mercoledì 21 luglio 2021

Rapimenti, abusi, corruzione: l’antiterrorismo ai confini d’Europa - Ruslan Trad

 

 

Tra il 2017 e il 2020 in Bulgaria sono state arrestate decine di persone durante retate antiterrorismo. I media si sono limitati a riportare le dichiarazioni ufficiali della procura, senza porre domande importanti sulla natura di queste operazioni. Ben presto l’interesse è svanito, mentre la vita degli arrestati è cambiata per sempre. Ad oggi, nessuna di queste persone risulta essere appartenente a gruppi legati all’estremismo islamico. Secondo una nostra fonte nella polizia bulgara, queste operazioni condotte tramite “testimoni segreti” “servono per farsi belli davanti ai partner internazionali”. Del resto si tratta di detenzioni finanziate anche con i fondi stanziati dall’UE. (English version)

 

Avete sentito parlare di un’operazione su vasta scala in cui la polizia bulgara ha arrestato 43 persone accusate di finanziare gruppi terroristici? Se non siete bulgari o non seguite le notizie sui Balcani, è molto improbabile. Nel gennaio 2019 è stata la notizia principale nei media locali per alcuni giorni, per poi finire presto nel dimenticatoio. Proprio come era accaduto con precedenti operazioni analoghe compiute dalle autorità bulgare contro presunti “terroristi”. Per diversi anni, tra il 2017 e il 2020, la procura bulgara ha condotto azioni antiterrorismo che hanno portato a una coltre di eventi poco chiari corredati da dichiarazioni fumose. Le autorità non ne vogliono parlare e non spiegano se le decine di arresti fossero dovute a un meticoloso lavoro di intelligence o se, al contrario, queste operazioni non fossero il risultato di un sistema corrotto, della decadenza delle agenzie di intelligence e di una prassi di abusi.

Il cane da guardia della Fortezza Europa, ignorato dai media europei

I Balcani entrano raramente nel flusso delle notizie globali, e se ciò accade è nel contesto di processi geopolitici più ampi. In fondo, un cittadino medio europeo avrebbe difficoltà a dire cosa sia successo recentemente nel versante sudorientale del continente. Le eccezioni potrebbero riguardare la Grecia, a causa del crollo finanziario, e probabilmente la Serbia, a causa del suo peso storico e politico. Per il resto i Balcani tendono a evocare il ricordo delle guerre jugoslave.

Dove si colloca la Bulgaria in questo contesto? Sofia rimane fuori dal più ampio dibattito sui Balcani. Una leggera inversione di tendenza c’è stata con le sporadiche proteste nel paese tra il 2013 e il 2020, e con l’evoluzione del complesso rapporto con la Macedonia del Nord. Sebbene dagli anni ’90 vi siano stati dei progressi, le istituzioni in Bulgaria, e soprattutto il sistema giudiziario, giacciono ancora nella corruzione e nel lobbismo. Durante questo periodo diversi governi – in primis quello del GERB, il partito dell’uscente premier Boyko Borisov – hanno realizzato delle riforme, che però si sono rivelate limitate e insufficienti e hanno provocato critiche da parte dell’UE.

La crisi dei rifugiati causata dalle massicce offensive militari in Siria e dalle repressioni del regime di Bashar al-Assad ha creato una situazione nuova per gli stati dell’Unione. Chi fugge dalla guerra cerca di raggiungere le coste europee attraverso il Mediterraneo o via terra lungo i confini Turchia-Bulgaria e Turchia-Grecia. I governi europei si sono dimostrati impreparati, mentre le ondate migratorie colpivano i paesi periferici come la Bulgaria.

 

La mancanza di politiche adeguate alle nuove sfide ha portato a un aumento del populismo e del nazionalismo; a Sofia, con le promesse di “affrontare l’invasione dei migranti”, dei gruppi xenofobi sono diventate parte del governo. Anche diversi altri paesi europei – che durante l’ondata di rifugiati del 2015-2016 erano in forte crisi interna – hanno registrato dinamiche simili. Ma la situazione nell’Europa sud-orientale è particolarmente emblematica. I governi locali usano le circostanze per dimostrare all’Europa di essere dei partner leali, in modo che Bruxelles possa fermare le critiche rivolte a loro. La protezione delle frontiere si sta rivelando però non solo un’opportunità politica, ma anche finanziaria, con le forze di polizia di frontiera che vengono rafforzate grazie ai fondi europei.

