Il salto
maledetto di Elena Mukhina - Giuseppe Ottomano
“Elena Mukhina sarà la prossima campionessa
olimpica. Ha i nervi d’acciaio e la grazia di un’amazzone.”
(Nadia Comaneci, a margine dei Campionati Mondiali di Ginnastica
di Strasburgo, Ottobre 1978)
Il salto Thomas è probabilmente
la più spettacolare acrobazia nella disciplina ginnica del corpo libero,
e consiste in una rotazione aerea di 540 gradi. In parole
più povere, è un salto mortale e mezzo all’indietro. La sua
denominazione trae origine dal ginnasta statunitense Kurt Thomas, che lo
ha effettuato per la prima volta in una competizione ufficiale nel
1978, durante i campionati mondiali di Strasburgo.
E ancora oggi si può ammirare questo
funambolismo durante le gare di ginnastica maschili, mentre da
quelle femminili è stato bandito sin dai primi anni ottanta per la sua
intrinseca pericolosità. Infatti, per le
atlete donne, dotate naturalmente di una maggiore
flessibilità articolare, che rende i loro movimenti più plastici ed
eleganti, ma prive della potenza muscolare necessaria, questo può trasformarsi
in una trappola micidiale.
Proprio il salto Thomas doveva
essere l’asso nella manica di Elena Mukhina per conquistare una medaglia d’oro
alle Olimpiadi di Mosca del 1980. E di una vittoria immortale Elena
Mukhina, chiamata più amichevolmente Lena, aveva tutte le ragioni per
sentirne il bisogno.
Sarebbe stata innanzitutto un’occasione di riscatto
per un’esistenza che non era cominciata sotto il segno della fortuna. Nata
a Mosca nel 1960, ad appena tre anni aveva smarrito ogni traccia del
padre, che se ne era andato via di casa per formarsi una nuova famiglia.
E, solo due anni dopo, aveva perso anche la madre,
morta nell’incendio del proprio appartamento. Scampata quasi
miracolosamente, la piccola Lena era stata cresciuta dalla nonna
materna, Anna.
Costituzionalmente predisposta verso lo sport, durante
i primi anni di scuola si impegna soprattutto nel pattinaggio su ghiaccio e
nella ginnastica, entrambi popolarissimi tra le ragazze dell’Unione Sovietica
(le giovani iscritte alla sola federazione nazionale di ginnastica erano
700mila negli anni settanta). Ma la vera svolta nella sua vita arriva nel 1972,
quando una delle numerose cacciatrici di talenti sportivi, che battevano in
lungo e in largo l’intero paese, si presenta alla sua scuola durante la lezione
di educazione fisica.
La dodicenne Lena riesce a fare un’ottima impressione
sulla selezionatrice, e viene immediatamente ingaggiata dalla Dinamo di Mosca.
E, quando nel 1974 il suo istuttore, Alexander Eglit, si trasferisce alla
CSKA di Mosca (la rappresentativa dell’Armata Rossa), la porta con sé, per
affidarla poi ad uno dei più blasonati esperti di ginnastica
artistica dell’URSS, Mikhail Klimenko, fratello del campione olimpico
di Monaco 1972, Viktor.
Klimenko, che in anni recenti diventerà noto
in Italia come il preparatore dell’olimpionico di Atene 2004 Igor Cassina, fino
a quel momento aveva allenato solamente gli atleti delle squadre maschili. E,
nonostante con la sensibilissima Lena adotti spesso delle maniere da
caserma, crede con convinzione nelle sue capacità. Si dedica così alla
sua carriera, mettendo da parte i ginnasti uomini. E, dopo averla
sottoposta scientificamente a cicli di esercizi di circa otto ore quotidiane
per sei giorni alla settimana, tanto che il circolo sportivo della CSKA
diventerà di fatto la nuova casa di Lena, in meno di due anni la
trasforma in un’atleta di livello nazionale.
