Tra il 2017 e il 2020 in Bulgaria sono
state arrestate decine di persone durante retate antiterrorismo. I media si
sono limitati a riportare le dichiarazioni ufficiali della procura, senza porre
domande importanti sulla natura di queste operazioni. Ben presto l’interesse è svanito, mentre la vita
degli arrestati è cambiata per sempre. Ad oggi, nessuna di queste persone
risulta essere appartenente a gruppi legati all’estremismo islamico. Secondo
una nostra fonte nella polizia bulgara, queste operazioni condotte tramite
“testimoni segreti” “servono per farsi belli davanti ai partner
internazionali”. Del resto si tratta di detenzioni finanziate anche con i fondi
stanziati dall’UE. (English version)
Avete
sentito parlare di un’operazione su vasta scala in cui la polizia bulgara ha arrestato 43 persone accusate di finanziare
gruppi terroristici? Se non siete bulgari o non seguite le notizie sui Balcani,
è molto improbabile. Nel gennaio 2019 è stata la notizia principale nei media
locali per alcuni giorni, per poi finire presto nel dimenticatoio. Proprio come
era accaduto con precedenti operazioni analoghe compiute dalle autorità bulgare
contro presunti “terroristi”. Per diversi anni, tra il 2017 e il 2020, la
procura bulgara ha condotto azioni antiterrorismo che hanno portato a una
coltre di eventi poco chiari corredati da dichiarazioni fumose. Le autorità non
ne vogliono parlare e non spiegano se le decine di arresti fossero dovute a un meticoloso lavoro di
intelligence o se, al contrario, queste operazioni non fossero il risultato di un sistema corrotto,
della decadenza delle agenzie di intelligence e di una prassi di abusi.
Il cane da guardia della Fortezza Europa, ignorato dai media europei
I Balcani
entrano raramente nel flusso delle notizie globali, e se ciò accade è nel
contesto di processi geopolitici più ampi. In fondo, un cittadino medio europeo
avrebbe difficoltà a dire cosa sia successo recentemente nel versante
sudorientale del continente. Le eccezioni potrebbero riguardare la Grecia, a
causa del crollo finanziario, e probabilmente la Serbia, a causa del suo peso
storico e politico. Per il resto i Balcani tendono a evocare il ricordo delle
guerre jugoslave.
Dove si
colloca la Bulgaria in questo contesto? Sofia rimane fuori dal più ampio
dibattito sui Balcani. Una leggera inversione di tendenza c’è stata con le
sporadiche proteste nel paese tra il 2013 e il 2020, e con l’evoluzione del complesso
rapporto con la
Macedonia del Nord. Sebbene dagli anni ’90 vi siano stati dei progressi, le
istituzioni in Bulgaria, e soprattutto il sistema giudiziario, giacciono ancora nella corruzione
e nel lobbismo. Durante questo periodo diversi governi – in primis quello del
GERB, il partito dell’uscente premier Boyko Borisov – hanno realizzato delle
riforme, che però si sono rivelate limitate e insufficienti e hanno
provocato critiche da parte dell’UE.
La crisi dei
rifugiati causata dalle massicce offensive militari in Siria e dalle
repressioni del regime di Bashar al-Assad ha creato una situazione nuova per
gli stati dell’Unione. Chi fugge dalla guerra cerca di raggiungere le coste
europee attraverso il Mediterraneo o via terra lungo i confini Turchia-Bulgaria
e Turchia-Grecia. I governi europei si sono dimostrati impreparati, mentre le
ondate migratorie colpivano i paesi periferici come la Bulgaria.
La mancanza
di politiche adeguate alle nuove sfide ha portato a un aumento del populismo e del nazionalismo; a Sofia, con le promesse di “affrontare l’invasione
dei migranti”, dei gruppi xenofobi sono diventate parte del governo. Anche diversi altri paesi europei
– che durante l’ondata di rifugiati del 2015-2016 erano in forte crisi interna
– hanno registrato dinamiche simili. Ma la situazione nell’Europa sud-orientale
è particolarmente emblematica. I governi locali usano le circostanze per
dimostrare all’Europa di essere dei partner leali, in modo che Bruxelles possa
fermare le critiche rivolte a loro. La protezione delle frontiere si sta rivelando però non solo un’opportunità
politica, ma anche finanziaria, con le forze di polizia di frontiera che
vengono rafforzate grazie ai fondi europei.
In questa
atmosfera tesa, anche la lotta contro il terrorismo viene alla ribalta.
