La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
sabato 30 novembre 2019
soldati israeliani arrestano il ricercatore di B'Tselem che ha documentato la protesta contro un avamposto illegale in Cisgiordania - Amira Hass
I soldati
israeliani hanno arrestato un ricercatore dell' ONG israeliana B'Tselem
giovedì perché aveva fotografato una protesta contro un avamposto illegale in
Cisgiordania alcuni giorni prima..
Arif
Daraghmeh, 50 anni, della città palestinese di Tubas, in Cisgiordania ,
è stato arrestato al checkpoint di Tayasir, che di solito non è presidiato da
soldati. È stato rilasciato solo a tarda notte.
In nessun
momento della sua detenzione è stato ammanettato, il che dimostra che il
suo arresto era falso e che volevano intimidirlo.
Daraghmeh ha
raccontato di essere arrivato al posto di blocco in macchina
insieme ad alcuni amici. "I soldati ci hanno subito posto strane
domande, come se ci fosse qualche attività in programma .Hanno chiamato
un ufficiale dell'Amministrazione Civile, interessato a qualsiasi attività
pianificata nella Valle del Giordano."
Il ricercatore
di B'Tselem ha poi
sentito un ufficiale dell'esercito dire a un poliziotto che i soldati lo
avevano convocato per un video che lo riprendeva mentre partecipava
a una manifestazione il 26 ottobre contro l'avamposto di Shirat Ha'asavim nella
Valle del Giordano.
Dopo circa
un'ora e mezza gli amici di Daraghmeh sono stato autorizzati a partire, mentre
lui è stato portato in una base militare vicino all'insediamento di
Mehola. Ha detto che i soldati lo hanno lasciato seduto vicino al
cancello, al sole, senza ammanettarlo o trattenerlo in altro modo.
È stato
quindi inviato per un esame medico , come richiesto per ogni arresto, e il
medico lo ha inviato all'ospedale Haemek di Afula per ulteriori test
. Mentre si trovava in ospedale i soldati hanno copiato tutte le
foto del suo cellulare.
Verso le
22:00, Daraghmeh è stato portato alla stazione di polizia dell' insediamento di
Ariel in Cisgiordania per essere interrogato. Gli è stato domandato il
motivo della sua presenza sia alla protesta contro l'avamposto, sia a
quella organizzata vicino al villaggio di Ein al-Biddya. Lui
ha risposto che stava semplicemente facendo il suo lavoro come ricercatore
B'Tselem. È stato finalmente rilasciato alle 3 del mattino di venerdì.
Durante il
suo arresto gli avvocati Gabi Lasky e Itay Lasky hanno cercato di scoprire dove
fosse detenuto Daraghmeh, ma non hanno ricevuto risposte chiare dall'esercito e
dalla polizia.
La polizia
ha detto a Haaretz giovedì che le domande sull'arresto di Daraghmeh dovevano
essere poste all'Unità di portavoce delle forze di difesa israeliane.
che ha risposto solo venerdì.
"Durante
le operazioni di routine dell'IDF ,
un palestinese è stato arrestato con l'accusa di disturbare la
pace. Il detenuto è stato sottoposto a esami fisici in una
base militare, dopo di che è stato deciso di portarlo in ospedale."
L'avamposto
di Shirat Ha'asavim si sta espandendo dal 2016, nonostante gli ordini di stop
emessi.. Inoltre, recentemente, sono iniziati i lavori per una strada
che lo unirebbe a un altro avamposto illegale : Givat
Salit, in procinto di essere legalizzato. La strada viene anche
pavimentata senza permesso.
I pastori palestinesi affermano
che i pastori di Shirat Ha'asavim limitano l' accesso ai pascoli da
loro usati per decenni.
(articolo in lingua originale qui)
venerdì 29 novembre 2019
La pacchia di essere giornalista a Malta
Emergenza Malta: giornalisti sequestrati da delinquenti - Paolo Borrometi, Sandro Ruotolo
Siamo veramente preoccupati per quanto sta accadendo a Malta. La scorsa
notte, insieme a tutti gli altri colleghi (almeno una quarantina), siamo stati
letteralmente sequestrati dopo la conferenza stampa del Premier Joseph Muscat.
Un fatto di una gravità assoluta, come testimoniano le immagini. Sono stati
dieci minuti incredibili, sequestrati e bloccati senza una motivazione, fra le
urla delle colleghe maltesi che avevano riconosciuto chi ci bloccava.
Inizialmente pensavamo a poliziotti in borghese o uomini del secret service, apprendiamo invece che fossero picchiatori e criminali, pluripregiudicati, a quanto pare sostenitori del primo ministro maltese.
A Malta, evidentemente, non esistono regole valide per tutti, tranne quelle volute a uso e consumo dallo stretto gruppo di Muscat.
Nell’Isola rappresentiamo la Federazione Nazionale della Stampa italiana, quindi istituzionalmente:
Chiediamo al Premier Muscat di chiarire pubblicamente perché siamo stati sequestrati e di chiedere scusa.
Chiediamo all’Europa di intervenire subito: ciò che è accaduto la scorsa notte non ha precedenti in una Repubblica democratica, in un Paese che è a ottanta chilometri in linea d’aria dall’Italia, in uno Stato che dovrebbe essere parte integrante dell’Europa.
Chiediamo ai giornalisti di tutto il mondo, come annunciato nella nota del segretario Lorusso e del Presidente Giulietti, di denunciare quanto sta accadendo.
È una vergogna, non esiste lo stato di diritto a Malta.
Inizialmente pensavamo a poliziotti in borghese o uomini del secret service, apprendiamo invece che fossero picchiatori e criminali, pluripregiudicati, a quanto pare sostenitori del primo ministro maltese.
A Malta, evidentemente, non esistono regole valide per tutti, tranne quelle volute a uso e consumo dallo stretto gruppo di Muscat.
Nell’Isola rappresentiamo la Federazione Nazionale della Stampa italiana, quindi istituzionalmente:
Chiediamo al Premier Muscat di chiarire pubblicamente perché siamo stati sequestrati e di chiedere scusa.
Chiediamo all’Europa di intervenire subito: ciò che è accaduto la scorsa notte non ha precedenti in una Repubblica democratica, in un Paese che è a ottanta chilometri in linea d’aria dall’Italia, in uno Stato che dovrebbe essere parte integrante dell’Europa.
Chiediamo ai giornalisti di tutto il mondo, come annunciato nella nota del segretario Lorusso e del Presidente Giulietti, di denunciare quanto sta accadendo.
È una vergogna, non esiste lo stato di diritto a Malta.
Malta, Muscat alle corde.
Minacciati giornalisti italiani - Youssef Hassan Holgado
«Barra!»
urlano i manifestanti sotto al Palazzo del governo. Una delle tante parole
maltesi che derivano dall’arabo. Significa “fuori”. La società civile continua
a chiedere le dimissioni del premier Muscat, che secondo il Times of
Malta sembrano oramai imminenti. Inizierà una nuova corsa per la
leadership del Partito Laburista ma non si sa ancora se sarà il viceministro
Chris Fearne a sostituire eventualmente il primo ministro in attesa di nuove
elezioni.
Nelle ultime
ore nell’Isola è successo di tutto. Ieri mattina Muscat ha avuto un incontro
con il presidente della Repubblica George Vella, durante il quale gli avrebbe
comunicato le sue intenzioni di dimettersi. Soltanto poche ore prima i ministri
avevano deciso di non concedere la tanto discussa grazia a Yorgen Fenech,
considerato il mandante dell’assassinio di Daphne.
Fenech
avrebbe chiesto la sostituzione dell’ispettore Keith Arnaud visti i suoi
presunti legami con Schembri. Quest’ultimo, capo di gabinetto e braccio destro
di Muscat è stato accusato di essere il “mastermind” dietro l’intera vicenda.
Dopo averlo arrestato, la polizia lo ha rilasciato giovedì sera per mancanza di
prove.
Nel
pomeriggio di ieri, il primo ministro ha rilasciato un breve comunicato in cui
ha dichiarato di aver denunciato alla polizia il ricevimento di messaggi che lo
intimavano di concedere la grazia a Fenech, altrimenti i ricattatori avrebbero
pubblicato alcune chiamate tra il premier e l’imprenditore.