Ma contemporaneamente ai progressi atletici, arrivano
a grappolo anche i primi infortuni. Durante il proprio esercizio di corpo
libero alle Spartachiadi del 1975 a Leningrado, Lena cade malamente di testa.
Viene portata in ospedale, dove le radiografie rileveranno una piccola lesione
alle vertebre cervicali. Però, nonostante le venga prescritta una lunga
convalescenza, la sua attività sportiva non viene interrotta. E tutti i
giorni riceve la visita di Klimenko, che dopo averle fatto togliere il collare
ortopedico, la accompagna alla palestra dell’ospedale, per farla allenare fino
a sera. Lena è incondizionatamente succube del carattere autoritario del
proprio allenatore, e cerca di dare sempre il meglio di sé, anche in condizioni
proibitive. Dolorante per l’incidente, non riesce a muovere
completamente il collo, e le sue articolazioni sono indolenzite. Ma per
non sentire il dolore, annusa dell’ammoniaca, e si ributta a capofitto negli
esercizi.
Le Olimpiadi di Montreal 1976 si
avvicinano. Ma nonostante quell’anno Elena Mukhina avesse
conquistato il titolo sovietico juniores, non verrà selezionata nella
squadra olimpica. Infatti, secondo i dirigenti di ginnastica, benché
sedici anni non siano più un’età giovanissima per il suo sport, difetta
ancora di mancanza di esperienza.
I suoi trionfi, comunque, sono appena
rimandati. Nell’estate del 1977 debutta in campo internazionale al meeting
di Parigi. E già nell’agosto dello stesso anno, dopo essere entrata
in gara come riserva, conquista tre titoli ai Campionati Europei di Praga:
alle parallele asimmetriche, alla trave e al corpo libero. I giornalisti delle
principali testate sportive del mondo si interessano a lei. I
suoi enormi occhi e la sua corporatura minuta (è alta 152 cm per 41 kg)
la fanno assomigliare più a una bambina che ad una adolescente
quale è. E per la sua timidezza e l’espressione malinconica, con cui
accompagna le proprie prime esibizioni, gli stessi giornalisti la soprannominano
“la ragazza dal viso ghiacciato“. Infatti, il suo volto
si apre raramente ad un sorriso, e per ovviare a questo inconveniente, dovrà
ricorrere all’ausilio di una insegnante di balletto per assumere una maggiore
espressività artistica.
Il 1978 è il suo vero anno di grazia. Sbaraglia prima
tutte le avversarie ai campionati nazionali. E durante i Campionati Mondiali di
Clermont Ferrand oscura le stelle di Nadia Comaneci e della sua connazionale
Nelli Kim, le reginette della ginnastica femminile di quel
periodo. Malgrado un altro fastidioso infortunio, questa volta alla
caviglia, con la sua plasticità, la sua grazia, e la spettacolarità dei suoi
movimenti, conquista il pubblico e la giuria, aggiudicandosi sia il
titolo assoluto, che quello nel corpo libero. Alla sua altra specialità
delle parallele asimmetriche, invece, deve accontentarsi della medaglia
d’argento. Ma, dietro l’ispirazione dell’omnipresente Klimenko, inventa
una rotazione acrobatica, che sarà intitolata a suo nome.
Lena comincia a sognare le Olimpiadi di Mosca, per le
quali viene data come favorita per la vittoria finale. Ma il 1979 le porta una
battuta d’arresto. Infatti, dopo essere stata estromessa dal podio alle
Spartachiadi di Mosca, subisce un infortunio più serio del solito durante una
tournée autunnale in Gran Bretagna, fratturandosi la caviglia. Per
questo, sarà costretta a rinunciare ai campionati del mondo di Forth
Worth, negli Stati Uniti, in dicembre. I medici le
consigliano di abbandonare lo sport. Ma il suo allenatore non vuole
sentire nemmeno pronuciare la parola ritiro. Elena
Mukhina è l’unica atleta della CSKA in grado di ambire ad una
medaglia olimpica, e come tale, non la si può lasciare andar via. Così, si
lascerà convincere a proseguire, e osserverà un severissimo programma di
recupero per ritornare in forma prima delle olimpiadi del 1980.