Gli attacchi terroristici a Parigi e Bruxelles hanno sollevato sentimenti
anti-immigrati che le élite politiche non sempre cercano di contrastare; anzi,
si rivelano una buona opportunità per rafforzare i consensi elettorali. E
sebbene vi sia un pericolo reale di radicalismo e terrorismo, il rischio
effettivo non è lo stesso in ogni paese. In Bulgaria, dove questa possibilità è
significativamente più bassa rispetto alla Francia, decine di persone sono
state arrestate con l’accusa di essere legate ad attività terroristiche senza
alcuna prova credibile diffusa dall’intelligence. Gli arresti di massa del 2019
citati a inizio articolo sono indicativi e mostrano ancora una volta perché sia
necessario concentrarsi più spesso sulla regione. Dall’ufficio del procuratore
non è trapelata alcuna informazione significativa, nonostante ben cinque
persone arrestate siano rimaste successivamente in custodia. I media hanno riportato le dichiarazioni ufficiale della procura senza porre domande importanti
sulla natura delle operazioni. In pochi giorni l’interesse è svanito, mentre la
vita di una decina di persone è cambiata per sempre.
Sei siriano e vendi automobili? Questo basta per sbatterti in galera
Anche quel
poco che è stato mostrato finora è insufficiente e discutibile quale base per una seria operazione
antiterrorismo. In questo caso, come nei precedenti arresti dello stesso tipo,
la trasparenza non fa parte del modo di operare dell’accusa. Possiamo fare un
paragone con le cause contro gli autori degli attentati di Bruxelles e Parigi,
così come gli arresti in altre parti d’Europa dove la polizia ha sempre
preferito mostrare il più possibile e tempestivamente i dettagli delle
operazioni, anche per non provocare speculazioni. Nei casi bulgari viene a
mancare tutto questo, probabilmente perché non si tratta di vere operazioni
contro il terrorismo. Delle cinque persone mostrate in televisione, due sono siriani
con cittadinanza bulgara—un curdo e un arabo con posizioni riconducibili
all’opposizione. Entrambi godono di una buona reputazione nelle rispettive
comunità, vivono in Bulgaria da molto tempo e non hanno avuto precedenti
penali. Dalle informazioni ufficiali non si evince in modo chiaro quali (e di
quali paesi) siano questi gruppi che i detenuti avrebbero finanziato. Abbiamo
incontrato i familiari di alcune delle persone arrestate, per capirne di più;
si sono però rifiutati di fornire ulteriori informazioni sul caso, per timore
di subire ritorsioni dalle autorità.
La maggior
parte degli arrestati è stata rilasciata entro 24 ore. Come accennato, cinque
persone sono però rimaste in
custodia, con un
sesto elemento ricercato. Questo sesto uomo – anch’egli di origine siriana – si
trovava in Turchia al momento delle retate. Tornato in Bulgaria
volontariamente, ha quindi informato la polizia che avrebbe incontrato le forze
dell’ordine se necessario. Questa parte della storia non è stata affatto
riportata dai media locali. Ricordo ancora che i detenuti sono stati dichiarati
“sponsor del terrorismo” e potenzialmente in
connessione con Al Qaeda. Secondo fonti interne ai servizi segreti bulgari, gli
altri detenuti erano coinvolti nella vendita di automobili in Siria, e questo è il motivo principale che ha
portato alle accuse. La vendita di automobili non è un’attività illegale in sé,
ma ha attirato l’attenzione dei media e delle autorità dopo lo scoppio della
guerra civile. Per quasi quattro anni, c’è stata una forte rete di rivenditori
di auto che vendevano vecchie auto di
immatricolazione bulgara in Siria, transitando dalla Turchia. Alcune di
queste auto sono diventate note per essere state usate in attacchi da gruppi
legati ad al Qaeda e allo Stato Islamico.
