martedì 6 luglio 2021

La coesistenza pacifica non è andata in frantumi: è sempre stata un mito - Nimer Sultany

 

Il pezzo che segue è apparso sul Guardian, il 19 maggio 2021. Nimer Sultany è docente di diritto pubblico alla SOAS di Londra. Prima di entrare a far parte della SOAS, ha esercitato la professione di avvocato nel campo dei diritti umani in Israele/Palestina.


Martedì 18 maggio, nella mia città natale di Tira, situata all’interno dei confini israeliani precedenti al 1967, i negozi erano chiusi e le strade vuote. Era stato dichiarato uno sciopero generale per protestare contro le politiche israeliane, dalla pulizia etnica a Sheikh Jarrah, all’assalto alla moschea di al-Aqsa e all’attacco a  Gaza.

Mentre il bilancio delle vittime palestinesi continua a salire, i commentatori lamentano il crollo della convivenza tra cittadini palestinesi ed ebrei all’interno di Israele. Tuttavia, nella mia esperienza di cittadino palestinese in Israele, una convivenza del genere non è, in primo luogo, mai esistita. La coesistenza implica uno sfondo di uguaglianza, libertà e rispetto reciproco. Nel contesto del governo di Israele su di noi, tuttavia, la convivenza è una finzione che nasconde una realtà fatta di vite separate e ineguali.

Come la stragrande maggioranza dei Palestinesi all’interno di Israele, sono cresciuto in una comunità araba separata e ho frequentato un sistema scolastico arabo separato, dall’asilo al liceo. Studente di giurisprudenza, non riuscii ad affittare un appartamento nella città di Rishon LeZion a causa delle mie origini ed ebbi bisogno dell’aiuto di un amico di famiglia, ebreo, che firmò il contratto di locazione al posto mio – per aggirare i pregiudizi dei proprietari. Da giovane avvocato, nell’ottobre 2001, finii al pronto soccorso dopo essere stato aggredito da agenti di polizia armati di manganello: i residenti della mia città natale stavano protestando contro la confisca delle terre, comprese quelle appartenenti alla mia famiglia. Ogni volta che mi sono recato all’estero per studiare, all’aeroporto ho subito discriminazioni razziali.

Ho sempre trovato sconcertante che così tanti sostengano che il problema consiste semplicemente nell’occupazione israeliana del 1967 della Cisgiordania e di Gaza. Ma i fatti sono lì per chiunque li voglia vedere. Il sistema politico e giuridico di Israele è fondamentalmente ineguale. Omette palesemente il principio formale di uguaglianza dalla carta dei diritti; consente a centinaia di comunità ebraiche di escludere i non Ebrei dalla residenza; la sua legge costituzionale dichiara che gli insediamenti sono un valore supremo per lo Stato; e i leader israeliani affermano ripetutamente che Israele non è uno stato di tutti i suoi cittadini perché è uno stato ebraico. I tribunali israeliani sono parte del problema in quanto hanno sancito la colonizzazione delle nostre terre e la nostra generale subordinazione, la nostra esclusione dai diritti fondamentali.

Tira era una città agricola. Decenni di confische, demolizioni di case, incarcerazione e discriminazione nell’istruzione, nell’occupazione e nel welfare hanno trasformato la mia città, come praticamente ogni città palestinese in Israele, in un ghetto con scuole scadenti e alti tassi di povertà e criminalità. Quasi il 50% delle famiglie palestinesi in Israele vive al di sotto della soglia di povertà – e sebbene dal 2009 costituiamo circa il 20% della popolazione, rappresentiamo il 50% di quella carceraria. Tira è diventata un centro della criminalità organizzata in cui la guerra tra bande e il pagamento del pizzo sono fin troppo frequenti. Gli slogan dello stato di diritto in Israele suonano vuoti per coloro che vivono in una situazione di costante insicurezza e illegalità.

Un recente rapporto di Human Rights Watch ha giustamente definito le politiche di “giudaizzazione” del Negev e della Galilea come parte di un sistema di apartheid. Ma questa politica è evidente anche in altre parti del Paese, comprese le cosiddette città miste che ora sono diventate teatro di rivolte. “Miste” è un’altra frase che nasconde la realtà dei muri di cemento che separano i quartieri palestinesi ed ebraici a Lydda e Ramleh. Non c’è coesistenza quando la giudaizzazione di queste città miste e l’espulsione dei cittadini palestinesi vengono abitualmente invocate nelle elezioni municipali. Con l’aiuto dell’Israel Land Administration, i coloni della Cisgiordania e i fanatici religiosi stabilirono un insediamento per soli ebrei a Lydda. Anche la costante minaccia di demolizioni di case nei quartieri palestinesi di Lydda e nel villaggio vicino e non riconosciuto di Dahmash non sono esempi di convivenza.

La minoranza palestinese ha sperimentato tali politiche per decenni e ha protestato contro di esse per decenni. Queste proteste sono spesso accolte con violenza letale da parte della polizia, senza che essa sia chiamata a rispondere per gli illeciti commessi. Negli ultimi giorni, i miei concittadini hanno condiviso il video di arresti di giovani e di brutalità commesse dalla polizia senza che fosse stata provocata – pratiche che ricordano l’attività della polizia a Gerusalemme est. Benjamin Netanyahu ha pubblicamente assicurato agli agenti di non preoccuparsi delle indagini e delle commissioni d’inchiesta. L’incitamento ha portato ad attacchi da parte di coloni armati e gruppi organizzati di estrema destra a Lydda e altrove. Il canto di “morte agli arabi” di questi gruppi suona  familiare ai cittadini palestinesi negli stadi di calcio di tutto il Paese.

L’ allontanamento forzato, la confisca di terre, l’inferiorità davanti alla legge e l’incarcerazione sono realtà condivise da tutti i Palestinesi, non soltanto nei territori occupati ma anche “all’interno” di Israele. È semplicemente sbagliato affermare che una convivenza preesistente sia stata infranta. I Palestinesi all’interno di Israele stanno protestando contro le politiche israeliane a Sheikh Jarrah e il bombardamento di quel campo di prigionia densamente popolato di profughi che è Gaza,  perché vedono l’unità e la continuità nel sistema coloniale di oppressione su tutti i Palestinesi. La nostra protesta sta affermando l’unità di una lotta anticoloniale per l’uguaglianza e la libertà.


(Traduzione di Giovanni Pillonca)


da qui

Nessun commento:

Posta un commento