Quando però arriva l’estate olimpica, non è
ancora al massimo della condizione, e la frattura alla caviglia non
si è ancora perfettamente cicatrizzata. I dirigenti sovietici di
ginnastica sono indecisi se convocarla o lasciarla a casa. E Mikhail Klimenko
si precipita a Mosca a perorare la sua causa.
Nel frattempo Lena continua ad allenarsi insieme alle
altre ginnaste dello squadrone sovietico nel ritiro di Minsk. Il suo umore
non è dei migliori, e, come confiderà nel 1990 al quotidiano Sovetsky Sport:
In quei giorni mi sentivo terribilmente stanca. Le
interminabili sessioni di allenamento mi estenuavano, e non mi sentivo convinta
di partecipare ai Giochi. Il mio allenatore però non tollerava incertezze. E
per qualche attimo ho pensato che, se mi fossi infortunata, almeno, tutti quei
sacrifici sarebbero finiti.
Ma esteriormente la sua volontà sembra
inattaccabile. E il 3 luglio 1980, appena due settimane prima dell’inizio
delle Olimpiadi, nel Palazzo dello Sport di Minsk, senza pubblico,
senza giornalisti e senza fotografi, come prevedeva il rigido protocollo
delle sessioni di allenamento in Unione Sovietica, prova l’esecuzione
del Salto Thomas.
Ma la sua caviglia, non ancora ristabilita, non
le permette di staccare con la dinamicità necessaria ad un salto mortale e
mezzo all’indietro. La rotazione del corpo a 540 gradi non si completa, e Lena
cade rovinosamente con il mento sul tappeto della pedana. Un medico
presente interviene immediatamente, e le misura la pressione del sangue. Ma la
lancetta dello sfigmomanometro rimane inchiodata sullo zero.
Anni dopo Lena Mukhina ricorderà che prima di perdere
conoscenza, aveva sentito un dolore terribile:
Avrei voluto alzarmi e passarmi una mano
sulla testa, ma non riuscivo. Avrei voluto gridare, ma non avevo più voce. In
quel momento ho pensato che fosse la fine.
Viene portata d’urgenza in ospedale, prima a Minsk e
poi all’ospedale militare di Mosca. Ma è il mese di luglio, e tutti i chirurghi sono
in ferie. E soltanto tre giorni dopo potrà essere eseguita
l’operazione che le salverà la vita. La diagnosi, però, è peggio
di una sentenza: frattura del rachide cervicale, ovvero la paralisi dal
collo in giù.
Come anche in altre occasioni, lo sclerotico sistema
sovietico non fornisce nessuna notizia del suo incidente. Ma in occidente
trapela ugualmente qualche confusa informazione. La televisione
danese riporta la morte di Elena Mukhina in seguito ad una caduta
dalle parallele asimmetriche. E il perseverante silenzio della
stampa d’oltrecortina sembra accreditare questa ipotesi, finché,
intervistato da una televisione statunitense, il 20 luglio
1980 l’allenatore della squadra sovietica di ginnastica, Yuri Titov,
plurimedagliato di Melbourne 1956 e Roma 1960, provvede alla smentita:
Anche se quest’incidente non le permetterà di
partecipare alle Olimpiadi, Elena Mukhina si riprenderà di
certo in breve tempo. Proprio questa mattina l’ho chiamata per telefono
all’ospedale, e lei mi ha detto di mandare i suoi auguri alle compagne di
squadra. Tutte le indiscrezioni di stampa sulla gravità del suo infortunio
non sono per niente vere. Infatti lei è viva, e in questi giorni
guarda spesso i programmi di sport alla televisione.