“Sappiamo
che due di loro [i
detenuti, nda] sono stati accusati di vendere
automobili”, dichiara T.H., una nostra fonte all’interno di una delle
agenzie di sicurezza legate alla polizia. “È un campo minato, basta un
passo falso e tutto salta in aria. Ma sappiamo tutti che questo commercio va
avanti da anni”. In realtà, il venditore non ha idea di chi sia
l’acquirente dell’auto; una volta avvenuta la transazione, il veicolo viene
consegnato al confine e, attraverso degli intermediari, può arrivare nelle mani
di chiunque. Anche molti bulgari sono coinvolti in questo traffico di auto, non
solo i siriani; nessun bulgaro è stato però arrestato finora – perlomeno,
nessuno che non appartenesse alla comunità rom, o che non fosse di origine
straniera – nonostante siano state vendute migliaia di auto dirette in Siria. Per quattro anni, questo commercio
è andato a gonfie vele senza alcun intervento del governo. Cosa ha portato
allora agli arresti all’inizio del 2019? Secondo le informazioni rivelateci dal
nostro contatto nelle forze di sicurezza, si tratterebbe di uno specchietto per
le allodole già utilizzato due anni prima in un arresto simile e legato
all’epurazione degli informatori “disobbedienti” da parte del principale
servizio di intelligence bulgaro, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale.
Il caso del cosiddetto “comandante dello Stato Islamico”, arrestato a gran voce a Sofia nel 2017 e poi tranquillamente rilasciato otto mesi dopo
il suo arresto, è emblematico. L’uomo ha in seguito intentato una causa contro
la Bulgaria per l’intera operazione e per essere stato prelevato davanti agli
occhi della sua famiglia. La nostra fonte all’interno dei servizi di sicurezza
ha aggiunto che i media non hanno mostrato alcun interesse per il caso in sé,
se non per gli aspetti scandalistici della
storia.
Reclutati con l’estorsione, “eliminati” perché scomodi
Alla fine
del 2017, le autorità bulgare annunciarono di aver sgominato una cellula
terroristica. Il caso aveva guadagnato popolarità
internazionale, seppur non erano stati rivelati i dettagli dell’operazione.
In seguito, si è scoperto che non si trattava di un gruppo catturato dalla
polizia, ma di un uomo siriano con cittadinanza bulgara. Ahmed, questo il suo
nome, era tornato in Siria nel 2013 e, secondo le accuse, sarebbe diventato
parte dello Stato Islamico. Successivamente, ha aggiunto la procura, avrebbe
anche assunto funzioni “di comando” nel gruppo. È interessante notare che
questo fantomatico “comandante dell’ISIS” è un commerciante di tabacco per
narghilè, attività su cui nessuno ha mai fatto mistero. Il suo rilascio –
avvenuto dopo otto mesi – non è stato affatto coperto dai media. La domanda
logica è: perché una persona presumibilmente associata allo Stato Islamico
viene rilasciata in un periodo così breve? Secondo M.E., un nostro contatto in
una delle agenzie di intelligence di Sofia, la risposta è che Ahmed non avrebbe
nulla a che fare con lo Stato Islamico, ma che la stessa Agenzia statale per la
sicurezza nazionale l’avrebbe inviato nella città di Jarablus, in Siria, per
un’operazione poi rivelatasi fallimentare. I problemi di Ahmed sarebbero
iniziati dopo che l’agente incaricato
alla sua sorveglianza lo avrebbe accusato di condividere con gli amici dettagli
sull’operazione. “Quello che è stato arrestato era un informatore della
DANS (l’agenzia di sicurezza nazionale bulgara, nda).
Lo sapevamo tutti”, aggiunge M.E. “Il problema è che parlava
molto”.
All’epoca a
cui risalgono gli avvenimenti, i servizi di sicurezza in Bulgaria erano soliti
rivolgersi a membri della comunità araba locale per questo genere di incarichi.
In cambio di alcuni favori ovviamente, il più delle volte legati
all’ottenimento di documenti e alla possibilità di condurre senza impedimenti i
propri affari. È un segreto di Pulcinella che un certo numero di negozi arabi a
Sofia esistano in virtù di una “percentuale” richiesta da membri corrotti delle
forze di sicurezza. Questa pratica è legata al problema del rilascio di
documenti a persone provenienti dal Medio Oriente. Ufficialmente, chiunque
soddisfi i criteri di base per acquisire la residenza permanente può ottenere i
relativi documenti. Nella realtà dei fatti, le cose sono molto diverse. Le
autorità possono espellere chiunque vogliano e, secondo una fonte dell’Agenzia
di Stato per i Rifugiati presso il Consiglio dei Ministri, le autorità bulgare
rifiutano deliberatamente di accettare documenti di siriani, iracheni e
afghani. Il motivo per cui esistano tali disposizioni interne non è chiaro, ma
è probabilmente legato alle politiche per limitare il flusso di migranti verso
la Bulgaria.
Alcuni
rappresentanti della comunità araba sostengono che per rilasciare una carta
d’identità il Ministero degli Interni richieda dei contributi addizionali non previsti dalla legge. A volte, il prezzo da pagare è diventare un informatore.
