Il pezzo che segue è apparso sul Guardian, il 19 maggio 2021. Nimer Sultany è docente di diritto pubblico alla SOAS di Londra. Prima di entrare a far parte della SOAS, ha esercitato la professione di avvocato nel campo dei diritti umani in Israele/Palestina.
Martedì 18 maggio, nella mia città natale di Tira, situata all’interno dei
confini israeliani precedenti al 1967, i negozi erano chiusi e le strade vuote.
Era stato dichiarato uno sciopero generale per protestare contro le politiche
israeliane, dalla pulizia etnica a Sheikh Jarrah, all’assalto alla moschea di
al-Aqsa e all’attacco a Gaza.
Mentre il bilancio delle vittime palestinesi continua a salire, i
commentatori lamentano il crollo della convivenza tra cittadini palestinesi ed
ebrei all’interno di Israele. Tuttavia, nella mia esperienza di cittadino
palestinese in Israele, una convivenza del genere non è, in primo luogo, mai
esistita. La coesistenza implica uno sfondo di uguaglianza, libertà e rispetto
reciproco. Nel contesto del governo di Israele su di noi, tuttavia, la
convivenza è una finzione che nasconde una realtà fatta di vite separate e
ineguali.
Come la stragrande maggioranza dei Palestinesi all’interno di Israele, sono
cresciuto in una comunità araba separata e ho frequentato un sistema scolastico
arabo separato, dall’asilo al liceo. Studente di giurisprudenza, non riuscii ad
affittare un appartamento nella città di Rishon LeZion a causa delle mie
origini ed ebbi bisogno dell’aiuto di un amico di famiglia, ebreo, che firmò il
contratto di locazione al posto mio – per aggirare i pregiudizi dei
proprietari. Da giovane avvocato, nell’ottobre 2001, finii al pronto soccorso
dopo essere stato aggredito da agenti di polizia armati di manganello: i
residenti della mia città natale stavano protestando contro la confisca delle
terre, comprese quelle appartenenti alla mia famiglia. Ogni volta che mi sono
recato all’estero per studiare, all’aeroporto ho subito discriminazioni
razziali.
Ho sempre trovato sconcertante che così tanti sostengano che il problema
consiste semplicemente nell’occupazione israeliana del 1967 della Cisgiordania
e di Gaza. Ma i fatti sono lì per chiunque li voglia vedere. Il sistema
politico e giuridico di Israele è fondamentalmente ineguale. Omette palesemente
il principio formale di uguaglianza dalla carta dei diritti; consente a
centinaia di comunità ebraiche di escludere i non Ebrei dalla residenza; la sua
legge costituzionale dichiara che gli insediamenti sono un valore supremo per
lo Stato; e i leader israeliani affermano ripetutamente che Israele non è uno
stato di tutti i suoi cittadini perché è uno stato ebraico. I tribunali
israeliani sono parte del problema in quanto hanno sancito la colonizzazione
delle nostre terre e la nostra generale subordinazione, la nostra esclusione
dai diritti fondamentali.
Tira era una città agricola. Decenni di confische, demolizioni di case,
incarcerazione e discriminazione nell’istruzione, nell’occupazione e nel
welfare hanno trasformato la mia città, come praticamente ogni città
palestinese in Israele, in un ghetto con scuole scadenti e alti tassi di
povertà e criminalità. Quasi il 50% delle famiglie palestinesi in Israele vive
al di sotto della soglia di povertà – e sebbene dal 2009 costituiamo circa il
20% della popolazione, rappresentiamo il 50% di quella carceraria. Tira è
diventata un centro della criminalità organizzata in cui la guerra tra bande e
il pagamento del pizzo sono fin troppo frequenti. Gli slogan dello stato di
diritto in Israele suonano vuoti per coloro che vivono in una situazione di
costante insicurezza e illegalità.
Un recente rapporto di Human Rights Watch ha giustamente
definito le politiche di “giudaizzazione” del Negev e della Galilea come parte
di un sistema di apartheid. Ma questa politica è evidente anche in altre parti
del Paese, comprese le cosiddette città miste che ora sono diventate teatro di
rivolte. “Miste” è un’altra frase che nasconde la realtà dei muri di cemento che
separano i quartieri palestinesi ed ebraici a Lydda e Ramleh. Non c’è
coesistenza quando la giudaizzazione di queste città miste e l’espulsione dei
cittadini palestinesi vengono abitualmente invocate nelle elezioni municipali.
Con l’aiuto dell’Israel Land Administration, i coloni della Cisgiordania
e i fanatici religiosi stabilirono un insediamento per soli ebrei a Lydda.
Anche la costante minaccia di demolizioni di case nei quartieri palestinesi di
Lydda e nel villaggio vicino e non riconosciuto di Dahmash non sono esempi di
convivenza.
La minoranza palestinese ha sperimentato tali politiche per decenni e ha
protestato contro di esse per decenni. Queste proteste sono spesso accolte con
violenza letale da parte della polizia, senza che essa sia chiamata a
rispondere per gli illeciti commessi. Negli ultimi giorni, i miei concittadini
hanno condiviso il video di arresti di giovani e di brutalità commesse dalla
polizia senza che fosse stata provocata – pratiche che ricordano l’attività
della polizia a Gerusalemme est. Benjamin Netanyahu ha pubblicamente assicurato
agli agenti di non preoccuparsi delle indagini e delle commissioni d’inchiesta.
L’incitamento ha portato ad attacchi da parte di coloni armati e gruppi
organizzati di estrema destra a Lydda e altrove. Il canto di “morte agli arabi”
di questi gruppi suona familiare ai cittadini palestinesi negli stadi di
calcio di tutto il Paese.
L’ allontanamento forzato, la confisca di terre, l’inferiorità davanti alla
legge e l’incarcerazione sono realtà condivise da tutti i Palestinesi, non
soltanto nei territori occupati ma anche “all’interno” di Israele. È
semplicemente sbagliato affermare che una convivenza preesistente sia stata
infranta. I Palestinesi all’interno di Israele stanno protestando contro le
politiche israeliane a Sheikh Jarrah e il bombardamento di quel campo di
prigionia densamente popolato di profughi che è Gaza, perché vedono
l’unità e la continuità nel sistema coloniale di oppressione su tutti i
Palestinesi. La nostra protesta sta affermando l’unità di una lotta
anticoloniale per l’uguaglianza e la libertà.
(Traduzione di Giovanni Pillonca)
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