Le dichiarazioni di Titov inaugurano una lunga
sequenza di bugie e mezze verità sullo stato di salute di Lena, che si
trascineranno per un paio d’anni ancora. In realtà Lena non puo parlare al
telefono, dato che soltanto un anno dopo recupererà l’uso della parola.
E mentre nell’aprile 1981 l’agenzia Tass riferisce
di una sua “ripresa quasi miracolosa“, solo un mese dopo, a
maggio, il nuovo allenatore della squadra femminile sovietica di
ginnastica, Amad Shahijasov, messo alle strette da un giornalista di El Mundo Deportivo, si lascia scappare che l’ex
campionessa “è relegata su una sedia a rotelle“.
Ma neppure la “gaffe” del tecnico
(sempre che dire la verità si possa definire una ”gaffe“) riesce a fermare i comunicati
sibillini della Tass, che nel luglio 1981, riporta:
Dopo tre mesi di convalescenza in un sanatorio in
Crimea, Elena Mukhina, le cui condizioni sono notevolmente migliorate, è
ritornata a Mosca, dove sta frequentando l’Istituto Superiore di
Educazione Fisica.
Probabilmente gli organi di stampa sovietici avrebbero
potuto andare avanti con questo tragico gioco a nascondino fino all’arrivo
della Perestrojka, se non fosse stato per il presidente del
Cio, Juan Antonio Samaranch, che aveva espresso il
desiderio di fare visita ad Elena Mukhina, per consegnarle la medaglia
d’argento al merito olimpico. E il 20 dicembre 1982, in presenza di una piccola
troupe di giornalisti e fotografi, il velo di omertà sulle sue condizioni viene
drammaticamente squarciato. Lena è faticosamente seduta su una sedia a rotelle,
ed il suo corpo è completamente immobile, fatta eccezione per un debole
soffio di vita che passa ancora attraverso i suoi gomiti. La forzata
permanenza a letto la ha fatta crescere innaturalmente di sette centimetri, ed
anche il suo viso non dimostra più che una pallida somiglianza
con quello della graziosissima campionessa di ginnastica di soli due
anni prima.
Ma Lena non si perde d’animo. E continua a sperare di
recuperare almeno una parte delle proprie funzioni. Dopo essere riuscita a
laurearsi in Educazione Fisica, grazie ad un impegno sovrumano ed all’aiuto
degli insegnanti, venuti a darle lezioni a domicilio, a metà degli anni
ottanta si affida alle cure di Valentin Dikul, un ex artista circense,
diventato poi fisioterapista di discussa fama mondiale. Il sistema Dikul si basava su un lungo ciclo di
allenamenti con l’appoggio di pesi sugli sparuti muscoli ancora
funzionanti, e una riattivazione graduale di quelli inattivi,
mediante una stimolazione continua.
Lena coltiva una grande speranza in questa
nuova terapia. Ma pochi anni dopo sarà costretta ad interromperla, in
quanto si rivelerà gravemente dannosa nei confronti dei suoi reni.
Eppure, nemmeno questa sconfitta le farà perdere la voglia di vivere. E durante
i ventisei anni di immobilità (è morta alla fine del 2006, per un attacco
cardiaco, conseguente alla propria condizione di tetraplegica), dal proprio
nuovo grande appartamento di Mosca, concessole dallo stato, probabilmente
gravido di sensi di colpa per la sua situazione, riesce a continuare a
vivere un’esistenza relativamente attiva.
Ancora accudita dalla affezionatissima e sempre
più anziana nonna Anna, e negli ultimi anni anche dalla sua ex
compagna di squadra, Elena Gurina, ha dettato articoli in veste
di giornalista esperta di ginnastica; ha condotto, per quanto possibile, una
vita sociale, ricevendo pochi, ma fedelissimi amici; si è
occupata di parapsicologia, filosofia e astrologia. E poco
prima di morire, si è avvicinata anche alla fede religiosa, forse
aspettando sempre un miracolo che non sarebbe mai arrivato.
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