In questa atmosfera tesa, anche la lotta contro il terrorismo viene alla ribalta. Gli attacchi terroristici a Parigi e Bruxelles hanno sollevato sentimenti anti-immigrati che le élite politiche non sempre cercano di contrastare; anzi, si rivelano una buona opportunità per rafforzare i consensi elettorali. E sebbene vi sia un pericolo reale di radicalismo e terrorismo, il rischio effettivo non è lo stesso in ogni paese. In Bulgaria, dove questa possibilità è significativamente più bassa rispetto alla Francia, decine di persone sono state arrestate con l’accusa di essere legate ad attività terroristiche senza alcuna prova credibile diffusa dall’intelligence. Gli arresti di massa del 2019 citati a inizio articolo sono indicativi e mostrano ancora una volta perché sia necessario concentrarsi più spesso sulla regione. Dall’ufficio del procuratore non è trapelata alcuna informazione significativa, nonostante ben cinque persone arrestate siano rimaste successivamente in custodia. I media hanno riportato le dichiarazioni ufficiale della procura senza porre domande importanti sulla natura delle operazioni. In pochi giorni l’interesse è svanito, mentre la vita di una decina di persone è cambiata per sempre.

Sei siriano e vendi automobili? Questo basta per sbatterti in galera

Anche quel poco che è stato mostrato finora è insufficiente e discutibile quale base per una seria operazione antiterrorismo. In questo caso, come nei precedenti arresti dello stesso tipo, la trasparenza non fa parte del modo di operare dell’accusa. Possiamo fare un paragone con le cause contro gli autori degli attentati di Bruxelles e Parigi, così come gli arresti in altre parti d’Europa dove la polizia ha sempre preferito mostrare il più possibile e tempestivamente i dettagli delle operazioni, anche per non provocare speculazioni. Nei casi bulgari viene a mancare tutto questo, probabilmente perché non si tratta di vere operazioni contro il terrorismo. Delle cinque persone mostrate in televisione, due sono siriani con cittadinanza bulgara—un curdo e un arabo con posizioni riconducibili all’opposizione. Entrambi godono di una buona reputazione nelle rispettive comunità, vivono in Bulgaria da molto tempo e non hanno avuto precedenti penali. Dalle informazioni ufficiali non si evince in modo chiaro quali (e di quali paesi) siano questi gruppi che i detenuti avrebbero finanziato. Abbiamo incontrato i familiari di alcune delle persone arrestate, per capirne di più; si sono però rifiutati di fornire ulteriori informazioni sul caso, per timore di subire ritorsioni dalle autorità.

La maggior parte degli arrestati è stata rilasciata entro 24 ore. Come accennato, cinque persone sono però rimaste in custodia, con un sesto elemento ricercato. Questo sesto uomo – anch’egli di origine siriana – si trovava in Turchia al momento delle retate. Tornato in Bulgaria volontariamente, ha quindi informato la polizia che avrebbe incontrato le forze dell’ordine se necessario. Questa parte della storia non è stata affatto riportata dai media locali. Ricordo ancora che i detenuti sono stati dichiarati “sponsor del terrorismo” e potenzialmente in connessione con Al Qaeda. Secondo fonti interne ai servizi segreti bulgari, gli altri detenuti erano coinvolti nella vendita di automobili in Siria, e questo è il motivo principale che ha portato alle accuse. La vendita di automobili non è un’attività illegale in sé, ma ha attirato l’attenzione dei media e delle autorità dopo lo scoppio della guerra civile. Per quasi quattro anni, c’è stata una forte rete di rivenditori di auto che vendevano vecchie auto di immatricolazione bulgara in Siria, transitando dalla Turchia. Alcune di queste auto sono diventate note per essere state usate in attacchi da gruppi legati ad al Qaeda e allo Stato Islamico.

 

“Sappiamo che due di loro [i detenuti, nda] sono stati accusati di vendere automobili”, dichiara T.H., una nostra fonte all’interno di una delle agenzie di sicurezza legate alla polizia. “È un campo minato, basta un passo falso e tutto salta in aria. Ma sappiamo tutti che questo commercio va avanti da anni”. In realtà, il venditore non ha idea di chi sia l’acquirente dell’auto; una volta avvenuta la transazione, il veicolo viene consegnato al confine e, attraverso degli intermediari, può arrivare nelle mani di chiunque. Anche molti bulgari sono coinvolti in questo traffico di auto, non solo i siriani; nessun bulgaro è stato però arrestato finora – perlomeno, nessuno che non appartenesse alla comunità rom, o che non fosse di origine straniera – nonostante siano state vendute migliaia di auto dirette in Siria. Per quattro anni, questo commercio è andato a gonfie vele senza alcun intervento del governo. Cosa ha portato allora agli arresti all’inizio del 2019? Secondo le informazioni rivelateci dal nostro contatto nelle forze di sicurezza, si tratterebbe di uno specchietto per le allodole già utilizzato due anni prima in un arresto simile e legato all’epurazione degli informatori “disobbedienti” da parte del principale servizio di intelligence bulgaro, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale. Il caso del cosiddetto “comandante dello Stato Islamico”, arrestato a gran voce a Sofia nel 2017 e poi tranquillamente rilasciato otto mesi dopo il suo arresto, è emblematico. L’uomo ha in seguito intentato una causa contro la Bulgaria per l’intera operazione e per essere stato prelevato davanti agli occhi della sua famiglia. La nostra fonte all’interno dei servizi di sicurezza ha aggiunto che i media non hanno mostrato alcun interesse per il caso in sé, se non per gli aspetti scandalistici della storia.

Reclutati con l’estorsione, “eliminati” perché scomodi

Alla fine del 2017, le autorità bulgare annunciarono di aver sgominato una cellula terroristica. Il caso aveva guadagnato popolarità internazionale, seppur non erano stati rivelati i dettagli dell’operazione. In seguito, si è scoperto che non si trattava di un gruppo catturato dalla polizia, ma di un uomo siriano con cittadinanza bulgara. Ahmed, questo il suo nome, era tornato in Siria nel 2013 e, secondo le accuse, sarebbe diventato parte dello Stato Islamico. Successivamente, ha aggiunto la procura, avrebbe anche assunto funzioni “di comando” nel gruppo. È interessante notare che questo fantomatico “comandante dell’ISIS” è un commerciante di tabacco per narghilè, attività su cui nessuno ha mai fatto mistero. Il suo rilascio – avvenuto dopo otto mesi – non è stato affatto coperto dai media. La domanda logica è: perché una persona presumibilmente associata allo Stato Islamico viene rilasciata in un periodo così breve? Secondo M.E., un nostro contatto in una delle agenzie di intelligence di Sofia, la risposta è che Ahmed non avrebbe nulla a che fare con lo Stato Islamico, ma che la stessa Agenzia statale per la sicurezza nazionale l’avrebbe inviato nella città di Jarablus, in Siria, per un’operazione poi rivelatasi fallimentare. I problemi di Ahmed sarebbero iniziati dopo che l’agente incaricato alla sua sorveglianza lo avrebbe accusato di condividere con gli amici dettagli sull’operazione. “Quello che è stato arrestato era un informatore della DANS (l’agenzia di sicurezza nazionale bulgara, nda). Lo sapevamo tutti”, aggiunge M.E. “Il problema è che parlava molto”.

All’epoca a cui risalgono gli avvenimenti, i servizi di sicurezza in Bulgaria erano soliti rivolgersi a membri della comunità araba locale per questo genere di incarichi. In cambio di alcuni favori ovviamente, il più delle volte legati all’ottenimento di documenti e alla possibilità di condurre senza impedimenti i propri affari. È un segreto di Pulcinella che un certo numero di negozi arabi a Sofia esistano in virtù di una “percentuale” richiesta da membri corrotti delle forze di sicurezza. Questa pratica è legata al problema del rilascio di documenti a persone provenienti dal Medio Oriente. Ufficialmente, chiunque soddisfi i criteri di base per acquisire la residenza permanente può ottenere i relativi documenti. Nella realtà dei fatti, le cose sono molto diverse. Le autorità possono espellere chiunque vogliano e, secondo una fonte dell’Agenzia di Stato per i Rifugiati presso il Consiglio dei Ministri, le autorità bulgare rifiutano deliberatamente di accettare documenti di siriani, iracheni e afghani. Il motivo per cui esistano tali disposizioni interne non è chiaro, ma è probabilmente legato alle politiche per limitare il flusso di migranti verso la Bulgaria.

