Gli anni sessanta sembrano non finire mai. Ritornano. E a cicli sempre più brevi. Di quegli anni ritornano i miti. Mai superati, sorpassati, surclassati. E anche se non c’era niente di eroico nell’essere giovani allora, i Baby Boomers si struggono ancora di nostalgia per averli vissuti in prima persona, mentre i Millennials e le generazioni seguenti (X, Y, Z, Alpha), ne scoprono e, sotto sotto, ne invidiano l’irripetibile stagione di creatività.
E se in
musica sembra proprio che the times they are [NOT] a-changin’ –
lo hanno dimostrato i recenti festeggiamenti per gli ottant’anni di Bob Dylan,
sessanta dei quali li abbiamo passati in compagnia della colonna sonora delle
sue ballate – nel campo delle arti visive, a Firenze, a Palazzo Strozzi, si
festeggia un quarantennio di American Art 1961-2001, dove a farla
da divo, già dal manifesto, sono l’imperituro Andy Warhol e la Pop Art nelle
sue caleidoscopiche varianti. Questo mentre in letteratura atterrano sui banchi
delle nostre librerie due titoli freschissimi di stampa, vanti della
controcultura: il primo, un inedito (per l’Italia) di Ken Kesey, A
volte una bella pensata, che le edizioni Black Coffee pubblicano in
occasione del ventennale della morte dell’autore (era uscito negli Stati Uniti
nel 1964, due anni dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo, l’opera
che aveva reso famoso Kesey).
Il secondo è
una nuova edizione, e relativa traduzione, di Vineland (Einaudi)
– opera di culto, come si suol dire in questi casi – dell’elusivo Thomas
Pynchon, leggendario recluso, o desaparecido se preferite,
della letteratura (titolo che condivide con il J.D. Salinger del Giovane
Holden) annoverato tra i massimi scrittori americani viventi, idolo e icona
della controcultura, che in questo libro dipinge un affresco della stagione
post hippy che gira intorno al personaggio di Zoyd Wheeler, residuato umano
degli anni sessanta, anni dalla cui influenza e fascinazione, come dicevamo,
non ci siamo ancora ripresi.
E dire che
il decennio di love and peace era “finito” più volte, purtroppo
sempre nel sangue: nel 1963 con l’assassinio del presidente John F. Kennedy,
nel 1968 con gli assassinii del reverendo Martin Luther King e del senatore Bob
Kennedy, nel 1969 con il pluri-omicidio-mattanza che avrà, fra le sue vittime,
l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, compiuto da adepti
della setta capitanata da Charles Manson – fondamentalmente un cantante fallito
a cui l’LSD e tutte le droghe del mondo avevano bruciato il cervello.
Un
illetterato altamente talentuoso
Ad avere a
che fare con l’LSD fra i tanti artisti (e non) che proveranno l’ebbrezza e gli
effetti non sempre creativi dell’acido lisergico ci sarà, in prima fila, Ken
Kesey (1935-2001), ex lottatore quasi olimpionico la cui
carriera fu fermata da un infortunio alla spalla, che per mantenersi agli studi
di scrittura all’Università di Stanford (fu allievo di Wallace Earle Stegner,
il “Decano degli scrittori occidentali”, che era solito definire Kesey un
“illetterato altamente talentuoso”) si sottopose, da volontario, agli
esperimenti che si svolgevano al Veteran Hospital di Menlo Park, nel cuore di
quella che è oggi la Silicon Valley, sugli effetti psicotropi dell’LSD e per
l’uso che se ne sarebbe potuto fare in ambito medico come antidolorifico, ad
esempio in pazienti terminali, ma soprattutto in campo psichiatrico come
strumento per lo studio delle psicosi. Progetti che, in parallelo, e nella
massima segretezza, l’intelligence e l’esercito degli Stati Uniti
approfondivano per scopi molto meno nobili, come arma psicochimica.
Quelli erano
gli anni in cui Kesey, ispirato dal ruolo di cavia, aveva cominciato a scrivere
il suo primo romanzo, quel “nido del cuculo” che uscirà nel 1962, ma che lo
porterà alla ribalta internazionale solo anni più tardi grazie alla
trasposizione cinematografica del 1975 del regista Miloš Forman che farà man
bassa di Oscar come miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior
attrice e migliore sceneggiatura non originale, con un giovane rampante Jack
Nicholson nella parte principale di Randle Patrick McMurphy, carcerato che per
sfuggire alla prigione simula segni di pazzia.
Da notare,
fra parentesi, come anche Pynchon userà lo stesso espediente con il personaggio
principale del suo Vineland, quello Zoyd Wheeler che ogni anno, per
la gioia dei media locali, si lancia contro la vetrina di un bar della sua
città per mostrare alle autorità di essere matto da legare e così poter
ricevere il sussudio pubblico. Follia e anni sessanta sembrano essere un
binomio da cui non si può prescindere.
