martedì 27 luglio 2021

Piazze malate (quando la “cultura del sospetto” si fa Pop) - Marco Revelli

 

A volte i popoli impazziscono. O impazziscono piccole porzioni di popolo, come quelle che si sono ritrovate nelle piazze in questi giorni, segno di tempi deragliati. Indecifrabili nella loro composizione scomposta, con i leghisti e i fascisti mescolati ai bene-comunisti, ai dentisti e agli apprendisti o ai giuristi d’assalto, incarnazione di un’eterogeneità sociale accomunata solo dall’assurdità di una pretesa irricevibile: dalla rivolta contro un provvedimento-simbolo come il Green Pass che in tempi di pandemia mortale appare mera proposta di buon senso e senza dubbio male minore, e che invece viene identificato come attentato a una libertà confusa con l’affermazione dell’assoluto diritto al proprio personale capriccio. Espressione, a sua volta, della rottura di ogni principio di responsabilità nei confronti degli altri, del loro ben più sostanziale (e costituzionalmente sancito) diritto alla salute e alla sopravvivenza, come se l’affermazione che “la mia libertà si arresta dove comincia quella del mio vicino” avesse perso di significato, e ognuno si ergesse nella propria solitudine sovrana al di fuori e al di sopra di ogni legame sociale. E come se tutta la libertà (perduta in gran parte delle questioni sostanziali) fosse oggi rifluita nella questione del si o del no a un temporaneo lasciapassare.

Sono, dobbiamo dircelo, piazze foriere di sciagura, gravide di presagi inquietanti e di ombre nere, con un pesante retrogusto fascistoide. Personalmente mi ha colpito il cartello levato in Piazza Castello a Torino con su scritto “Meglio morire da liberi che vivere da schiavi”, perché ricorda il “Meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecore” di mussoliniana memoria. Così come mi si drizzano i capelli quando sento i fascisti di Meloni o di Forza nuova levare il proprio inno alla libertà, perché so che la loro libertà è la pretesa degli autoproclamati Signori di vessare gli altri ridotti a Servi. Ma quelle piazze non sono riducibili solo a quell’anima nera, sono molto più eterogenee, trasversali, articolate, coacervo di sentimenti contraddittori, e per questo tanto più preoccupanti, perché parlano di una “crisi della  ragione” più vasta. Di un disorientamento più diffuso, se in tanti sentono di doversi mobilitare per danneggiare se e gli altri, credendo di difendere giustizia e libertà.

 

Per questo tento disperatamente di seguire l’amletico motto che ci dice che, nonostante tutto, “c’è della logica in questa follia”. O quantomeno bisogna cercarla. E il primo pezzo del dispositivo logico che sta dietro questo sconquasso si chiama “cultura del sospetto”. O meglio il ribaltamento di essa da raffinato strumento filosofico in “fenomeno Pop”. Con quell’espressione – la formulazione originaria era “la Scuola del sospetto” – il grande fenomenologo francese Paul Ricoeur aveva indicato il pensiero di “maestri” come Marx, Nietzsche, Freud, oltre a Schopenhauer che avevano insegnato, per vie diverse e divaricate, a non confondere le immagini di superficie con la verità, e a cercare “sotto” e “oltre” le narrazioni ufficiali (a lacerare, appunto, il “velo di Maya”). Quell’approccio – la motivata denuncia della “verità come menzogna” o, se si preferisce, della “falsa coscienza” coltivata a proprio vantaggio dal potere – aveva alimentato il pensiero critico delle minoranze ribelli novecentesche, delle avanguardie culturali e rivoluzionarie. Poi invece, nel nuovo passaggio di secolo, era diventato atteggiamento di massa, senso comune popolarizzato e aizzato dal web: diffidenza sistematica e disprezzo delle élites. Non senza ragioni (per spiegarlo): le menzogne del potere, delle sue classi dominanti, dei suoi mezzi di comunicazione, diventate totalizzanti negli ultimi decenni, sono sotto gli occhi di tutti. Ma senza l’uso della ragione per selezionare il vero e il falso. E per orientare i comportamenti di risposta che sono stati, appunto, quelli che vanno sotto il nome di populismo, orientati a una sorta di rozzo “fai da te” informativo e da una passiva dipendenza operativa dal demagogo di turno.

Le persone che riempivano quelle piazze erano state oggetto, per anni, per decenni, di false narrazioni da parte di detentori del potere (di  ogni potere, privato e pubblico) che presentavano come progresso il regresso, come paradiso il deserto delle anime, come benessere il loro business. Per anni erano state vittime dei raggiri e delle malversazioni di Big Pharma (lo possiamo negare? Abbiamo dimenticato la grande truffa vaccinale sull’ “aviaria”, 62 morti accertati nel mondo, e la speculazione miliardaria sul Paraflu?). Per anni opere inutili e costose erano state spacciate come indispensabili. Per decenni crimini di stato erano stati occultati da apparentemente inappuntabili funzionari pubblici… Ma nello stesso tempo, nella struttura materiale delle loro vite (flessibili, destrutturate e sempre più liquide), nelle forme essenziali della loro esistenza, erano state private degli strumenti indispensabili per ragionarci sopra, per praticare l’arte difficile della separazione tra gli elementi di un fenomeno, cosicché oggi non ci possiamo stupire se non riescono più a distinguere tra la truffa sugli antidepressivi e la risorsa salvifica di un vaccino. Tra la farmacologia come business e quella come cura. O, più in generale, tra la vocazione a mentire del potere così come praticata sistematicamente in questi decenni, e la necessità di alcune (rare) decisioni razionali di quello stesso potere, a cui sarebbe autodistruttivo sottrarsi.