In questo modo, sia la polizia che i servizi di sicurezza creano una vasta rete
di persone ad essi affiliate che non solo monitorano le rispettive comunità, ma
che sono anche a capo di attività commerciali. Bisogna dire che in Bulgaria
la legislazione antiterrorismo è a un livello embrionale ed è stata creata
rapidamente sullo sfondo degli attacchi di Parigi e Bruxelles. Secondo queste
leggi, una persona accusata di terrorismo può rimanere in custodia speciale per
otto mesi senza andare a processo. Questo periodo può essere esteso per altri
otto mesi a discrezione delle autorità. Per l’espletamento di queste prassi, le agenzie di sicurezza e i tribunali
coinvolti ricevono finanziamenti aggiuntivi, erogati sia dallo stato bulgaro
che dall’Unione europea. Il tribunale ha rifiutato di ascoltare i casi contro i detenuti a causa
di prove insufficienti; tuttavia, l’accusa non ha descritto questo nelle
informazioni pubbliche.
Hawala, l’antichissima tradizione araba
bersagliata dai segugi dell’antiterrorismo
Torniamo
agli arresti del gennaio 2019. Come nel caso del presunto “comandante dello
Stato Islamico” arrestato nel 2017, anche dopo le retate del 2019 sono apparse
in televisione numerose analisi su cosa fosse successo e chi fossero le persone
coinvolte. Il livello di molti esperti di sicurezza era piuttosto basso, dato
che alcuni degli interlocutori non sapevano nemmeno pronunciare la parola hawala,
un antico sistema mediorientale di trasferimento informale di valori che i
detenuti usavano per trasferire denaro e a causa del quale sono stati accusati
di finanziare gruppi terroristici. In quel periodo furono pubblicati diversi
articoli sulla questione, e il pubblico bulgaro apprese per la prima volta
questa strana parola. La parola hawala è
diventata nota a osservatori e analisti esterni solo negli ultimi decenni, con
l’ascesa di al Qaeda e poi dello Stato Islamico. In realtà, però, si tratta di
una tradizione secolare. Il sistema permette il trasferimento di denaro, ma
senza le tracce tipiche di un vero e proprio trasferimento bancario.
Quest’ultimo è anche il motivo principale per cui le organizzazioni
terroristiche usano l’hawala. Il sistema fa parte della vita quotidiana
di molte persone in Medio Oriente e chiunque abbia viaggiato in questa regione
del mondo vi è entrato in contatto, in un momento o nell’altro. Diffusosi
dall’VIII secolo tra i commercianti che
viaggiavano sulla Via della Seta, la hawala continua a
esistere ancora oggi ed è uno dei metodi più comuni con cui la popolazione
locale in vari territori – dall’Africa al sud-est asiatico – trasferisce denaro
a parenti, partner commerciali o per uso personale. Per esempio, secondo il
Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e il Governo pakistano, i fondi che
entrano in Pakistan mediante la hawala sono stimati a quasi 7 miliardi di dollari ogni anno. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato del 2015, in Afghanistan circa il 90% delle
transazioni finanziarie sono alimentate dalle reti hawala.
Negli ultimi
anni, il pubblico bulgaro ha sentito più volte parlare di queste operazioni
“anti-terrorismo” sotto la supervisione dell’Agenzia per la Sicurezza dello
Stato e degli uffici del Procuratore Generale. Quante di queste azioni sono
dirette contro persone che sono una minaccia reale e sono membri provati di
gruppi radicali? Finora, nessuna. Il risultato rimane sempre nell’ombra, così
come le vere ragioni degli arresti. T.H., una delle nostre fonti nella polizia,
offre comunque una possibile ragione: “A volte serve mostrarsi belli
agli occhi dei partner [europei, ndr], soprattutto
quando c’è un problema interno. Sembra cinico? Le cose stanno così”. L’ultima
volta che la procura ha detto che un “comandante dello Stato Islamico” era
stato arrestato durante un’operazione, si è scoperto che i DANS avevano epurato
degli informatori di cui non erano contenti. La motivazione di queste
operazioni plateali è profondamente connessa con la prassi menzionata sopra,
diffusa in alcuni corridoi del Ministero dell’Interno, di rilasciare documenti
in cambio di una percentuale sugli affari o del ricoprire il ruolo di talpa in
determinati ambienti. Per ottenere questi documenti molti sono disposti a
pedinare amici e colleghi, e quando diventano inutili vengono epurati con
queste operazioni. Una delle fonti che ha condiviso alcune delle informazioni
utilizzate per questo articolo, e che lavora per l’Agenzia statale per i
rifugiati e per la polizia, è stata molto chiara: “Se sei un arabo o
vieni dal Medio Oriente sei nelle nostre mani. Possiamo cacciarti quando
vogliamo, ma non lo facciamo perché puoi esserci utile. Se ti occupi di
compravendita di automobili sei un bersaglio ideale per noi. Come facciamo a
sapere che tu non stia vendendo ai jihadisti? Non serve che lo faccia davvero,
l’importante è che sembri plausibile che tu possa farlo”.