Un tipo
perfetto per un viaggio
Dunque, ben
prima di raccogliere i copiosi frutti del successo del “nido del cuculo”, Kesey
si dedicò alla stesura di A volte una bella pensata, saga molto
barocca e molto eccessiva, persino dal punto di vista cartaceo (consta di ben
848 pagine), anch’essa portata sul grande schermo, ma con minor successo, da
Paul Newman e Henry Fonda come protagonisti. In Italia il film uscì con un
titolo, Sfida senza paura, che faceva il verso alla coeva stagione
degli spaghetti-western. Chissà, forse il distributore pensava di attirare al
botteghino spettatori distratti che si aspettavano una storia di
pistolettate.
La vicenda
si svolge a Wakonda, paesino sperduto nell’interno dell’Oregon le cui case,
descritte da Kesey, sono disseminate lungo il fiume, “certe vicine alla
nazionale, altre meno, sono graziosissime, e non si sospetta che vi alberghi
una tremenda depressione, case che ispirano tutto fuorché disagio”. La saga
gira intorno a una rivolta sindacale tra gli operai dell’industria del legno
causata delle innovazioni tecnologiche introdotte dall’azienda monopolistica
locale. I boscaioli devono però scontrarsi quotidianamente, e quasi più
duramente, con una famiglia che non aderisce allo sciopero, gli Stamper, gente
dura e rancorosa emigrata in Oregon dal Kansas il cui motto è “Mai cedere di un
millimetro!”. In questa lotta tipicamente americana tra individualità e
collettività non si intravede niente di buono all’orizzonte, certamente non un
“happy ending”. Non a caso Marco Rossari, autore di una puntuale prefazione (Il
fattore KK) scrive: «Non è una lettura facile, questo libro. Non è una
passeggiata. È un cazzo di montagna. Bisogna applicarsi, sintonizzarsi,
insistere, sentire la musica. E poi, chissà, può anche capitarvi come pare sia
successo a qualcuno – di restare incantati».
Un momento
chiave del romanzo è il viaggio coast-to-coast che uno dei personaggi
intraprende da est verso ovest per raggiungere la famiglia a Waconda, lo stesso
tragitto che compierà, però in senso inverso, Ken Kesey, nel 1964, per andare a
presentare il romanzo a New York. Viaggerà insieme a un’accozzaglia di amici,
i Merry Pranksters, gli Allegri Burloni, a bordo di un iconico
scuola-bus battezzato “Furthur”, istoriato come un uovo di Pasqua a disegni
psichedelici – arancione, verde, magenta, lavanda, blu cloro e via andare – che
Tom Wolfe, nel libro, The Electric Kool-aid Acid Test, descrive “come se qualcuno avesse
dato a Hyeronymus Bosch cinquanta secchi di vernice e uno scuola-bus
International Harvester del 1939 e gli avesse detto di mettersi all’opera”.
Ciliegina sul mito, alla guida di “Furthur” ci sarà nientemeno che quel Neal
Cassady, ormai quarantenne, protagonista simbolo della Beat Generation a cui si
era ispirato Jack Kerouac per il personaggio di Dean Moriarty di Sulla
Strada (“un tipo perfetto per un viaggio”).
Pynchon is
back
Intanto, nel
1963, sul fronte Pynchon, il Maestro, da sempre rigorosamente invisibile, si
apprestava a rivoluzionare la scrittura facendo la sua comparsa nell’universo
editoriale con V. un labirinto di storie vorticose che avrebbe
dato il via a quella corrente letteraria che il critico e saggista Leslie
Fiedler definì con il termine epocale di “post-moderna”.
Tre anni più
tardi Pynchon, pur restando sempre celato nella sua bolla di anonimato
mediatico, si rifaceva vivo con L’incanto del lotto 49, seguito da L’arcobaleno
della gravità (del 1973). Poi, a parte una raccolta di racconti, il
silenzio per diciassette anni, come se avesse trovato la risposta al dubbio
amletico che lo tormentava, al pari di Nanni Moretti che nel film Ecce
Bombo si chiedeva: «Mi si nota di più se vengo [alla festa] e me ne
sto in disparte o se non vengo per niente?».
