Accadeva già nel 2011, dopo il 25 gennaio, con la crescente contestazione all’Egitto di Mubarak. Nei giorni seguenti la grande manifestazione di Tahrir, quando la repressione militare diretta dal peggior mukhabarat in circolazione, il generale Suleiman, attuava arresti di massa, i giovani fermati finivano nel campo della Montagna Rossa, schiacciati a terra e bastonati. Privati dei vestiti con le basse temperature notturne e al mattino seguente svegliati elettricamente coi cavi, un criminale esercizio che poteva durare ore. Al detenuto Moka, entrato e uscito di prigione per un cospicuo periodo di tempo, accadeva questo. Un’epoca che non è finita, anzi è peggiorata e vede l’attivista e suoi simili ridotti in misere condizioni. Dopo quattro anni di galera Moka s’è ritrovato di nuovo perseguitato. Altri due anni di dolore e di pene. Di recente ha infilato cinquanta giorni di sciopero della fame, e chi l’ha incrociato fra le sbarre ne ha descritto una prostrazione infinita. Parlava con gli scarafaggi che gli ballavano attorno nella cella, batteva i pugni contro la porta che nelle ore calde diventa una lastra rovente sotto i raggi solari. In quello spazio angusto si può soffocare perché l’aria diventa mortifera per i riverberi infuocati. Per tacere della promiscuità che non preserva dai contagi Covid. E’ la “normalità” con cui il sistema carcerario egiziano crea quanto più disagio si possa offrire ai detenuti, quelli politici su tutti. Un detto assai diffuso parla di percorso obbligato per i dissidenti: cella oppure obitorio. Possono scegliere loro stessi in base alla condotta, ovviamente le due strade si possono unire, visto che in varie circostanze il carcere è diventato esso stesso patibolo o luogo di morte. E’ di queste ore la denuncia di attivisti anti-regime su un’ultima vittima dell’autoritarismo imperante: una ricercatrice egiziana impegnata a Berlino è stata fermata all’aeroporto del Cairo. Sequestrata per un giorno intero è stata poi liberata dietro il pagamento d’una cauzione. Le è andata benissimo. Rientrava in patria per una visita ai genitori, difficilmente la ripeterà. Il cosiddetto ‘sistema di sicurezza’ egiziano attraverso le ambasciate compie una sorta di schedatura dei cittadini all’estero, nel mirino finiscono giovani giornalisti, storici, sociologi. Ogni tipologia di studio fuori dai confini, specie se in Occidente, viene ostacolata con cavilli burocratici; diventa sempre più difficile rinnovare passaporti, ottenere documenti di laurea per intraprendere dottorati di ricerca. Le maggiori capitali europee ormai sono mete impossibili da raggiungere, così l’apparato di Sisi cerca di bloccare una nuova leva di pensatori critici. Nuovi Patrick Zaky non sono ammessi, se accadrà li attende la galera.
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