 

Alcuni rappresentanti della comunità araba sostengono che per rilasciare una carta d’identità il Ministero degli Interni richieda dei contributi addizionali non previsti dalla legge. A volte, il prezzo da pagare è diventare un informatore. In questo modo, sia la polizia che i servizi di sicurezza creano una vasta rete di persone ad essi affiliate che non solo monitorano le rispettive comunità, ma che sono anche a capo di attività commerciali. Bisogna dire che in Bulgaria la legislazione antiterrorismo è a un livello embrionale ed è stata creata rapidamente sullo sfondo degli attacchi di Parigi e Bruxelles. Secondo queste leggi, una persona accusata di terrorismo può rimanere in custodia speciale per otto mesi senza andare a processo. Questo periodo può essere esteso per altri otto mesi a discrezione delle autorità. Per l’espletamento di queste prassi, le agenzie di sicurezza e i tribunali coinvolti ricevono finanziamenti aggiuntivi, erogati sia dallo stato bulgaro che dall’Unione europea. Il tribunale ha rifiutato di ascoltare i casi contro i detenuti a causa di prove insufficienti; tuttavia, l’accusa non ha descritto questo nelle informazioni pubbliche.

Hawala, l’antichissima tradizione araba bersagliata dai segugi dell’antiterrorismo

Torniamo agli arresti del gennaio 2019. Come nel caso del presunto “comandante dello Stato Islamico” arrestato nel 2017, anche dopo le retate del 2019 sono apparse in televisione numerose analisi su cosa fosse successo e chi fossero le persone coinvolte. Il livello di molti esperti di sicurezza era piuttosto basso, dato che alcuni degli interlocutori non sapevano nemmeno pronunciare la parola hawala, un antico sistema mediorientale di trasferimento informale di valori che i detenuti usavano per trasferire denaro e a causa del quale sono stati accusati di finanziare gruppi terroristici. In quel periodo furono pubblicati diversi articoli sulla questione, e il pubblico bulgaro apprese per la prima volta questa strana parola. La parola hawala è diventata nota a osservatori e analisti esterni solo negli ultimi decenni, con l’ascesa di al Qaeda e poi dello Stato Islamico. In realtà, però, si tratta di una tradizione secolare. Il sistema permette il trasferimento di denaro, ma senza le tracce tipiche di un vero e proprio trasferimento bancario. Quest’ultimo è anche il motivo principale per cui le organizzazioni terroristiche usano l’hawala. Il sistema fa parte della vita quotidiana di molte persone in Medio Oriente e chiunque abbia viaggiato in questa regione del mondo vi è entrato in contatto, in un momento o nell’altro. Diffusosi dall’VIII secolo tra i commercianti che viaggiavano sulla Via della Seta, la hawala continua a esistere ancora oggi ed è uno dei metodi più comuni con cui la popolazione locale in vari territori – dall’Africa al sud-est asiatico – trasferisce denaro a parenti, partner commerciali o per uso personale. Per esempio, secondo il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e il Governo pakistano, i fondi che entrano in Pakistan mediante la hawala sono stimati a quasi 7 miliardi di dollari ogni anno. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato del 2015, in Afghanistan circa il 90% delle transazioni finanziarie sono alimentate dalle reti hawala.

 



Negli ultimi anni, il pubblico bulgaro ha sentito più volte parlare di queste operazioni “anti-terrorismo” sotto la supervisione dell’Agenzia per la Sicurezza dello Stato e degli uffici del Procuratore Generale. Quante di queste azioni sono dirette contro persone che sono una minaccia reale e sono membri provati di gruppi radicali? Finora, nessuna. Il risultato rimane sempre nell’ombra, così come le vere ragioni degli arresti. T.H., una delle nostre fonti nella polizia, offre comunque una possibile ragione: “A volte serve mostrarsi belli agli occhi dei partner [europei, ndr], soprattutto quando c’è un problema interno. Sembra cinico? Le cose stanno così”. L’ultima volta che la procura ha detto che un “comandante dello Stato Islamico” era stato arrestato durante un’operazione, si è scoperto che i DANS avevano epurato degli informatori di cui non erano contenti. La motivazione di queste operazioni plateali è profondamente connessa con la prassi menzionata sopra, diffusa in alcuni corridoi del Ministero dell’Interno, di rilasciare documenti in cambio di una percentuale sugli affari o del ricoprire il ruolo di talpa in determinati ambienti. Per ottenere questi documenti molti sono disposti a pedinare amici e colleghi, e quando diventano inutili vengono epurati con queste operazioni. Una delle fonti che ha condiviso alcune delle informazioni utilizzate per questo articolo, e che lavora per l’Agenzia statale per i rifugiati e per la polizia, è stata molto chiara: “Se sei un arabo o vieni dal Medio Oriente sei nelle nostre mani. Possiamo cacciarti quando vogliamo, ma non lo facciamo perché puoi esserci utile. Se ti occupi di compravendita di automobili sei un bersaglio ideale per noi. Come facciamo a sapere che tu non stia vendendo ai jihadisti? Non serve che lo faccia davvero, l’importante è che sembri plausibile che tu possa farlo”.

Processato per delle foto postate su Facebook: il caso del wrestler Mohammed Abdulqader

Sembra che questa logica si sia ripetuta anche nell’ultimo caso di questo tipo, risalente all’estate 2020. Il 1 luglio, alle 6 del mattino, agenti mascherati dell’Agenzia di sicurezza nazionale bulgara hanno fatto irruzione nel piccolo appartamento in cui si trovavano Anelia Petrova e suo figlio Mohammed Abdulqader, nella città portuale di Burgas. Dopo un’accurata perquisizione, hanno confiscato tutti i telefoni cellulari e i computer portatili e hanno preso in custodia tutti i residenti: Petrova, suo figlio, sua sorella e la sua famiglia. Poi sono stati tutti rilasciati, tranne il 21enne Abdulqader, che è stato arrestato con l’accusa di terrorismo. L’ufficio del procuratore specializzato ha detto che Abdulqader, un cittadino bulgaro nato da madre bulgara e padre siriano, avrebbe partecipato ad “attività terroristiche” in Siria. Come prova, i procuratori hanno fatto riferimento a numerose foto dalla Siria che Abdulqader ha postato sui social media e all’appartenenza di suo padre al gruppo armato Sultan Murad, operativo in Siria. Il gruppo era affiliato all’Esercito Siriano Libero, sostenuto dalla Coalizione Internazionale Amici della Siria, di cui la Bulgaria faceva parte. Non sono state fornite altre prove, e la vita di un promettente atleta (Abdulqader è un wrestler, tre volte vincitore del campionato nazionale giovanile della Bulgaria) è stata così distrutta.

Abdulqader è stata la prima persona processata in Bulgaria per “attività terroristica all’estero” secondo l’articolo 108A del codice penale bulgaro. Il procuratore capo Ivan Geshev ha riferito ai media che Abdulqader sarebbe stato “reclutato da suo padre, che è il leader di un’organizzazione terroristica”. Nel frattempo, davanti alle telecamere della televisione bulgara vari esperti hanno ipotizzato che Abdulqader e suo padre siano coinvolti nelle attività dello Stato Islamico, sebbene una delle quattro foto pubblicate dall’accusa mostri solo la bandiera rossa della divisione Sultan Murad. Anche se la Bulgaria è vicina alla Siria e ha una significativa comunità musulmana che costituisce più del 10% della popolazione (la più alta percentuale in uno stato membro dell’Unione europea), non ha visto un gran numero di suoi cittadini viaggiare in Siria e in Iraq per unirsi all’ISIS o ad altri gruppi armati. La Bulgaria inoltre, a differenza di altre regioni dei Balcani, non ha una storia di attività legate al fondamentalismo islamico. Il materiale di Al Jazeera mostra chiaramente che le accuse non possono essere considerate sostenute da prove serie e si basano sulle parole di un “testimone segreto”, una pratica nota in altre azioni simili della procura.

 

I casi in questione non fanno più parte del flusso di notizie. La Bulgaria ha vissuto crisi interne e proteste contro il governo di Boyko Borisov; sullo sfondo di questo, l’arresto di diverse persone di una nuova minoranza non ha attirato attenzione né simpatia. Il fatto che si parli del coinvolgimento delle agenzie di sicurezza dello stato rende i giornalisti ancora più cauti nei confronti dell’argomento, che finiscono per abbandonarlo in quanto secondario. Uno dei detenuti che abbiamo incontrato – rilasciato nel 2019 dopo mesi di prigionia – ci ha confidato: “Oggi siamo stati arrestati noi, ma chi può garantire che questo non accadrà di nuovo o che a essere arrestati in virtù di questa legislazione antiterrorismo non saranno dei bulgari?”. In effetti, non ci sono garanzie.


da qui

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