Nei mesi scorsi si sono levate voci autorevoli allo scopo di chiedere
verità riguardo alle pagine più oscure della storia della nostra Repubblica.
Aderiamo tote corde e, nei limiti delle nostre capacità
individuali e collettive, cerchiamo di contribuirvi, con le verità acquisite e
quelle ancora nascoste. Ritengo, però, altrettanto importante individuare e
diffondere le verità già acquisite; non soltanto tali da essere comprese dall’io
so pasoliniano, ma verificabili con strumenti storiografici e
giuridici; testimonianze inoppugnabili, smentibili soltanto in maniera dolosa e
strumentale. L’anniversario imminente del G8 di Genova costituisce un’occasione
significativa per consolidare e diffondere anche questo impegno.
Sergio Mattarella – oltre che presidente della Repubblica, anche fratello
di Piersanti che ha dato la vita per interrompere il rapporto malato tra le
istituzioni e la mafia – in varie occasioni recenti è tornato sulla necessità
di acquisire quanto ancora dolosamente occultato (cfr. ad es. la sua intervista
a “La Repubblica”, 9 maggio 2021). Nello stesso giorno Daria Bonfietti – per
quarant’anni instancabile presidente dell’Associazione delle vittime di Ustica
– ha fatto altrettanto dalle colonne de “il Manifesto”. L’iniziativa di Gianni
Marilotti, presidente della Commissione archivio e biblioteca del Senato, ha
consentito l’apertura della documentazione segreta prodotta da commissioni
d’inchiesta parlamentari ed ha ospitato un seminario intitolato al diritto alla
conoscenza tuttora negata da leggi e governi (il nostro continua a non dare
seguito ad impegni precedentemente assunti), in nome della ragion di stato.
La ricerca che essa presuppone, difficile e pericolosa, come dimostrano
casi come quello di Julian Assange, costituisce una condizione indispensabile
per la difesa e l’eventuale progresso della nostra democrazia. Nel caso
dell’Italia non soltanto repubblicana si tratta di illuminare e combattere una
sua peculiarità costitutiva, ma del tutto incostituzionale, consistente in forme
di limitazioni di sovranità, che hanno permeato lo stato e che non possono
essere liquidate o spacciate per deviazioni. Poiché tali forme di
prevaricazione della sovranità nazionale sono per l’appunto incostituzionali e
illegali, esse aprono la strada a forme svariate di illegalità, successivamente
occultate.
Facciamo, invece, alcuni esempi di verità ormai acquisite. Oggi conosciamo
la testimonianza di Paolo Emilio Taviani – non un gauchiste qualunque,
allora vicepresidente del consiglio, ripetutamente ministro dell’interno e
della difesa – in seduta segreta di fronte alla commissione Gualtieri, secondo
cui la strage di Piazza Fontana non fu soltanto opera di alcuni esecutori
materiali, neonazisti veneti, tardivamente condannati. Essa fu programmata, sostenuta,
armata da esponenti dei servizi segreti italiani e statunitensi. Sempre grazie
a Taviani, sappiamo anche che il governo dell’epoca, insieme con le
articolazioni nazionali e milanesi dello stato, fin dal primo momento al
corrente della matrice dell’attentato, costruirono strumentalmente, a tavolino,
la pista anarchica che costò la vita a Giuseppe Pinelli. Che la strage era di
stato, come recitava il titolo del libro ai cui autori ogni democratico è e
resta indebitato.
Oggi noi sappiamo, attraverso una testimonianza, tra le tante, altrettanto
inequivocabile, quella di Steven Pieczenik (cfr. Emmanuel Amara, Steve R.
Pieczenik, Nous avont tué
Aldo Moro, Patrick Robin Editions, 2006) – all’epoca Deputy
Assistant Secretary, responsabile dell’antiterrorismo presso il
Dipartimento di Stato e membro della famigerata commissione nominata e gestita
dal presidente Cossiga – che le Brigate Rosse, consapevoli o meno, furono
soltanto gli esecutori materiali dell’omicidio di Aldo Moro, per arrestarne un
disegno politico inviso a Washington quanto a Mosca. Dedichiamo tale
consapevolezza alla sua memoria, a quella della sua scorta ugualmente
trucidata, alle loro famiglie, al rispetto nei confronti della lotta da lui
condotta, in primo luogo non in difesa della propria vita, bensì della sua
politica votata all’evoluzione democratica del suo e nostro paese.
Ancora a quarant’anni dall’abbattimento del DC 9 Italia nel cielo di
Ustica, continuano a circolare versioni che attribuiscono quella strage di
civili ad un cedimento strutturale del velivolo o ad un esplosivo in esso
collocato, malgrado esperti ineccepibili abbiano addirittura precisato il punto
d’ingresso di un missile nella ricostruzione effettuata del velivolo. Grazie
all’istruttoria condotta dal giudice Rosario Priore, noi oggi abbiamo certezza
che la sua caduta fu causata da una battaglia aerea in cui esso fu
incidentalmente colpito.
Tale fatto è inequivocabilmente documentato da percorsi aerei a suo tempo
forniti dal segretario generale della Nato, Xavier Solana, al giudice
istruttore, su richiesta della commissione esteri del Senato, avvallata da
Lamberto Dini, allora ministro degli esteri. È vero che mancano tuttora
informazioni importanti, giustamente sollecitati da Daria Bonfietti, tra cui,
essenziali, la nazionalità del missile e il chiarimento delle circostanze della
morte, coincidentale o meno, di almeno dieci testimoni di occultamenti
effettuati da parte di autorità italiane. Tuttavia, ciò non deve oscurare quanto
si è inequivocabilmente accertato.
Le vicende legate al G8 di Genova sono, invece, del tutto o prevalentemente italiane. Grazie all’opera compiuta dalla magistratura genovese, conosciamo nei minimi dettagli l’uccisione di Giuliani, l’attacco notturno a freddo dei pacifici dimostranti che soggiornavano alla Diaz da parte delle forze di polizia guidate dal prefetto La Barbera, stretto collaboratore del capo della polizia Gianni De Gennaro (ora presidente della multinazionale delle armi Leonardo), la disseminazione di prove fasulle a giustificazione di tale atto, i successivi trasferimenti a Bolzaneto ove ebbero luogo atti di tortura, da parte di guardie carcerarie, successivamente sanzionate anche da parte della magistratura europea. Grazie anche alla testimonianza dell’allora presidente della provincia di Genova, Marta Vincenzi, sappiamo anche che tali eventi furono preceduti dalla passività totale delle forze dell’ordine nei confronti dei c.d. black bloc che poterono ritirarsi in buon ordine dalla città dopo averla messa a ferro e fuoco.
Il futuro della nostra democrazia, insomma, è in larga parte legata
all’ulteriore conoscenza di eventi passati che ne condizionano tuttora il
futuro.
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