In giornata
è arrivata anche la decisione del Partito laburista di annullare la
manifestazione indetta per questa domenica a Fgura, cittadina situata nella
parte sud-orientale dell’Isola. Adrian Delia, leader del Partito nazionalista
d’opposizione, continua a chiedere le dimissioni per «ristabilire la normalità
all’interno del Paese». Scontate anche le dichiarazioni del parlamentare
nazionalista e avvocato della famiglia di Daphne, Jason Azzopardi, che qualche
giorno fa ha accusato Muscat di avere le mani sporche di sangue.
Il turmoil politico
di queste ore rischia di degenerare sempre di più. Ieri sera alcuni giornalisti
hanno denunciato di essere stati trattenuti senza alcuna motivazione dopo la
conferenza stampa del premier. Erano presenti anche gli italiani Paolo
Borrometi e Sandro Ruotolo. «Siamo stati sequestrati per parecchio tempo da un
manipolo di persone che non avevano nulla a che fare con la sicurezza del
Palazzo e che non rispondevano alle nostre domande» dichiara Ruotolo. «Alcuni –
continua – sono stati riconosciuti come pluripregiudicati, erano il servizio
d’ordine privato del premier». I due giornalisti erano lì in rappresentanza
della Fnsi da sempre in prima fila nel chiedere giustizia per Daphne. «In
questo momento l’opposizione non si fa vedere, nelle piazze ci sono solo
studenti e membri della società civile. Malta è una vigilata speciale per noi,
è un paese europeo e quindi è importante avere una presenza indipendente da
parte delle organizzazioni dei giornalisti» conclude Ruotolo. Presenza forte e
costante che ha portato una nazione intera a mobilitarsi contro i palazzi
corrotti del potere.
Noi giovani cileni: niente da perdere, i carri armati non ci fermeranno - Fernanda Soto Mastrantonio
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato
l’aumento del costo del trasporto pubblico a Santiago, una città dove vivono 8
milioni di abitanti. Il sistema dei trasporti e delle metropolitane è così
insufficiente che a volte hai 7-8 persone in un metro quadrato e impieghi fino
a due ore per tornare a casa, il servizio è pessimo. Immaginate quindi quando
hanno annunciato che ne avrebbero aumentato il prezzo a 30 pesos. Sono stati
gli studenti a dare il via alla protesta, a entrare in metro senza biglietto e
tutti li hanno sostenuti. I giovani da noi sono l’unica parte della società che
può permettersi di manifestare perché il resto della gente lavora 12 ore al
giorno per ottenere un salario minimo che le permette a stento di campare.
Ma se tu scendi in strada e chiedi, sono tutti dalla
parte dei manifestanti, anzi ti diranno: questi ragazzi lottano per tutti noi.
Il problema – va detto chiaramente – non sono i 30 pesos del biglietto della
metro ma sono gli ultimi trent’anni in cui abbiamo vissuto in democrazia ma la
disuguaglianza sociale è stata più grande e più forte dello sviluppo economico.
Finalmente oggi le persone si sono rese conto che è stata raccontata loro
un’enorme bugia: quando veniva detto che se avessero lavorato duramente, per
tante ore e fatto tutto quello che veniva loro richiesto avrebbero avuto un
futuro migliore. Una falsità. Oggi c’è poca speranza e la gente non ha più
nulla da perdere. Che importa allora distruggere le fermate della metro?
Nessuno si vuole più prestare al gioco dei potenti.
In fondo sono convinta che la nostra anima sia rimasta
sempre profondamente socialista, anche se piegata prima dalla dittatura e poi
dal neoliberismo. In questi trent’anni di democrazia, quest’anima non ha
ottenuto risposte e oggi, dopo il torpore causato dal terrore provato negli
anni della dittatura, si è svegliata. Certo, mi si spezza la voce se penso che
questa sera dovrò chiudermi in casa alle 8 e non potrò uscire fino a domani
mattina. L’ultima volta era accaduto con Pinochet e l’ultima volta che si erano
visti i carri armati in strada era stato quel maledetto settembre del 1973
quando uccisero Salvador Allende. Fa male a tutti pensare che stiamo ritornando
a quell’epoca, è un trauma per chi ha vissuto quell’orrore, ma adesso nessuno
di noi è disposto a ripiombare nel silenzio.
La mia generazione è nata nella democrazia e non ha
paura della mobilitazione sociale. I nostri genitori, invece, hanno subìto
tutti la violenza di Pinochet e da allora hanno smesso di manifestare. Dieci
anni fa in Cile ha preso il via un movimento studentesco enorme che ha lottato
e alla fine ottenuto che il governo si impegnasse per assicurare un’istruzione
pubblica. Si è trattato, però, di una piccola vittoria, come quella raggiunta
poco tempo fa dalle donne per rendere legale l’aborto: grazie alle proteste del
movimento femminista del quale faccio parte oggi, se c’è un rischio per la
madre o se una donna è stata violentata ha la possibilità di interrompere la
gravidanza. Certo è che in un Paese conservatore come il Cile siamo ancora
lontanissimi dal vedere riconosciuto pienamente questo diritto.
È vero quello che vi è stato raccontato: il Cile è un
Paese molto sviluppato economicamente, è una delle grandi economie dell’America
Latina. Le nostre città sono molto simili a quelle europee, però, quello che
non vi è stato raccontato abbastanza è che dalla fine della dittatura nel 1989
il nostro Paese ha adottato un sistema economico di neoliberismo estremo. Il
nostro sviluppo è stato costruito sulle diseguaglianze tanto che oggi siamo tra
i paesi più diseguali del mondo. L’avvicendarsi di governi di destra e di
sinistra non ha mai dato risposte alle necessità della gente. Abbiamo un
territorio enorme con 17 milioni di abitanti, in maggioranza di classe media e
con un 80% della popolazione che non trova soluzione alle proprie necessità:
non esiste sicurezza sociale, la sanità pubblica è assolutamente insufficiente,
non c’è un sistema previdenziale pubblico e per avere una buona istruzione devi
pagare scuole e università private. Non abbiamo niente.
Il nostro stipendio minimo è di circa 300mila pesos
vale a dire, più o meno, 400 euro, mentre il costo della vita è altissimo. Io
ho famiglia sia in Italia che in Spagna quindi viaggio tutti gli anni e veramente
vivere in Cile ha lo stesso costo che vivere in Italia. Mi riferisco a cose
fondamentali come andare a fare la spesa. Qui tutto è carissimo: quei 400 euro
mensili non bastano ad affittare un appartamento, a comprare da mangiare, a
vivere una vita dignitosa. Per questo il 70% dei cileni ha debiti con banche e
società finanziarie. Se non trovi un buon lavoro, non c’è nulla che tu possa
fare per te e per i tuoi. Allo stesso tempo, però, ci sono persone che si
arricchiscono: basti pensare che un politico guadagna 20 o 30 volte in più di
una persona comune. C’è un problema enorme anche con le pensioni: sono private
e il 90% di pensionati cileni ha un assegno inferiore ai 200 euro al mese. Così
continuano a lavorare anche se vecchi e anziani semplicemente perché devono
sopravvivere.
In questo contesto, due anni fa il governo di destra
ha avviato riforme che assottigliano ancora di più i nostri già limitati
diritti sociali: tutto è iniziato con un aumento dei costi dell’elettricità,
poi hanno iniziato ad attaccare la sanità. Sembra che si stiano prendendo gioco
delle persone. E la gente è stanca. Faccio un esempio: il Ministro della Sanità
ha dichiarato recentemente che tutto sommato ai cileni faceva piacere andare in
ospedale fin dalle 5 del mattino perché è un luogo di aggregazione dove poter
fare vita sociale. Affermazioni come queste rendono esattamente l’idea di
quanto la nostra classe politica sia disconnessa e lontana dai bisogni della
vita reale. Il mio ragazzo lavora in ospedale e vi assicuro che c’è gente che
aspetta 21 ore solo per ricevere una prima visita in pronto soccorso e l’80%
dei cileni si rivolge alla sanità pubblica che è letteralmente al collasso.