Intendiamoci, non si tratta (necessariamente) di ignoranza o di ottusità. Certo gli imbecilli evocati da Eco e appunto messi all’onor del mondo su scala allargata da internet erano tanti in quelle piazze. Ma accanto a loro c’era una miriade di alfabetizzati, a loro modo “informati”, anzi portatori di un’eccedenza di mobilitazione informativa, di accanimento cognitivo, ognuno convinto di una verità autoprodotta e refrattaria alla validazione oggettiva perché strutturalmente privati del concetto stesso di oggettività in un universo esistenziale in cui la soggettività individualizzata è rimasta l’ultimo e solo protagonista in terra.

Non sono un’enclave arretrata, una minoranza prodotta da un incidente di percorso dell’ipermodernità tecnicizzata. Sono al contrario il tipo umano più proprio dell’epoca della tecnica fattasi assoluta. Di un mondo in cui “non sappiamo più cos’è ‘il bello’, cos’ è ‘il buono’, cos’è ‘il giusto’, cos’è ‘il virtuoso’, cos’è ‘il santo’ cos’è il vero'” – per usare una citazione di Umberto Galimberti – perché l’unica misura di tutto è diventata solo e soltanto ‘l’utile’. E all’occhio di quella misura tutto è sottoposto. La sottomissione come la critica. L’adesione da servi contenti come l’opposizione da “chi non la beve” perché sa “cosa c’è dietro”.

In quell’opera capitale, degli anni ’50, che è L’uomo è antiquato, Gűnter Anders aveva descritto il trionfo del “fare” (che è l’operare secondo standard) sull’”agire” (che implica invece una rilevanza dei fini rispetto ai mezzi) nel mondo della tecnica; e soprattutto aveva denunciato l’ “asincronizzazione tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande” e per questo rende impossibile l’assunzione di responsabilità per il proprio operato (il farsi carico moralmente del rapporto tra mezzi e fini) e, insieme, impedisce quell’”adaequatio rei et intellectus” che permetteva in passato di approdare a una qualche idea di verità. Walter Benjamin, a sua volta aveva segnalato quell’ “indigenza di nuova specie” che è la perdita della capacità di far davvero esperienza in cui si rivela “una nuova forma di barbarie” nella modernità. E in forza della quale – proprio per la separazione che si compie tra l’esistenza e quella relazione riflessiva col mondo che è l’”esperienza” – il circuito ermeneutico si avvita irrimediabilmente su se stesso nella fuga infinita delle interpretazioni, senza riuscire alla fine ad approdare a null’altro che al solipsismo del soggetto vuoto come solitario testimone del (proprio) vero. Per non parlare di quel fondamentale concetto introdotto da Theodor Adorno col temine tedesco “Verblendungszusammenhang”, che letteralmente significa “contesto delirante” ma che in questo caso viene tradotto come “nesso d’accecamento”: il processo sistematico di “rimozione” dalla coscienza universale dei tratti più propri del modello di vita contemporaneo ovvero della sua sostanziale insostenibilità e della sua insopportabile crudeltà (verso il pianeta e l’umanità), che è appunto la forma estrema della condizione alienata nell’epoca della sua piena generalizzazione, e insieme l’ostacolo primo a un autentico processo conoscitivo.

Ora, messe tutte insieme queste linee di riflessione, convergono nella descrizione di una condizione mentale massificata (per lo meno nell’Occidente sviluppato) segnata dalla “disperazione culturale” (quel “cultural despair” segnalato come centrale nelle crisi degli anni Trenta in Europa) e dall’incapacità d’immaginare un qualche oltrepassamento del proprio “cattivo presente”: gli ingredienti più tipici di un tempo in cui l’alienazione (intesa in senso marxiano) ha compito per intero il suo giro, e si è posta come stato assoluto. In questa luce, l’impazzimento dei popoli a cui assistiamo (non solo nelle piazze No Pass, ma nei deliri da vittoria calcistica, nelle movide selvagge in stato pandemico, nell’accanimento consumistico in tempi di conclamata insostenibilità, ecc. ecc.), cessa di stupire per rivelare la sua “logica”. E non è che un ultimo, tragico paradosso, il fatto che chi più accanitamente rappresenta se stesso come antidoto a quell’alienazione (refrattario al “pensiero unico”, ultimo residuo di resistenza all’omologazione voluta dal potere), ovvero gli sconsiderati protagonisti delle piazze No Pass siano in realtà i più estremi rappresentanti di una condizione tanto alienata da non riuscire a cogliere la minaccia mortale al proprio bios da parte del virus. E non saper più distinguere tra la difesa di una libertà sostanziale (in primo luogo quella di vivere) e l’accanimento su un feticcio.

Per tutto questo – perché la cosa è dura e tetra, le sue radici profonde e di improbo rimedio – non dissolveremo le nuvole minacciose che salgono da quelle piazze con gli esorcismi o le deprecazioni. Tantomeno confondendoci con quelle figure istituzionali che hanno enormi responsabilità nell’aver scavato l’abisso che oggi le separa da pezzi consistenti di società sfarinata. Se un luogo c’è, per quelli come noi, per lavorare, è al livello del suolo, dove le vite si compiono o si perdono, e dove solo il ricupero di esperienze autentiche di relazione e di lavoro può frenare la caduta.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento