gli esseri umani non hanno bisogno della
presenza fisica dell’altro. Così intesa, la DAD non è solo educativamente
dannosa, ma, a mio modo di vedere, anche pericolosa per la salute mentale di
chi la usa. 𝗟𝗲 𝗽𝗶𝗮𝘁𝘁𝗮𝗳𝗼𝗿𝗺𝗲 𝗮𝘂𝗱𝗶𝗼𝘃𝗶𝘀𝗶𝘃𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝗰𝗮𝗿𝗲 𝗼𝗻𝗹𝗶𝗻𝗲 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗶𝗻𝗱𝘂𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝘂𝘁𝗶𝗹𝗶. Il loro uso per obiettivi precisi e
limitati nel tempo non è certamente dannoso. Quando però sono utilizzate in modo continuativo, per comunicazioni che
possono avere una qualche intensità emotiva, diventano psichicamente rischiose.
Si tratta di un fenomeno che si può osservare in una varietà di condizioni:
dalle chat erotiche sino alle videoconferenze di lavoro, ai social e alla DAD.
Per quanto diverse tra loro, tutte queste situazioni si basano su interazioni
che possono essere emotivamente significative: più lo sono, più aumentano i
rischi di danni psicologici.
La comunicazione online non è dannosa sinché si mantiene “fredda”, evento
che si verifica però raramente perché il mezzo è di per sé (utilizzando la
vecchia classificazione di Marshall McLuhan) un mezzo “caldo”: lo dimostra,
senza necessità di lunghe analisi, la capacità di coinvolgimento – sino a
creare vere e proprie forme di dipendenza – che hanno i social. 𝗦𝗲 𝗱𝗮 𝘂𝗻 𝗹𝗮𝘁𝗼 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗼𝗻𝗹𝗶𝗻𝗲 𝗰𝗼𝗶𝗻𝘃𝗼𝗹𝗴𝗲 𝗲 𝗰𝗮𝘁𝘁𝘂𝗿𝗮, dall’altro, però,
sconta una mancanza fondamentale, il corpo. Non che il corpo sia veramente
assente nelle interazioni digitali: al contrario esso è in continuazione
evocato, si pensi solo all’uso sessuale di internet, ma è un corpo
“disincarnato”. Al centro di questo paradosso – un corpo disincarnato – c’è la
questione del “tatto”, il più bizzarro tra i nostri sensi. Il tatto è alla base
di tutte le altre modalità sensoriali, sia da un punto di vista fisiologico (i
recettori relativi ad ogni altro senso sono recettori tattili specializzati),
sia da un punto di vista concettuale (noi percepiamo solo ciò con cui siamo in contatto,
siano vibrazioni dell’aria, onde elettromagnetiche, molecole in soluzione o
pressioni esercitate sulla pelle). Il
tatto coincide con il nostro corpo: mentre si percepiscono le sensazioni
tattili, inevitabilmente si avverte la propria fisicità e si colloca sé stessi
in relazione con l’ambiente circostante. Si potrebbe persino dire che non
esiste altro senso che il tatto. Contemporaneamente, però, si tende a dividere
i sensi in due grandi categorie: il tatto e i sensi ad esso più strettamente
correlati (gusto ed olfatto), considerati “inferiori”, e due sensi “superiori”,
udito e vista. Anche se i due sensi “superiori” sono a rigore forme di tatto,
tutti noi percepiamo le sensazioni visive e acustiche come esperienze a sé
stanti, quasi prive di una dimensione corporea. Anche per questo motivo il
rapporto di questi due sensi con la realtà appare più labile, più soggetto a
inganni. Qualcosa che “tocchiamo con mano” esiste sicuramente, mentre qualcosa
che abbiamo “visto con i nostri occhi” oppure “udito con le nostre orecchie”
può ancora essere un’illusione, un fraintendimento, un’apparizione. Quando il
Cristo risorto appare ai discepoli, questi reagiscono increduli e con spavento.
Per rassicurali, il Risorto invita a toccarlo, a verificare con mano che il suo
corpo esiste ed è fatto di carne, non è un fantasma. 𝗨𝗻’𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗲 𝗽𝗿𝗶𝘃𝗮 𝗰𝗼𝗿𝗽𝗼, 𝗰𝗼𝘀𝗶̀ 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝘃𝗼𝗰𝗲 𝗱𝗶𝘀𝗶𝗻𝗰𝗮𝗿𝗻𝗮𝘁𝗮, 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗰𝘂𝗹𝘁𝘂𝗿𝗮 𝘂𝗻𝗮 𝗿𝗮𝗽𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗺𝗼𝗿𝘁𝗲 o, più precisamente,
delle anime dei defunti. In tutte le tradizioni religiose, nei miti, nelle
leggende, nelle favole e nella nostra immaginazione, i morti ritornano sotto
forma di voci o figure disincarnate, ombre visibili e udibili ma non toccabili.
Questa situazione è descritta in modo insuperabile nel canto decimo dell’Odissea, nel racconto del viaggio di
Odisseo nell’oltretomba. Qui l’eroe greco incontra le anime dei trapassati,
compresa la madre Anticlea, morta per il dolore di aver creduto il figlio
morto: quando Odisseo cerca di abbracciare la donna, per ben tre volte afferra
solo l’aria. I morti, commenta il poeta, sono come il fumo, privi di carne e di
sostanza. 𝗟’𝗲𝘀𝗽𝗲𝗿𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗮𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗶 𝗱𝗲𝗳𝘂𝗻𝘁𝗶 𝗼 𝗱𝗲𝗴𝗹𝗶 𝘀𝗽𝗶𝗿𝗶𝘁𝗶 non è così diversa da
quella che si ha degli interlocutori nella comunicazione digitale. In entrambi
i casi è possibile interagire ma è interdetto il contatto. Come con i fantasmi,
se si cerca di afferrare un’immagine digitale, la nostra mano incontra solo
aria. Accade quindi qualcosa che tutti noi conosciamo perché appartiene al
mondo onirico: le persone care, ora scomparse, viste e udite nel sogno,
evaporano al risveglio, lasciandoci solo nostalgia e una sensazione di
mancanza. In modo non dissimile – terminata la lezione, la chat, la video
conversazione – le persone svaniscono nel nulla, come spettri al levare del
sole. Una condizione in cui le
relazioni più importanti (come quelle che dovrebbero caratterizzare una vera
situazione di insegnamento) si svolgono a distanza, per il tramite di
un’effimera e inconsistente presenza digitale, è quindi inevitabilmente
destinata ad evocare assenza, vuoto e morte.
𝗡𝗼𝗻 𝗯𝗶𝘀𝗼𝗴𝗻𝗮, 𝗱𝘂𝗻𝗾𝘂𝗲, 𝘀𝘁𝘂𝗽𝗶𝗿𝘀𝗶 𝘀𝗲 𝗹𝗮 𝗗𝗔𝗗 – quando vi si ricorre non come ultima ratio ma come
innovativa forma di insegnamento – rischi di scatenare profonde depressioni in
coloro che sono inclini a questa patologia e in tutti, docenti e discenti,
possa causare reazioni depressive più lievi ma, non per questo, meno
preoccupanti.
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