Oggi nell’ospedale più grande di Valparaiso non ci sono guanti né medicinali
eppure quando il presidente del Cile Sebastian Piñera partecipa ai vertici
internazionali racconta che il nostro Paese è perfetto e che siamo molto
sviluppati. Peccato non aggiunga che la disuguaglianza che c’è qua non riesci
neanche a immaginarla per quanto è enorme.
In questo momento la situazione è difficilissima,
complicata dal fatto che le proteste sono spontanee, diffuse, senza un leader,
nascono dalla rabbia e dall’esasperazione. La soluzione non sarà fare marcia
indietro sul costo dei biglietti del trasporto pubblico a Santiago ma
rispondere alle necessità del popolo cileno: alzare lo stipendio minimo,
garantire istruzione gratuita e di qualità, diritto alle cure e alla sanità,
pensioni dignitose. Noi, giovani cileni, non ci fermeremo.
(L’articolo è tratto da ilfuturoblog 21 ottobre
2019)
dice Daphne Caruana Galizia
La paura, purtroppo, è
il più grande nemico della libertà d’espressione – e di dialogo. Le persone non
dovrebbero essere mai colpite per aver esercitato il diritto legittimo di dire
ciò che pensano. Possiamo veramente definirci popolo democratico – invece di
governo democratico – quando più di noi lo fanno, senza temere le conseguenze.
Cosa stiamo a fare ancora in Iraq? - Piero Orteca
Signor Giuseppe Conte,
ci spiega, di grazia, cosa ci stiamo a fare ancora in Irak o in quel calderone
ribollente che è ormai diventata la gran parte del Medio Oriente? Che cambiali
dobbiamo pagare? E non ci venga a ripetere della “esportazione della
democrazia” o della educazione forzata di informi masse di nativi al verbo
occidentale. Perché a questa scusa, tra il patetico e il menzognero, non crede
più nessuno.
·
Negli ultimi mesi ci siamo sforzati di scrivere che gli scenari politici,
bellici ed economici in Medio Oriente non sono più quelli di trent’anni fa.
·
Quando, armiamoci e partite, partecipammo alla Prima guerra del Golfo con
un senso etico e diplomatico “borderline”.
·
Né sono quelli del 2003, quando Bush figlio si fece costruire a tavolino
dalla Cia le prove fasulle sulle presunte armi di distruzione di massa di
Saddam Hussein.
·
Abbiamo partecipato a quelle avventure belliche in maniera molto opinabile.
E abbiamo contribuito con molte giovani vite alla stabilizzazione di quelle
aree di crisi. Ma ora basta.
·
L’ultimo attentato di ieri è l’esempio più lampante che siamo nel posto
sbagliato nel momento sbagliato.
Signor Primo ministro, si legga i dossier
di tutti i servizi segreti occidentali, anche dei più scalcagnati (e non sono
certo i nostri) su quello che sta succedendo nel Medio Oriente. Ormai è una
partita di poker, dove è destinato a vincere il più cinico e dove la democrazia
e la libertà c’entrano come i cavoli a merenda.
Signor Giuseppe Conte, laggiù ci si
ammazza per il petrolio,eser per il gas, per il controllo di aree di influenza che
interessano esclusivamente le grandi potenze e le medie potenze di quell’area.
La questione curda, lo scontro mortale tra sunniti e sciiti sollevato dalla
dalle Primavere arabe, il secolare conflitto arabo-israeliano, il controllo
dello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico e di quello di Bab el Mandeb nel Mar
Rosso. E potremmo parlare ancora delle aspirazioni egemonistiche turche, del
ruolo dell’Iran e della spartizione dei pani e dei pesci nella Siria
martirizzata.
Là sono tutti in fila ad aspettare alla
cassa i dividendi di un intervento dove l’etica e la morale se le sono messe
tutti sotto i piedi. A cominciare dagli Stati Uniti e dalla Russia e
proseguendo con gli ex biechi colonizzatori (e decolonizzatori) francesi e
inglesi. Che ancora osano impartire lezioni di democrazia e di bon-ton
diplomatico dopo avere fatto carne di porco nei tre quarti del globo
terracqueo.
Signor Giuseppe Conte, che ci stanno a
fare (e a morire) ancora i nostri soldati in Medio Oriente? Ce lo spieghi. O se
la faccia spiegare lei prima di spiegarlo a noi. Ma non certo dal suo attuale
Ministro degli Esteri.
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giovedì 28 novembre 2019
L’esame di Stato della scuola
Come ti stravolgo la scuola. L’esame di Stato come sintomo del «sistema» -
Claudio Belloni
Da decenni
chi ha potere decisionale nella scuola inneggia all’“interdisciplinarietà”, e
quest’anno l’esame di Stato – da tempo non è più di “maturità” (le parole sono
importanti) – ha messo al centro della valutazione proprio questa “competenza”
(altra parola chiave del sistema ideologico che governa la scuola).
Il nostro
presidente di commissione – dopo aver partecipato alla riunione in cui i
presidenti ricevono dal provveditorato le indicazioni sulla conduzione
dell’esame (e quest’anno anche la retta interpretazione di una normativa quanto
meno confusa) – ci ha riferito:
1) l’orale
non è più un’interrogazione, ma un “colloquio”. I contenuti sono già stati
valutati dal consiglio di classe, dunque la commissione non deve valutare le
conoscenze, ma la capacità del candidato di spaziare da una disciplina
all’altra a partire dal contenuto della busta estratta;
2) per lo
stesso motivo non si possono fare domande, ma si deve valorizzare il candidato
lasciandolo parlare senza interrompere o interferire più di tanto;
3) il
colloquio ideale è quello in cui il candidato, da solo, riesce a trovare
collegamenti tra un argomento e l’altro tra le varie discipline. Per questo
motivo il documento contenuto nella busta da cui parte il colloquio deve essere
comprensibile immediatamente da chiunque e deve anche favorire, appunto, i
collegamenti tra le varie discipline. Ciò ha fatto sì che noi commissari siamo
stati costretti ad anticipare fin dalla scelta dei documenti quel gioco idiota
del passaggio pretestuoso da una disciplina all’altra con salti mortali
vergognosi. Cercando di immaginare quali associazioni libere avrebbe potuto
fare il candidato abbiamo dovuto aprire la strada allo stream of
consciousness;
4) alzare i
voti e cercare di dare il maggior numero possibile di 100, se possibile con la
lode. Dunque quelli bravi non vanno giudicati troppo severamente ma valorizzati
fin dalla correzione degli scritti. Motivo: in Puglia (sic!) danno un
sacco di 100 e di 100 e lode.
I
volenterosi carnefici della scuola
Il legame
balordo tra calcolo infinitesimale e l’Infinito di Leopardi, ad
esempio, può risultare un ottimo collegamento! Ho visto passare dal CLN
(Comitato di Liberazione Nazionale) alla “resistenza” di un circuito elettrico,
dall’imperialismo in Africa alla deriva dei continenti, dal passero solitario
alla spiegazione del motivo fisico per cui i passeri sul filo dell’alta
tensione non vengono arrostiti dalla corrente elettrica. So che è difficile da
credere, ma io c’ero. E se non riescono loro (gli studenti) a inventare questi
collegamenti geniali siamo spinti a farlo noi per loro: per condurre in modo
naturale (?) il colloquio verso nuovi temi e materie e, soprattutto, “per metterli
a loro agio”. Quando il candidato si arenava dopo aver parlato di un argomento,
a qualcuno di noi toccava chiedere: Cos’altro ti fa venire in mente lo stile di
Ungaretti di cui stavi parlando? O la dialettica hegeliana? O la fissione
nucleare? La bomba atomica! Bene, bravo: parlacene! Così, se il candidato è un
po’ sveglio, la domanda se la fa da solo e noi rispettiamo le indicazioni
ministeriali.
Se la
tendenza verrà confermata e consolidata dalle nostre autorità, assisteremo nei
prossimi anni al dispiegamento di una competenza che lo studente sicuramente
possiede: la capacità di adattamento e assestamento al ribasso. Sarà
sufficiente studiare un solo argomento per ogni materia e farsi venire in mente
proprio quello nella sequenza prestabilita per affrontare un brillante
colloquio d’esame. Del resto siamo spinti ad essere tutti imprenditori di noi
stessi e spopolano i consigli e le guide per far bella figura a un colloquio di
lavoro. Perché non cominciare prima?
