Un rinnovato movimento
nazionale palestinese potrebbe ribaltare lo status quo.
L’intensa ondata di violenza in Israele e Palestina a maggio ricorda
episodi simili degli ultimi decenni. Ma ha anche diversi tratti
distintivi, primo fra tutti la ritrovata unità dei Palestinesi ovunque. I
Palestinesi si sono sollevati insieme contro le divisioni che Israele ha
imposto loro e contro quelle create dalla miope partigianeria dei loro
leader. Hanno organizzato manifestazioni in tutto il paese in risposta
alla repressione israeliana nel quartiere di Sheikh Jarrah e alla moschea di al
Aqsa a Gerusalemme e ai bombardamenti su Gaza che hanno ucciso oltre 250
persone. Israele ha cercato di reprimere queste proteste, portando a
esplosioni di violenza di massa dirette principalmente contro i Palestinesi
nelle città che si trovano all’interno di Israele come Acri, Haifa e
Jaffa. Le forze israeliane hanno ucciso decine di manifestanti palestinesi
in Cisgiordania. Poi, il 18 maggio, i Palestinesi di Gaza, della
Cisgiordania e di Gerusalemme Est, all’interno di Israele e nelle comunità
della diaspora in Libano, Giordania e altrove, hanno organizzato uno sciopero
generale, il primo a coinvolgere tutta la Palestina storica dallo sciopero
generale di sei mesi del 1936.
Tuttavia, le carte in tavola rimangono sfavorevoli per i Palestinesi, e il
nuovo governo israeliano non sembra più propenso del precedente a porre fine ai
suoi abusi e alle politiche che hanno reso remota ogni prospettiva di una
soluzione politica giusta e accettabile. Ma il fermento di una nuova
generazione di Palestinesi offre qualche motivo di speranza. Un movimento
nazionale palestinese rianimato può fare a meno dei postulati e dei fallimenti
delle generazioni precedenti e chiarire, con le sue azioni e i suoi messaggi,
che lo status quo non è più sostenibile.
Cambio di corso
Per anni, esperti e politici hanno dichiarato che i Palestinesi erano
sconfitti e demoralizzati e che la loro causa aveva perso
visibilità. L’amministrazione del presidente USA Donald Trump ha tradotto
questa visione in politiche anti-palestinesi ancor più brutali delle precedenti. Quest’idea
che i Palestinesi potevano essere tranquillamente dimenticati è stata anche
alla base della normalizzazione delle relazioni tra Israele e quattro paesi
arabi nel 2020. Ma la rivolta in Cisgiordania, lo sciopero generale in tutto il
paese e la solidarietà della diaspora palestinese hanno prodotto un chiaro
messaggio: i Palestinesi non possono essere ignorati.
Anche la copertura mediatica occidentale degli eventi di maggio si è discostata dalla
norma. Per una volta, emittenti e giornali non hanno ripetuto ciecamente
il discorso israeliano sul lancio indiscriminato di razzi terroristici
palestinesi contro i civili israeliani, affermando che i provocatori e i
colpevoli sono i Palestinesi, una litania che tali media invocano ritualmente
non appena viene lanciato il primo razzo di Hamas, cancellando 54 anni di
occupazione militare israeliana e 73 anni di espropriazione ai danni dei
Palestinesi. Invece, proprio questi storici modelli di cronica ingiustizia
e abuso sono apparsi in modo prominente sia nei media tradizionali che nei
social media. Ad esempio, molti articoli hanno spiegato che le famiglie di
Sheikh Jarrah previste per lo sgombero da parte dei coloni ebrei con il
sostegno delle forze di sicurezza israeliane erano rifugiati sfollati dalle
città di Acri e Haifa nel 1948. I resoconti dei media hanno anche notato che
sebbene gli Ebrei israeliani siano autorizzati a rivendicare proprietà nella
Gerusalemme est araba occupata e nella Cisgiordania, ai Palestinesi è vietato
fare rivendicazioni analoghe su qualsiasi delle loro numerose proprietà
confiscate da Israele in tutto il paese negli ultimi settant’anni.