Infine, nel
1990, il Grande Ritorno, annunciato da un recensore d’eccezione, Salman
Rushdie, che dava avviso, dalle colonne del New York Times, che
“Pynchon is back”, domandandosi anche perché diavolo ci avesse messo così tanto
a scrivere questo Vineland. Allo stesso tempo informava il
lettore che a lui questo romanzo torrenziale, leggero e comico era piaciuto
tanto e che si era fatto delle matte risate, fra l’altro per l’invenzione di
certi nomi: uno per tutti quello di una ditta giapponese di microchip
battezzata “Tokkata & Fuji”. La recensione entusiastica valse a Rushdie un
invito a cena da parte dell’Uomo Invisibile, organizzata in territorio neutro,
a casa dell’editore di Knopf, Sonny Mehta, a Manhattan. «L’ho trovato
soddisfacentemente pynchonesco», raccontò Rushdie al Guardian «Dopo
la cena mi dicevo, beh, siamo diventati amici, magari ogni tanto ci rivedremo.
Però non mi ha mai richiamato».
E se il
critico del Washington Post si chiedeva se fosse valsa la pena
aspettare diciassette anni per quel Vineland, i fan di mezzo mondo
non ebbero dubbi nel rinnovargli la fiducia correndo ad acquistare il libro,
così, come oggi, niente lo lascia dubitare, i devoti lettori italiani e i
neofiti pynchoniani saranno gratificati da questa nuova edizione einaudiana.
Forever
young
La trama del
romanzo si dipana a Vineland, una contea della costa del nord della California,
tanto inesistente quanto reale che, anche se non sei mai stato da quelle parti,
te la puoi immaginare per aver assorbito quei paesaggi raccontati in così tanti
film, telefilm, serial che, poi, quando la vedi sul serio ti senti
confortevolmente a casa.
L’anno è il
1984, l’anno orwelliano in cui Ronald Reagan viene rieletto a valanga per un
secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti (525 Grandi elettori contro i
13 del democratico Walter Mondale), e questo non piace ai personaggi di Pynchon
che vedono nel suo programma politico un crescendo di distruzione e di
ricostruzione del mondo a sua immagine e somiglianza: “smantellamento del New
Deal, rovesciamento dell’esito della Seconda guerra mondiale, restaurazione del
fascismo sia in America che nel resto del mondo”. Tutto ciò mentre, tra una
pagina e l’altra, si appalesano Ufo, mostri tipo Godzilla, musiche
“surfedeliche”, talpe dell’Fbi, in un continuo guizzo lisergico tra cultura
alta e cultura bassa (mai, però, parassitariamente middlebrow), in
un caleidoscopio postmoderno di citazioni, rimandi colti e accenni di fughe in
avanti nell’avantpop. Ma soprattutto in una prosa esagerata dove “ognuno
rincorre i suoi guai / ognuno col suo viaggio / ognuno diverso / e ognuno, in
fondo, perso dentro i fatti suoi”.
Dicevamo che
la storia si svolge a metà degli anni ottanta, ma non fatevi ingannare, qui
tutto parla di anni sessanta, il periodo in cui tutti quei personaggi avevano
vent’anni. Era l’epoca in cui fu inventata la categoria sociologica dei
giovani, tutto accadeva e tutto era possibile. Anni in cui Philip Roth si
chiedeva: “Ma sta accadendo veramente?”
La contea di
Vineland è il-paese-che-non-c’è, il rifugio dove hanno traslocato i Peter Pan
che a Berkeley, Stanford, Ucla, protestavano contro la guerra in Vietnam,
bruciavano le cartoline precetto e, allo stesso tempo, cavalcavano le onde del
Pacifico in indimenticabili mercoledi da leoni. Ragazzi forever young che
sapevano volare (magari con l’LSD) e che, da allora, non sono mai cresciuti.
Nella realtà
degli anni ottanta in cui si svolge l’azione, gli effetti più esteriori del
fenomeno hippy – gonne a fiori o capelli lunghi – sono poco più di un
ricordo. Lentamente la controcultura aveva perso il suo slancio rivoluzionario,
ma non era sparita, si era trasformata.
Alcuni, come
Zoyd Wheeler continuavano a vivere di sussidi pubblici, altri si apprestavano a
diventare milionari grazie alla strada aperta dall’intuizione visionaria di un
imprenditore hippy come Steve Jobs. Altri ancora sparivano dai radar
istallandosi in comunità eterogenee come quella di Topanga – nelle immediate
vicinanze di Los Angeles, che per il fascino del suo sciattume rurale condito
con punte di estremo snobismo metropolitano, gli è stato affibbiato il
soprannome di “Greenwich Village delle colline” – o, a nord, a Big Sur, un’area
boschiva prospicente l’oceano, molto conosciuta, letterariamente parlando, per
essere stata il feudo di Henri Miller e compagni, per la sua stretta vicinanza
alla San Francisco della Beat Generation.
Entrambi
giardini dell’Eden di un’innocenza perduta ai cui abitanti l’acido aveva aperto
le porte a visioni di Palme Vibranti, Macchine Poucutron, cristiani rinati
della Cia e ora ne tiravano le somme, proprio come i personaggi del pynchonesco
luna park della contea di Vineland.
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