Ho lavorato
in due commissioni diverse con due quinte diverse. Risultati: dopo un inizio
incerto abbiamo fatto più o meno come negli anni scorsi e non abbiamo dato più
di 94. Ma siamo insegnanti irrimediabilmente vecchi che si ostinano a valutare
i contenuti nonostante le indicazioni ricevute… fin che ce lo lasciano fare.
Questi pochi
squarci sulla deriva cui è stato sottoposto l’esame sono coerenti con la
politica generale della scuola degli ultimi decenni. Lo svilimento del senso
critico e la noncuranza per una solida formazione hanno origine nell’alto dei
cieli del potere, ma, mi piange il cuore ammetterlo, le direttive ministeriali
trovano uno stuolo di volenterosi esecutori: quasi tutti i presidi (istruiti a
obbedire e a trasmettere direttive, e incentivati anche economicamente a farlo
con zelo sempre maggiore) e un certo numero di insegnanti collaborazionisti.
Persino tra noi, che dovremmo essere un gruppo umano relativamente colto e
critico, taluni si bevono tutte le nuove riforme, parole d’ordine, linee
pedagogiche e ogni fuffa metodologica, pronti a cambiare parola d’ordine col
governo successivo. Mostrarsi zelanti ai dirigenti scolastici per costoro è un
istinto innato, ed ecco i volenterosi carnefici della scuola, quelli che fanno
i corsi di aggiornamento e poi imperversano sui colleghi, fanatici più realisti
del re.
Personalmente
cerco di resistere a questa deriva. Il problema è che le mie discipline (storia
e filosofia) hanno migliaia di anni, ma l’ultimo arrivato al ministero pensa di
poterne stravolgere l’insegnamento a piacere. Peraltro gli ultimi ministri sono
spesso sembrati gli utili idioti manovrati allo scopo di risparmiare per
spostare denaro altrove e per adattare la scuola alle esigenze dei mercati (giù
il cappello).
La scuola è
pericolosa, dunque va neutralizzata
Tutte le
ultime riforme/deforme della scuola sono coerenti con una visione del mondo che
non ha alcun interesse a coltivare popoli colti e capaci di pensiero critico e
autonomo. Il Novecento è stato un secolo troppo rischioso per i privilegiati e
non deve ripetersi mai più! Ogni riforma è sbandierata in nome della
democrazia, ci mancherebbe. Chi oggi non si direbbe “democratico”? Persino
Orban si definisce “democratico illiberale”.
Il metodo
più semplice per neutralizzare la scuola è intralciarla, impoverirla e
umiliarla; si può soffocare i docenti di inutile burocrazia e sommergere gli
studenti di iniziative straordinarie per impedire il lavoro ordinario, l’unico
serio. Qualunque sia il problema, ormai si demanda alla scuola: educazione
stradale, teatrale, musicale, educazione alla salute, all’affettività,
donazione di organi, giornate della memoria, incontri con i “maestri del
lavoro”, con volontari di ogni genere di lodevole iniziativa… Poi, se rimane
tempo, si studiano anche le derivate e l’Infinito di Leopardi, ma
nei ritagli di tempo tra un’iniziativa entusiasmante e un corso di recupero
obbligatorio.
Le élite
possono sempre studiare seriamente altrove o cooptare elementi da fuori, se
necessario. La scuola sta smettendo di funzionare come ascensore sociale.
Una scuola sgangherata
che non sviluppa un pensiero critico e una formazione solida non è solo un
problema di incuria, ma l’obiettivo di una visione lucida. La scuola è forse il
settore più delicato del welfare in generale. Lo stato sociale, frutto di
secoli di lotte, è una gigantesca forma di redistribuzione delle ricchezze. La
dimensione raggiunta da questo sistema in occidente è comprensibile,
storicamente, solo per la presenza della minaccia sovietica. I comunisti erano
brutti e cattivi, mangiavano pure i bambini, quindi, tanto più, faceva paura
quell’Impero che, nonostante tutto, illudeva e seduceva milioni di lavoratori
occidentali sprovveduti e masse di poveracci ingenui sparsi per il pianeta. Ora
quel pericolo non c’è più, quindi il welfare si può smantellare; l’opera è
avviata bene ed è solo questione di tempo, di farlo senza dirlo e se possibile
senza che se ne accorgano in troppi. Anche per questo la scuola è pericolosa.
Ma la scuola
è anche un dispositivo utilissimo e può essere riadattata; preziosa per educare
e già che ci siamo disciplinare fin da piccoli. Per le esigenze del mercato del
lavoro la scuola che funziona bene è quella che normalizza i caratteri, piega i
ribelli o li espelle, educa al realismo, insegna la puntualità e rende
familiare la terminologia aziendale dei debiti e dei crediti. Da quando è
diventata “buona” per legge, la scuola insegna la flessibilità (per es. ad
adattarsi a regole che cambiano in corso d’opera, per cui ci si iscrive a una
scuola che nel giro di cinque anni può cambiare anche due volte le regole del
gioco, le richieste, le imposizioni e persino l’esame finale), ma anche a
lavorare un po’ gratis, giusto quel che serve da piccoli, come il vaccino, per
non soffrirne poi troppo da grandi. Del resto, «la scuola deve preparare al mondo
del lavoro», lo dicono tutti. Ma ci siamo mai chiesti perché? Chi l’ha
stabilito? Quale scuola? Le riforme puntano a produrre esseri umani pronti a
entrare nel mondo del lavoro il giorno dopo quello del diploma o della laurea,
a tutti i livelli (dal tornitore all’ingegnere spaziale, dall’impiegato che sa
usare excel al genietto “smanettone” che inventa cose mirabili nella Silicon
Valley). Lavorare bene significa fare bene e rapidamente ciò che è richiesto e,
se possibile, migliorare la parte di lavoro di competenza. Nulla di male, sia
chiaro.
Però la
formazione che abbiamo coltivato negli ultimi millenni è un po’ più ambiziosa.
La differenza è tra preparare un buon tecnico e un essere umano a tutto tondo,
che, certo, può essere anche un buon tecnico, ci mancherebbe. Ma qui dipende
anche da che cosa si intende per “essere umano”
Un’opportunità per la storia - Matteo Saudino
Il decreto maturità firmato dal ministro Lorenzo Fioramonti il 21 novembre
2019 introduce due importanti novità rispetto all’esame di stato delineato meno
di un anno fa dall’allora ministro Marco Bussetti: ritorna il tema di
storia e spariscono le buste da scegliere per l’avvio del colloquio orale.
Si tratta di due modifiche all’apparenza modeste, ma in realtà estremamente
significative sul piano didattico che entreranno in vigore già nel 2020.
Il primo cambiamento è di natura sostanziale: reintrodurre nella
prima prova scritta di italiano la traccia di storia rappresenta un’importante
inversione di rotta dopo decenni di miopi controriforme scolastiche
che hanno tagliato, svuotato e umiliato gli studi storici nelle scuole
superiori, con l’eccezione del liceo classico. In un percorso di formazione
rivolto agli adolescenti che si apprestano a diventare adulti, invece, è più
che mai importante dare dignità e vigore alla storia, la quale non sarà forse
“magistra vitae”, ma è pur sempre una delle principali discipline in
grado di fornire conoscenze e strumenti critici per comprendere le complessità
della realtà in cui viviamo. Insegnare agli studenti a decodificare e
interpretare il presente, infatti, vuol dire offrire loro la preziosa
possibilità di stare al mondo più liberi e consapevoli. Inoltre, oggi, di
fronte al pericoloso e dilagante diffondersi di una fake history,
che volutamente crea confusione e relativismo al fine di alimentare e
giustificare odio, violenza e razzismo, ridare spazio alla storia in sede di
esame di stato significa conferire maggior robustezza allo studio del
Novecento, dalla cui conoscenza può sorgere un argine civile e democratico
rispetto alle ricorrenti barbarie che sempre si nutrono di ignoranza e
superficialità.
Tuttavia questi cambiamenti potranno realizzarsi solo se il ritorno del
tema storico non sarà interpretato semplicemente come un consolatorio e di
conseguenza effimero punto di arrivo per nobilitare lo studio della storia in
quinta superiore, bensì se esso rappresenterà uno stimolante punto di
partenza per rilanciarne complessivamente l’approccio critico,
l’approfondimento e la rielaborazione personale durante tutto il percorso
scolastico. Questa svolta necessita, però, di alcuni profondi mutamenti
nella didattica della storia stessa, la quale deve essere insegnata per
problemi e in maniera interdisciplinare, affrontando i grandi nodi e processi
del passato alla luce delle loro conseguenze e influenze nel presente. Ciò
ovviamente non implica appiattire gli avvenimenti di ieri sull’attualità, bensì
studiarli in modo attivo e laboratoriale, utilizzando fonti e documenti, in
modo da stimolare le connessioni con la realtà che ci circonda. La sfida è
rendere lo studio della storia a scuola utile e interessante senza ricorrere al
gossip e al sensazionalismo: sfida difficile ma che si può vincere facendo
emergere lo stimolo alla curiosità che è insita nella natura
della disciplina stessa.
Il secondo cambiamento è invece di natura formale, con evidenti ricadute
sostanziali: eliminare la scelta tra buste chiuse per avviare il colloquio significa,
infatti, uscire dalla logica del quiz televisivo, che dovrebbe
essere agli antipodi della valutazione di un percorso formativo scolastico.
Anche in questo caso tale piccolo mutamento dovrebbe essere l’occasione per
ripensare a come strutturare un insegnamento che non sia finalizzato ad un
modello prestativo quantitativo e competitivo, bensì a una crescita circolare
docente-studenti, fondata sul binomio qualitativo curiosità-apprendimento.
Se veramente pensiamo che gli studenti non siano vasi da riempire, ma fuochi da
accendere, dobbiamo avere il coraggio di non fare del voto numerico il
fulcro dell’istruzione, come invece ancora troppo spesso accade per
convinzione ideologica o per abitudine. La scuola deve essere un
laboratorio di idee e di pratiche e non di mera ripetizione di contenuti e le
ore di lezione devono essere la miccia che innesca coinvolgimento ed esplosioni
e non una stanca coercizione ad eseguire. Se per gli studenti il voto
diventa l’unico scopo dell’andare a scuola e la noia sistematica pervade il
loro tempo scolastico, viene meno ogni senso autentico della formazione. Ed è
inutile e dannoso nascondersi dietro frasi del tipo “ci siamo passati tutti”
oppure “nella vita ci sono cose che vanno fatte perché si devono fare, anche se
non ti piacciono”: questo può valere per una singola materia o per qualche
studente, ma se tale approccio investe la maggior parte degli allievi il
problema diventa pedagogicamente assai rilevante e come docenti dobbiamo
cercare e sperimentare nuove strade senza abbandonarci a tali sconfortanti
opacità.
In un mondo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura,
fare della scuola un luogo pubblico che sappia coinvolgere gli studenti in un
apprendimento critico, circolare e collaborativo potrebbe essere il modo più
lungimirante per gettare i semi di una democrazia che coniughi libertà, solidarietà e giustizia
sociale, unici antidoti contro le molteplici oppressioni che soffocano
le nostre vite.
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Il bivio delle sardine - Marco Bersani
Che il Capitano del Papeete, tutto ruspe, bacioni e rancore, sia rimasto
dapprima spiazzato e poi intimorito dalla comparsa di branchi di migliaia di
sardine, nel mare in burrasca dentro cui naviga questo Paese, non può che far
piacere.
Perché a chi da anni predica l’individualismo proprietario del
chiudersi in casa e difendersi dall’esterno, le sardine hanno risposto con la
ripresa delle piazze come luoghi dell’incontro collettivo.
Perché a chi da anni semina odio per raccogliere rancore elettorale, le
sardine hanno opposto la forza dell’ironia, che ha reso il re improvvisamente
nudo.
Perché a chi pensa che la società si sostanzi nella perenne competizione
dei forti contri i deboli, le sardine hanno risposto con il mare aperto
come luogo della cooperazione fra tutte e tutti.
C’è tuttavia un passaggio, nel manifesto delle sardine appena pubblicato
sui social, che non può che far riflettere problematicamente.
Ed è quando le sardine provano ad autoriconoscersi cosi:“siamo un popolo
di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre
famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello
sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e
come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale
e fisica), la creatività, l’ascolto”.
Parole senz’altro positive, speranzose, in qualche modo anche sagge, ma…..davvero
è questa la normalità della maggioranza delle persone di questo Paese?
Siamo un Paese dove tutti hanno una casa, una famiglia amorevole, un
lavoro, un’istruzione e una sanità adeguate, che consentano un tempo nel quale
impegnarsi nel volontariato e nello sport?
O siamo invece un popolo “spaesato”, con la precarietà come
quotidianità, la solitudine competitiva come orizzonte e un futuro che si fa
fatica ad immaginare?
Di cosa si alimenta il Capitano del Papeete, se non di questa frustrazione
sociale, che cerca di trasformare ogni giorno in strategia autoritaria e
razzista?
Il fatto è che le sardine hanno un grande pregio: quello di nuotare in mare
aperto, al punto che le si può incontrare sia lontano dalle coste, sia in acque
basse e prossime alla riva; ma hanno anche un difetto, quello di
nuotare senza mai avere alcun contatto con il fondale marino.
Quel fondale marino che dovranno ad un certo punto attraversare, se davvero
vogliono dare una risposta, non tanto al Capitano del Papeete, quanto a tutte
le persone che hanno fatto cortocircuito nel rancore, e che, invece di rivendicare
diritti e libertà, reclamano ordine e disciplina.
E’ questa la scommessa che, seppur appena nate, le sardine dovranno quasi
immediatamente giocare. Perché già un primo bivio le aspetta.
L’urgenza e la determinazione con cui si sono affacciate nelle piazze,
raccogliendo una domanda diffusa di nuovo protagonismo sociale, chiede loro di
prepararsi ad una prima mutazione: divenire salmoni, ovvero
pesci capaci di risalire la corrente, nuotando in direzione ostinata e
contraria al pensiero unico del mercato, che accomuna tanto il
Capitano del Papeete, quanto le forze politiche che ora governano.
L’alternativa è finire in scatola, con destinazione il
fuoco fatuo dei social, o come spezia della padella zingarettiana.
LA CIA ORCHESTRA LE PROTESTE NELLE NAZIONI SOVRANE PER DESTABILIZZARLE - Stephen Lendman (*)
L’Agenzia di intelligence centrale americana (CIA)
spesso orchestra le proteste in nazioni sovrane e indipendenti per
destabilizzarle, come scrive il noto scrittore e commentatore politico Stephen
Lendman.
Lendman sostiene che la CIA è
un’agenzia antidemocratica / anti-governativa incompatibile con la pace,
l’equità e la giustizia – nozioni alle quali ha giurato di opporsi.
Il suo playbook
include l’uso di squadroni della morte globali, orchestrando rivoluzioni e
colpi di stato a colori, assassinando leader stranieri, sostenendo despoti
amichevoli, operando prigioni segrete di tortura, accompagnando guerre di droni
e altre azioni ostili a ciò che le società libere e aperte hanno a cuore.
La stessa CIA e le altre agenzie
statunitensi manipolano o interferiscono in altro modo nelle elezioni
straniere, sono complici del crimine organizzato nel traffico illecito di
stupefacenti, spiano segretamente i cittadini degli Stati Uniti e si impegnano
in esperimenti di controllo mentale fisicamente dannosi e psicologicamente
paralizzanti – soggetti umani usati come inconsapevoli cavie.
Politici sporchi, funzionari
aziendali, accademici, capi del lavoro, grandi media, numerosi giornalisti,
gruppi di riflessione statunitensi e altre organizzazioni, nonché elementi del
clero sono complici delle sinistre attività della CIA.
Le mani sporche dell’agenzia
sono dappertutto azioni dirompenti vengono effettuate nelle nazioni mirate al
cambio di regime – con l’obiettivo che
i governi sovrani indipendenti siano sostituiti da governi fantoccio
filo-occidentali.