Accanto a questo risveglio dei media, le persone in Occidente sembravano
più consapevoli delle vere politiche messe in atto in
Palestina. Naturalmente gli apologeti di Israele a Washington, Londra e
Berlino hanno tirato fuori i cliché standard sul diritto di Israele
all’autodifesa, ma non hanno potuto mascherare il cambiamento di tono sia
nell’arena politica che nelle grandi manifestazioni a sostegno dei Palestinesi
in Australia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti e altrove. Forse per la
prima volta, il discorso pubblico in tutti e quattro questi paesi (che
condividono un’eredità di espropriatori dei popoli indigeni) ha caratterizzato
la discussione sulla natura colonialista di generazioni di politiche israeliane
nei confronti dei Palestinesi. Gli attivisti hanno rafforzato le analogie
con l’oppressione evidenziata dal movimento Black Lives Matter e molti giovani
americani ora collegano l’ingiustizia che hanno visto in luoghi come Ferguson,
nel Missouri, a ciò che hanno visto a Sheikh Jarrah e in altri luoghi in cui le
forze di sicurezza usano gli stessi gas lacrimogeni made in USA e le stesse
tattiche militarizzate di polizia.
Naturalmente, anche in precedenza ci sono stati cambiamenti nella copertura
mediatica e nell’opinione pubblica che sembravano oscillare a favore dei
Palestinesi, e quindi non ci si può aspettare necessariamente qualche
significativo cambiamento politico. Ad esempio, tali cambiamenti si sono
verificati al tempo dell’assedio israeliano di Beirut nel 1982, durante la
feroce repressione della prima Intifada disarmata iniziata nel 1987, e durante
le tre guerre di Israele contro la Striscia di Gaza dal 2008 al 2014 (l’ultima
delle quali ha ucciso oltre 2.200 persone). Ogni volta, l’assiduo lavoro di
pubbliche relazioni del governo israeliano e dei suoi amici ha per lo più
riparato la lacera cortina che protegge le pratiche israeliane da un vero
scrutinio. In questo momento è in corso uno sforzo frenetico per fare la
stessa cosa. Ma ci sono ragioni per credere che le cose potrebbero andare
diversamente questa volta.
Un punto di svolta?
Il recente sconvolgimento ha portato a un momento unico, sia per il
cambiamento nell’opinione pubblica internazionale sia per la nascente
riunificazione del popolo palestinese a livello di base. I Palestinesi
hanno un’occasione per ripristinare il loro logoro movimento nazionale, unificare i loro
ranghi e concordare un’agenda strategica che si possa comunicare chiaramente a
livello globale. Per realizzare questo arduo compito, dovranno sostituire
le strutture politiche esistenti –in particolare il quadro messo in atto dagli
accordi di Oslo, compresa la creazione dell’Autorità Palestinese– che hanno
prodotto solo una generazione di leader falliti, governi repressivi,
clientelismo, corruzione, smobilitazione popolare e nessuna strategia di
liberazione. I due partiti politici che hanno a lungo dominato la politica
palestinese, Fatah e Hamas, sembrano strutturalmente più deboli e meno popolari
che mai, nonostante il notevole sostegno esterno che ricevono. Questo è
vero anche per un Hamas attualmente vivace, i cui sondaggi interni prevedevano
che avrebbe perso alle elezioni previste per maggio ma che sono state rinviate
dal presidente dell’Autorità Palestinese, il cui mandato legale è terminato
oltre un decennio fa.
Una nuova generazione di giovani attivisti palestinesi non ha tempo per gli
slogan, la politica e i leader del passato. Questi attivisti operano sulla
stessa lunghezza d’onda in tutta la Palestina e nella diaspora. Oggi i
giovani stanno prendendo l’iniziativa politica, innescando una nuova fase dello
sforzo per la liberazione della Palestina, come hanno fatto ripetutamente in
passato, ad esempio lanciando lo sciopero generale del 1936 e l’intifada del
1987. Dovranno affrontare il duro compito di rovesciare la vecchia
generazione di leader e le vaste strutture di sicurezza e finanziarie che
proteggono questi ultimi. Ma la situazione sta cambiando, come è evidente
nella recente rabbia popolare diretta contro la leadership
palestinese. Nizar Banat, un severo critico dell’Autorità Palestinese, è morto
mentre era sotto arresto a giugno, scatenando disordini diffusi che hanno
sottolineato l’estrema fragilità del potere di questi leader.
È incoraggiante anche la volontà di molti Americani di avere uno sguardo
più critico e approfondito su Israele e Palestina. I giovani, inclusi
molti della comunità ebraica, sono più critici di quanto lo fossero le
generazioni precedenti nei confronti dei miti che hanno a lungo protetto
Israele da ogni controllo, come, ad esempio, le nozioni che “Dio ha dato questa
terra agli Israeliani”; che prima della creazione dello stato israeliano,
la Palestina era “una terra senza popolo”; che solo Israele “ha fatto
fiorire il deserto”; e che Israele è “l’unica democrazia
mediorientale”. I social media sono molto più avanti dei media tradizionali
in questo senso, diffondendo immagini video indelebili delle forze israeliane
che sparano gas lacrimogeni e granate stordenti nella moschea di al Aqsa, il
santuario musulmano più sacro della Palestina, mentre i fedeli erano in
preghiera durante il mese sacro di Ramadan; la distruzione di interi
edifici a più piani a Gaza; orde ebraiche violente che si aggirano per i
quartieri arabi di Gerusalemme Est e nelle città israeliane; e
manifestanti palestinesi in Cisgiordania uccisi con proiettili
veri. Queste cose non possono rimanere invisibili.
Queste vivide immagini hanno contribuito a perforare il bozzolo che la
copertura mediatica ha fedelmente mantenuto intorno ai 54 anni di occupazione
militare “temporanea” e al raffinato sistema di dominio in vigore sia
all’interno di Israele che nei territori palestinesi occupati. Termini che
non sono mai stati utilizzati in passato su Israele, come “razzismo sistemico”,
“supremazia ebraica”, “colonialismo di insediamento” e “apartheid”, vengono
dibattuti e stanno diventando parte delle conversazioni pubbliche statunitensi
e israeliane di sinistra. Questo rimane vero nonostante il tentativo
sempre più disperato dei difensori di Israele di dipingere il sostegno ai
diritti dei Palestinesi o le critiche alle politiche di uno stato straniero
come “antisemiti”. Questi cambiamenti nel discorso corrente negli Stati
Uniti e in Europa potrebbero avere potenti conseguenze politiche, anche se non
sembra probabile un cambiamento immediato. In definitiva, potrebbero portare
a un declino dell’immenso sostegno militare, diplomatico e finanziario di cui
Israele gode dai suoi alleati occidentali.
Se tutto questo sembra nuovo, e può costituire un punto di svolta, molte
cose non sono cambiate. Sia negli Stati Uniti che a livello globale, rimane
un attaccamento quasi irrazionale alla pretesa di una “soluzione a due stati”,
l’idea che l’unico modo per portare una pace duratura nella regione sia
attraverso la creazione di uno stato palestinese indipendente accanto a
Israele. I fautori della soluzione dei due Stati rifiutano di riconoscerne il
presupposto essenziale: la demolizione dei formidabili impedimenti strutturali,
sia fisici che amministrativi, che i leader israeliani di ogni tipo hanno
eretto dal 1967 per impedire la creazione di uno Stato palestinese sovrano e
contiguo. Questi sforzi metodici hanno comportato l’effettiva annessione
della maggior parte dei territori occupati e il trasferimento illegale di quasi
750.000 coloni (oltre il dieci percento della popolazione ebraica di Israele)
in questi territori, nel contesto della massiccia costruzione di insediamenti
coloniali, strade riservate, sistemi idrici e di comunicazione: il più grande
progetto infrastrutturale nella storia del paese dopo il 1967.
Senza il capovolgimento dell’incorporazione strisciante di ciò che resta
della Palestina nella più grande terra di Israele – incorporazione che è
l’obiettivo principale della maggior parte dei partiti politici israeliani,
compresi quelli che rappresentano forse 100 dei 120 membri della Knesset –
l’invocazione di una soluzione a due Stati è solo una foglia di fico per
l’interminabile espropriazione del popolo palestinese. Attualmente non c’è
alcuna prospettiva di uno sforzo internazionale per annullare i fatti sul
terreno che Israele ha creato per rendere impossibile uno stato palestinese
vitale. Tuttavia, l’ostinata resistenza del popolo palestinese agli sforzi
per espropriarlo e cancellarlo dalla storia potrebbe aver forzato una
svolta. Sta prendendo forma un nuovo paradigma, basato su uguali diritti
per tutti in Palestina e Israele, sia collettivamente che individualmente, sia
attraverso una soluzione a due stati sempre più improbabile, un unico stato o
entità binazionale, un quadro federale, cantonale o altro. Un numero
crescente di Palestinesi e di Israeliani comprende le alte probabilità che una soluzione a due stati sia
impossibile e sta esplorando alcune di queste alternative. I sostenitori
di tali schemi devono offrire un’esposizione completa di come queste opzioni
funzionerebbero nella pratica prima che possano rappresentare una reale
attrazione. Ma la persistente opposizione di Israele a uno stato
palestinese veramente indipendente rende paradossalmente ancora più urgente la
necessità di queste alternative.
Questo nuovo paradigma emergente probabilmente non avrà un impatto a breve
termine sulle politiche statunitensi o di altri potenti paesi. I politici
statunitensi e i mandarini della politica estera, i sionisti liberali e la
maggior parte degli attori internazionali sono troppo coinvolti nella soluzione
dei due stati per poter abbandonare tale approccio da un momento
all’altro. Nel frattempo, i principali attori internazionali, tra cui gli
Stati Uniti in primis, hanno mostrato scarso interesse a impedire a Israele di
bloccare il percorso verso una soluzione a due Stati. Questa acquiescenza
permette a Israele di continuare la sua brutale “gestione” del suo problema
palestinese, rifiutando ogni movimento verso una vera soluzione, un approccio
che l’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha perfezionato durante i
suoi molti anni in carica.
Il nuovo governo del primo ministro Naftali Bennett seguirà probabilmente
il corso tracciato dal suo predecessore, poiché la sua coalizione di governo è
così disparata che non è possibile un nuovo consenso sulla questione
palestinese. Nella Knesset rimane una solida maggioranza di destra su
entrambe le ali del parlamento a sostegno della colonizzazione in corso
nei territori occupati e della negazione dei diritti nazionali e di ogni altro
tipo al popolo palestinese. Questa posizione intransigente è tra i
maggiori ostacoli al cambiamento. È improbabile che un nuovo paradigma,
anche quando più pienamente sviluppato, possa avere un effetto immediato nel
persuadere gli Ebrei israeliani ad abbandonare uno status quo così sfavorevole
per i Palestinesi.
Un movimento nazionale rinnovato
Tuttavia, i Palestinesi hanno la capacità di cambiare questa situazione. Un
movimento nazionale palestinese rianimato potrebbe sfidare e alla fine
trasformare l’attuale insostenibile status quo. Un tale movimento richiederebbe
cambiamenti politici estremamente difficili e una fredda rivalutazione della
strategia e degli obiettivi palestinesi, possibilmente sotto la spinta di nuovi
e più giovani leader che possano tracciare un nuovo approccio. Ciò
comporterebbe diversi sforzi importanti. I Palestinesi devono mostrare con
forza, e idealmente in modo non violento, l’insostenibilità dello status quo,
cosa che hanno fatto con successo durante la prima intifada nonviolenta dal
1987 al 1991. E devono far rivivere le possibilità moribonde dell’indipendenza
nazionale palestinese accanto a Israele o, più probabilmente, tracciare la
visione di un futuro palestinese inserito in una nuova struttura politica
postcoloniale condivisa con i loro vicini israeliani. Gli attori esterni
che vogliono mantenere un’influenza sui loro clienti e alleati palestinesi
favoriti possono resistere a tali cambiamenti, ma in passato i Palestinesi
hanno mostrato la capacità di superare questi interventi esterni –come hanno
fatto sotto la guida di Yasser Arafat dalla fine degli anni ’60 fino agli anni
’80– e potrebbero farlo di nuovo.
Il cambiamento positivo già osservato nel discorso globale sulla Palestina
è in gran parte dovuto all’efficacia delle iniziative della società civile
palestinese e all’attivismo giovanile sul campo, nei territori palestinesi
occupati, negli Stati Uniti e altrove. Un movimento nazionale palestinese
ringiovanito, unificato e democratico guidato da una nuova generazione e
costruito attorno a una solida serie di obiettivi politici moltiplicherebbe
tale impatto sull’opinione pubblica israeliana, statunitense e
internazionale. Un messaggio politico palestinese presentato in modo
autorevole, radicato nel principio di uguaglianza e sostenuto da un’azione
politica, diplomatica e di massa, dimostrerebbe in modo decisivo
l’insostenibilità della continua oppressione israeliana sui Palestinesi.
Queste trasformazioni nella società e nella politica palestinese possono
essere lente a venire, o potrebbero arrivare rapidamente, o potrebbero non
avvenire affatto. Senza tali trasformazioni, il confronto congelato tra
Israele e i Palestinesi continuerà a sciogliersi, ma molto più
lentamente. In ogni caso, è già palesemente chiaro che un sistema
coloniale superato come quello israeliano, basato sulla supremazia di un’etnia
e sulla subordinazione di un’altra, è incompatibile con i valori della
democrazia e dell’uguaglianza. Sebbene siano ferocemente contestate,
democrazia e uguaglianza rimangono i valori guida del ventunesimo
secolo. Un movimento nazionale palestinese che si evolvesse con questi
valori al centro potrebbe avere solo effetti positivi a livello locale e
globale.
Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina
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