Processato per delle foto postate su Facebook: il caso del wrestler
Mohammed Abdulqader
Sembra che
questa logica si sia ripetuta anche nell’ultimo caso di questo tipo, risalente all’estate 2020. Il 1 luglio, alle 6 del
mattino, agenti mascherati dell’Agenzia di sicurezza nazionale bulgara hanno
fatto irruzione nel piccolo appartamento in cui si trovavano Anelia Petrova e
suo figlio Mohammed Abdulqader, nella città portuale di Burgas. Dopo
un’accurata perquisizione, hanno confiscato tutti i telefoni cellulari e i
computer portatili e hanno preso in custodia tutti i residenti: Petrova, suo
figlio, sua sorella e la sua famiglia. Poi sono stati tutti rilasciati, tranne
il 21enne Abdulqader, che è stato arrestato con l’accusa di terrorismo.
L’ufficio del procuratore specializzato ha detto che Abdulqader, un cittadino
bulgaro nato da madre bulgara e padre siriano, avrebbe partecipato ad “attività
terroristiche” in Siria. Come prova, i procuratori hanno fatto riferimento a
numerose foto dalla Siria che Abdulqader ha postato sui social media e
all’appartenenza di suo padre al gruppo armato Sultan Murad, operativo in
Siria. Il gruppo era affiliato all’Esercito Siriano Libero, sostenuto dalla
Coalizione Internazionale Amici della Siria, di cui la Bulgaria faceva parte.
Non sono state fornite altre prove, e la vita di un promettente atleta
(Abdulqader è un wrestler, tre volte vincitore del campionato nazionale
giovanile della Bulgaria) è stata così distrutta.
Abdulqader è
stata la prima persona processata in Bulgaria per “attività terroristica
all’estero” secondo l’articolo 108A del codice penale bulgaro. Il procuratore capo Ivan
Geshev ha riferito ai media che Abdulqader sarebbe stato “reclutato da suo padre, che è il leader
di un’organizzazione terroristica”. Nel frattempo, davanti alle telecamere
della televisione bulgara vari esperti hanno ipotizzato che
Abdulqader e suo padre siano coinvolti nelle attività dello Stato Islamico,
sebbene una delle quattro foto pubblicate
dall’accusa mostri
solo la bandiera rossa della divisione Sultan Murad. Anche se la Bulgaria è
vicina alla Siria e ha una significativa comunità musulmana che
costituisce più del 10% della popolazione (la più alta percentuale in uno stato membro
dell’Unione europea), non ha visto un gran numero di suoi cittadini viaggiare
in Siria e in Iraq per unirsi all’ISIS o ad altri gruppi armati. La Bulgaria
inoltre, a differenza di altre regioni dei Balcani, non ha una storia di attività legate al fondamentalismo islamico.
Il materiale di Al
Jazeera mostra chiaramente che le accuse non possono essere considerate
sostenute da prove serie e si basano sulle parole di un “testimone segreto”,
una pratica nota in altre azioni simili della procura.
I casi in
questione non fanno più parte del flusso di notizie. La Bulgaria ha vissuto
crisi interne e proteste contro il
governo di Boyko Borisov; sullo sfondo di questo, l’arresto di diverse persone di una nuova
minoranza non ha attirato attenzione né simpatia. Il fatto che si parli del
coinvolgimento delle agenzie di sicurezza dello stato rende i giornalisti
ancora più cauti nei confronti dell’argomento, che finiscono per abbandonarlo
in quanto secondario. Uno dei detenuti che abbiamo incontrato – rilasciato nel
2019 dopo mesi di prigionia – ci ha confidato: “Oggi siamo stati
arrestati noi, ma chi può garantire che questo non accadrà di nuovo o che a
essere arrestati in virtù di questa legislazione antiterrorismo non saranno dei
bulgari?”. In effetti, non ci sono garanzie.
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