Da ultimo in Iran, lo scorso sabato, gli ultimi aumenti dei prezzi della benzina e razionamento in Iran hanno suscitato proteste. Manifestazioni pacifiche si sono svolte in diverse città iraniane con persone che hanno invitato il governo a invertire la sua decisione. Le manifestazioni, tuttavia, sono diventate violente in alcune città e sono stati segnalati scontri con le forze di sicurezza.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ex capo della CIA, ha espresso il suo sostegno ai manifestanti in Iran.
“Come ho detto al popolo iraniano quasi un anno e mezzo fa: gli Stati Uniti sono con te”, ha detto Pompeo, retwittando un tweet in lingua persiana che ha inviato nel luglio 2018 in cui si riferiva a un discorso fatto direttamente al Popolo iraniano.
Da ultimo in Iran, lo scorso sabato, gli ultimi aumenti dei prezzi della benzina e razionamento in Iran hanno suscitato proteste. Manifestazioni pacifiche si sono svolte in diverse città iraniane con persone che hanno invitato il governo a invertire la sua decisione. Le manifestazioni, tuttavia, sono diventate violente in alcune città e sono stati segnalati scontri con le forze di sicurezza.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ex capo della CIA, ha espresso il suo sostegno ai manifestanti in Iran.
“Come ho detto al popolo iraniano quasi un anno e mezzo fa: gli Stati Uniti sono con te”, ha detto Pompeo, retwittando un tweet in lingua persiana che ha inviato nel luglio 2018 in cui si riferiva a un discorso fatto direttamente al Popolo iraniano.
La Press TV ha chiesto a Lendman
se Pompeo e altri funzionari statunitensi stessero provando il dolore del
popolo iraniano e stessero provando empatia con loro o cercando di sfruttare la
situazione che era effettivamente causata a motivo delle severe sanzioni
economiche statunitensi sull’Iran.
“Spesso quando si verificano
proteste contro i governi sovrani indipendenti gli obiettivi statunitensi per
il cambio di regime, vengono orchestrati dalla CIA per destabilizzare le
nazioni”, ha detto Lendman a Press TV domenica.
“In passato è successo diverse
volte in Iran, con le mani sporche degli Stati Uniti che si allungano su di
loro. Sospetto qualcosa di simile avvenga ora.
Chiaramente, le mani sporche degli Stati Uniti sono protese costantemente per sobillare la situazione a Hong Kong, attaccando il ventre molle della Cina per cercare di destabilizzare e indebolire il paese ”, ha aggiunto.
Chiaramente, le mani sporche degli Stati Uniti sono protese costantemente per sobillare la situazione a Hong Kong, attaccando il ventre molle della Cina per cercare di destabilizzare e indebolire il paese ”, ha aggiunto.
“I leader della protesta hanno
incontrato la presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi e altri
funzionari statunitensi a Washington, e si sono riuniti anche con la
responsabile del consolato americano a Hong Kong”, ha detto.
“Le proteste in Bolivia dopo la
rielezione democratica del 20 ottobre di Evo Morales sono state orchestrate
dalla CIA, volendo farlo sostituire da una tirannia reazionaria
filo-occidentale , questo dal modo in cui le cose si sono svolte e a meno che
le proteste di massa pro-Morales non possano cambiare le cose”, ha osservato.
“Gli
Stati Uniti hanno scatenato rivoluzioni di colore in numerosi paesi da quando
hanno depositato Slobodan Milosevic in Serbia. La stessa cosa è
successa in Georgia, due volte in Ucraina, l’ultima volta nel 2014, e in altre
nazioni – in alcuni casi hanno avuto successo, in altri hanno fallito “, ha
detto l’analista.
“Numerose proteste si sono verificate a Mosca
e in altre città russe a seguito di un tentativo di rivoluzione di colore.
Queste operazioni sono tratte direttamente dal manuale della CIA, con altre
agenzie statunitensi coinvolte, in particolare utlizzando la dotazione
nazionale antidemocratica per la democrazia che e l’USAID “, ha affermato.
“Il primo colpo di stato della
CIA, ovviamente, fu contro l’Iran nel 1953, ce ne furono molti altri in Latino
America e in Asia fino alla prima rivoluzione a colori contro Milosevic in
Serbia, nel 1999, dopo molti altri tentativi riusciti e senza successo, incluso
quella fallita nel 2009, la cosiddetta Rivoluzione verde in Iran della CIA”, ha
ha concluso.
Qualunque paese voglia sottrarsi alla subalternità verso gli USA e pretenda di seguire “politiche economiche ortodosse” subisce prima o poi dei tentativi di destabilizzazione in varie forme, ha dichiarato Lendman.
Qualunque paese voglia sottrarsi alla subalternità verso gli USA e pretenda di seguire “politiche economiche ortodosse” subisce prima o poi dei tentativi di destabilizzazione in varie forme, ha dichiarato Lendman.
*Stephen Lendman è nato nel 1934 a
Boston, MA. Nel 1956, ha conseguito una laurea presso l’Università di Harvard.
servizio a prestato servizio presso l’esercito americano, ha vinto un MBA
presso la Wharton School presso l’Università della Pennsylvania nel 1960.
Lendman è un analista, scrittore che ha pubblicato opere sui principali
problemi mondiali e nazionali . Dall’inizio del 2007 è autore di un programma
radiofonico, il Progressive Radio News Hour sulla Progressive Radio Network
molto seguito negli USA. Lendman è vincitore del Project Censored del 2008 e
vincitore del premio giornalistico internazionale 2011 Mexican Club Club.
Fra le opere pubblicate [Flashpoint in Ukraine: How the US Drive for Hegemony Risks World War III]; Banker Occupation: Waging Financial War on Humanity (English Edition)16 gen. 2016; [(How Wall Street Fleeces America: Privatized Banking, Government Collusion and Class War )
Fra le opere pubblicate [Flashpoint in Ukraine: How the US Drive for Hegemony Risks World War III]; Banker Occupation: Waging Financial War on Humanity (English Edition)16 gen. 2016; [(How Wall Street Fleeces America: Privatized Banking, Government Collusion and Class War )
·
Fonte:
Stephen Lendman.org
·
Traduzione e
sintesi: Luciano Lago
mercoledì 27 novembre 2019
Natalino Balasso a teatro, forse
Trovo ora un articolo
che non avevo letto e finalmente capisco come si chiama sto tizio che, mi
dicono, sia presidente dello Stabile del Veneto, tal Beltotto che qualcuno mi
dice essere stato il portavoce di Zaia, che è stato il vice di Galan, che è
stato ingabbiato per mazzette, tanti soldi occultati, furti, ai danni della
collettività.
Come vedete, le cose vengono da lontano, e quando si parla di arte, non bisogna dimenticare che in questa nazione l’arte pubblica la finanziano i cittadini ma se ne impadronisce la politica, e se la politica è sta roba qua, fatta di “qua è tutto mio”, i risultati sono la stronzata di aprire la stagione dello Stabile con un giornalista di secondo piano che parla del 1919, così possiamo mettere Mussolini in locandina, tamorticani!
Non c’è mai un intento politico sia chiaro, mai! Accanto a questo articolo ne trovo uno del 2010, quando nell’inaugurazione di una scuola, fanno sentire il Va’ pensiero e non l’inno d’Italia, il tal Beltotto era portavoce di Zaia, quale risposta avrà dato secondo voi? intanto, da buon leccaculo veneto, si assume le responsabilità della cosa e dice che Zaia non c’entra niente e poi, ovviamente, aggiunge: “Non c'era alcun intento politico in tutto quel che è successo", non c’è mai un intento politico, gli intenti politici ce li hanno solo quelli che ci stanno sul cazzo!
Ma veniamo ai giorni nostri.
In pratica il Gazzettino di Treviso gli chiede come mai la Bancarotta di Vitaliano Trevisan (scrittore veneto di primo piano) tratta da Goldoni (commediografo veneto di primissimo piano) con Natalino Balasso (attore veneto di primo piano) non sia presente nei cartelloni dello stabile del Veneto. La placida risposta è: “Se non ti piace casa mia, a casa mia non ci vieni”.
Notate che a questi qua della Lega non gli frega un cazzo di dire a tutti che si sono impossessati dello stabile del Veneto e che hanno fatto un editto per non farmi lavorare nelle strutture pubbliche del veneto, ma questo m’interessa poco, questo qua dice una cosa ben più grave e non riguarda me, riguarda tutti:
Eh no, caro Beltotto! La vostra idea politica del qua xe tuto mio, così bene messa in pratica da Galan, non ha nulla a che fare con l’amministrazione delle cose pubbliche, il teatro stabile del Veneto, Beltotto, non è casa tua per un cazzo! Io capisco che se tu minacci di far perdere il lavoro a chi lavora là dentro, quelli poi ti dànno ragione come si fa coi matti, ma mi meraviglio che là dentro stiano tutti gobbi e chini e nessuno ti dica che lo Stabile del Veneto NON È CASA TUA.
E forse, se nessuno ti dice un cazzo e tutti eseguono quello che non avresti nemmeno l’autorità per pretendere, vuol dire che hai ragione tu. Hai ragione a mettere sullo stesso piano Cacciari e Veneziani, come avessero lo stesso talento, hai ragione a mettere sullo stesso piano Gramsci e Mussolini, ma sì, sono la stessa cosa, tutto fa brodo! Se il pubblico non si lamenta, se a tutti va bene così, se tutti trovano normale che in democrazia un tizio possa dire “Questa è casa mia” di un’istituzione che pagano loro stessi, questi veneti così codardi si meritano gente come te.
Ti do un consiglio per aprire la prosa stellare dell’anno prossimo, genio, ma sì basta con sti artisti di sinistra, vediamo chi c’è fra i talenti leghisti... nessuno...va ben, ma almeno qualcuno che dica qualcosa di fascio si può trovare, gli mettiamo dietro un’orchestra che si fa il culo così sembra teatro: dunque, Sallusti che legge i testi di Gigi D’Alessio (potrebbe cantare Gigi, ma purtroppo è straniero e quindi non si può fare) oppure la Meloni che fa il riff che ha rotto i coglioni sui social, così dimostriamo che anche noi di destra abbiamo l’autoironia, ma, che portino qualcosa però, che so, una boccia di vino, un cd, un par de voti, perché a CASA NOSTRA no se vien sensa dare qualcosa in cambio.
Come vedete, le cose vengono da lontano, e quando si parla di arte, non bisogna dimenticare che in questa nazione l’arte pubblica la finanziano i cittadini ma se ne impadronisce la politica, e se la politica è sta roba qua, fatta di “qua è tutto mio”, i risultati sono la stronzata di aprire la stagione dello Stabile con un giornalista di secondo piano che parla del 1919, così possiamo mettere Mussolini in locandina, tamorticani!
Non c’è mai un intento politico sia chiaro, mai! Accanto a questo articolo ne trovo uno del 2010, quando nell’inaugurazione di una scuola, fanno sentire il Va’ pensiero e non l’inno d’Italia, il tal Beltotto era portavoce di Zaia, quale risposta avrà dato secondo voi? intanto, da buon leccaculo veneto, si assume le responsabilità della cosa e dice che Zaia non c’entra niente e poi, ovviamente, aggiunge: “Non c'era alcun intento politico in tutto quel che è successo", non c’è mai un intento politico, gli intenti politici ce li hanno solo quelli che ci stanno sul cazzo!
Ma veniamo ai giorni nostri.
In pratica il Gazzettino di Treviso gli chiede come mai la Bancarotta di Vitaliano Trevisan (scrittore veneto di primo piano) tratta da Goldoni (commediografo veneto di primissimo piano) con Natalino Balasso (attore veneto di primo piano) non sia presente nei cartelloni dello stabile del Veneto. La placida risposta è: “Se non ti piace casa mia, a casa mia non ci vieni”.
Notate che a questi qua della Lega non gli frega un cazzo di dire a tutti che si sono impossessati dello stabile del Veneto e che hanno fatto un editto per non farmi lavorare nelle strutture pubbliche del veneto, ma questo m’interessa poco, questo qua dice una cosa ben più grave e non riguarda me, riguarda tutti:
Eh no, caro Beltotto! La vostra idea politica del qua xe tuto mio, così bene messa in pratica da Galan, non ha nulla a che fare con l’amministrazione delle cose pubbliche, il teatro stabile del Veneto, Beltotto, non è casa tua per un cazzo! Io capisco che se tu minacci di far perdere il lavoro a chi lavora là dentro, quelli poi ti dànno ragione come si fa coi matti, ma mi meraviglio che là dentro stiano tutti gobbi e chini e nessuno ti dica che lo Stabile del Veneto NON È CASA TUA.
E forse, se nessuno ti dice un cazzo e tutti eseguono quello che non avresti nemmeno l’autorità per pretendere, vuol dire che hai ragione tu. Hai ragione a mettere sullo stesso piano Cacciari e Veneziani, come avessero lo stesso talento, hai ragione a mettere sullo stesso piano Gramsci e Mussolini, ma sì, sono la stessa cosa, tutto fa brodo! Se il pubblico non si lamenta, se a tutti va bene così, se tutti trovano normale che in democrazia un tizio possa dire “Questa è casa mia” di un’istituzione che pagano loro stessi, questi veneti così codardi si meritano gente come te.
Ti do un consiglio per aprire la prosa stellare dell’anno prossimo, genio, ma sì basta con sti artisti di sinistra, vediamo chi c’è fra i talenti leghisti... nessuno...va ben, ma almeno qualcuno che dica qualcosa di fascio si può trovare, gli mettiamo dietro un’orchestra che si fa il culo così sembra teatro: dunque, Sallusti che legge i testi di Gigi D’Alessio (potrebbe cantare Gigi, ma purtroppo è straniero e quindi non si può fare) oppure la Meloni che fa il riff che ha rotto i coglioni sui social, così dimostriamo che anche noi di destra abbiamo l’autoironia, ma, che portino qualcosa però, che so, una boccia di vino, un cd, un par de voti, perché a CASA NOSTRA no se vien sensa dare qualcosa in cambio.
Chi mi conosce sa che je cherche la bagarre e siccome amo la
rissa, rispondo ai cazzotti di Beltotto.
Torno sull’argomento Stabile del Veneto di cui alla gente non frega un cazzo, perché, laddove ci sono stipendifici, le cose si fanno complicate.
Scrivo sulla mia paginetta facebook, non ho uffici stampa, non posso permettermeli, ben sapendo che come al solito i giornali non capiranno un cazzo e tradurranno il mio affetto verso il pubblico come la preoccupazione per il mio lavoro, maccheccazzo, io posso smettere di lavorare domani perché sono un uomo libero e posso vivere anche con niente, visto che non trattengo mai nulla e reinvesto sempre TUTTO quel che guadagno nella produzione del mio teatro e dei miei racconti video.
Dunque il presidente “quaxetutomio” Beltotto, si è risentito come una bambinetta dell’asilo a cui hanno tirato i codini e ha convocato mari e monti per stabilire l’unica Verità, la sua.
Beltotto, col “suo” ufficio stampa Golia di 9 persone pagato coi soldi dei cittadini, si dà da fare per rispondere a un Davide come me, è bugiardo e pensa che basti essere amicissimo dei direttori dei giornali per affermare, tranciando assai, che io sono stato lautamente retribuito dallo Stabile del Veneto e che non facendo spettacoli al Verdi e al Goldoni viene a mancare un’entrata importante per la mia famiglia. Sticazzi! Ovviamente secondo il suo canone ciellino della famiglia in cui l’uomo porta i soldi a casa.
Torno sull’argomento Stabile del Veneto di cui alla gente non frega un cazzo, perché, laddove ci sono stipendifici, le cose si fanno complicate.
Scrivo sulla mia paginetta facebook, non ho uffici stampa, non posso permettermeli, ben sapendo che come al solito i giornali non capiranno un cazzo e tradurranno il mio affetto verso il pubblico come la preoccupazione per il mio lavoro, maccheccazzo, io posso smettere di lavorare domani perché sono un uomo libero e posso vivere anche con niente, visto che non trattengo mai nulla e reinvesto sempre TUTTO quel che guadagno nella produzione del mio teatro e dei miei racconti video.
Dunque il presidente “quaxetutomio” Beltotto, si è risentito come una bambinetta dell’asilo a cui hanno tirato i codini e ha convocato mari e monti per stabilire l’unica Verità, la sua.
Beltotto, col “suo” ufficio stampa Golia di 9 persone pagato coi soldi dei cittadini, si dà da fare per rispondere a un Davide come me, è bugiardo e pensa che basti essere amicissimo dei direttori dei giornali per affermare, tranciando assai, che io sono stato lautamente retribuito dallo Stabile del Veneto e che non facendo spettacoli al Verdi e al Goldoni viene a mancare un’entrata importante per la mia famiglia. Sticazzi! Ovviamente secondo il suo canone ciellino della famiglia in cui l’uomo porta i soldi a casa.
Dunque, le bugie hanno gambe lunghissime sui giornali ma per
fortuna i giornali non li legge più nessuno, Beltotto, e le tue amicizie
democristiane con me non attaccano.
Rispondiamo dunque: la mia famiglia è un’impresa privata che riesce a mettere insieme, con uno spettacolo, non una, non due, ma 10 volte ciò che mi può dare uno Stabile, cosa che accetto perché mi piace fare spettacoli con la compagnia e perché mi fa piacere che attori e tecnici guadagnino qualcosina grazie a me anche laddove potrei benissimo rappresentare, come fanno quasi tutti quelli famosi e che ne sono capaci, un monologo per i fatti miei. Si chiama mercato, mi pare che i leghisti siano per il mercato, no? O è tutta una finta?
L’altra cosa che egli dice sapendo di mentire è alludere al fatto che sa “quanto l’abbiamo pagato” dice egli. A ridaje! Tu non mi hai pagato per un cazzo caro Beltotto, tu non hai tirato fuori una lira, tu i soldi li hai presi dal pubblico col tuo stipendio nel passato e te li sei tenuti nel privato. È molto facile dire quanto guadagnavo (a consuntivo di paga media giornaliera, poco più di 600 euro lordi, sui quali pagavo le tasse, e coi quali dovevo pagarmi viaggi, pasti fuori casa (e io mangio tanto!) e alberghi e sfido un altro attore del mio livello a dire che guadagnava meno!) se mettessi nel conteggio i giorni di prove, pagati molto ma molto meno, la cifra sarebbe anche più bassa, ma la cosa che il furbastro non dice è che, a fronte di quei 200 euro netti a giornata, il Verdi di Padova, per fare un esempio, incassava 15-20.000 euro al giorno e ti sfido, Beltotto, ad essere altrettanto produttivo, tu che vivi di chiacchiere e di soldi pubblici. Ogni 5000 euro lordi da me incassati ne ha prodotti solo in Veneto 150.000 per lo Stabile, se poi lo Stabile abbia speso tutto quel surplus da me prodotto per pagare la struttura, cioè gente molto meno produttiva di me e non gli artisti, non so che farci.
E il buon Ongaro, il taciturno direttore dello Stabile, che dovrebbe dirigere mentre pare che diriga tu per conto della Regione Veneto, ti può dire quanto ha dovuto penare per convincermi a proseguire le tournee con lo Stabile quando io, per campare, chiedevo invece tempo per poter fare i miei monologhi.
Rispondiamo dunque: la mia famiglia è un’impresa privata che riesce a mettere insieme, con uno spettacolo, non una, non due, ma 10 volte ciò che mi può dare uno Stabile, cosa che accetto perché mi piace fare spettacoli con la compagnia e perché mi fa piacere che attori e tecnici guadagnino qualcosina grazie a me anche laddove potrei benissimo rappresentare, come fanno quasi tutti quelli famosi e che ne sono capaci, un monologo per i fatti miei. Si chiama mercato, mi pare che i leghisti siano per il mercato, no? O è tutta una finta?
L’altra cosa che egli dice sapendo di mentire è alludere al fatto che sa “quanto l’abbiamo pagato” dice egli. A ridaje! Tu non mi hai pagato per un cazzo caro Beltotto, tu non hai tirato fuori una lira, tu i soldi li hai presi dal pubblico col tuo stipendio nel passato e te li sei tenuti nel privato. È molto facile dire quanto guadagnavo (a consuntivo di paga media giornaliera, poco più di 600 euro lordi, sui quali pagavo le tasse, e coi quali dovevo pagarmi viaggi, pasti fuori casa (e io mangio tanto!) e alberghi e sfido un altro attore del mio livello a dire che guadagnava meno!) se mettessi nel conteggio i giorni di prove, pagati molto ma molto meno, la cifra sarebbe anche più bassa, ma la cosa che il furbastro non dice è che, a fronte di quei 200 euro netti a giornata, il Verdi di Padova, per fare un esempio, incassava 15-20.000 euro al giorno e ti sfido, Beltotto, ad essere altrettanto produttivo, tu che vivi di chiacchiere e di soldi pubblici. Ogni 5000 euro lordi da me incassati ne ha prodotti solo in Veneto 150.000 per lo Stabile, se poi lo Stabile abbia speso tutto quel surplus da me prodotto per pagare la struttura, cioè gente molto meno produttiva di me e non gli artisti, non so che farci.
E il buon Ongaro, il taciturno direttore dello Stabile, che dovrebbe dirigere mentre pare che diriga tu per conto della Regione Veneto, ti può dire quanto ha dovuto penare per convincermi a proseguire le tournee con lo Stabile quando io, per campare, chiedevo invece tempo per poter fare i miei monologhi.
Una cosa che il tipo dimentica di dire è che la mia Cativìssima
è stato uno dei pochissimi spettacoli in attivo dello Stabile. Un’altra cosa
che si dimentica di dire è che ho rinunciato al mio compenso di regista (per
altro assai sotto costo) per redistribuire il corrispettivo agli attori della
compagnia e risarcirli un pochino delle paghe vergognose che dà loro lo
stabile. Un’altra cosa che si dimentica di dire è che io ho fatto una riunione
di fuoco per intimare allo Stabile di non fare i costumi a Venezia per una
produzione a Padova, spendendo 1600 euro solo per il trasporto, ma di spendere
molto ma molto meno. Queste sono cose che annoiano la gente, Beltotto lo sa,
quindi gli basta dire “sappiamo quanto gli abbiamo dato” e tacere di “quanto ci
ha fatto guadagnare e risparmiare”, per inciso, la vecchia abitudine di fare
costumi a Venezia con relativi costi è tornata puntuale l’anno dopo che io me
ne sono andato.
Ovvio che, per i burocrati come lui, un artista vale l’altro e il costo di un artista non può essere paragonato al costo di un ufficio stampa.
Ed è curioso che, pestando una merda colossale, si metta a parlar di soldi pubblici e di menzogne uno che, agli ultimi tempi del crack della banca vicentina, percepiva 180.000 euro l’anno come responsabile della comunicazione, in qualche modo per rassicurare i finanziatori sul fatto menzognero che tutto andava bene.
Beltotto è stato dentro al Mose, stipendiato con soldi pubblici; è stato dentro alle banche, stipendiato, lui sì, lautamente; è stato a dirigere la Fenice, altro pozzo senza fondo, stipendiato coi soldi pubblici; quando poi è salito in sella allo Stabile, lo Stabile del Veneto è stato pure declassato. Ma non è che porti un po’ sfiga?
Ma io credo di aver capito che quando parla di importanti introiti per la famiglia il tipo si riferisca alla sua, di famiglia, visto che fin da quando era alla Rai, a differenza di me, ha campato grazie ai soldi delle tasse dei cittadini.
Una cosa che ho capito dalla tua arroganza tutta leghista, Beltotto, è che dovrò persino stare attento a dire se qualcuno in Veneto è amico mio, perché potrebbe restare senza lavoro.
Ovvio che, per i burocrati come lui, un artista vale l’altro e il costo di un artista non può essere paragonato al costo di un ufficio stampa.
Ed è curioso che, pestando una merda colossale, si metta a parlar di soldi pubblici e di menzogne uno che, agli ultimi tempi del crack della banca vicentina, percepiva 180.000 euro l’anno come responsabile della comunicazione, in qualche modo per rassicurare i finanziatori sul fatto menzognero che tutto andava bene.
Beltotto è stato dentro al Mose, stipendiato con soldi pubblici; è stato dentro alle banche, stipendiato, lui sì, lautamente; è stato a dirigere la Fenice, altro pozzo senza fondo, stipendiato coi soldi pubblici; quando poi è salito in sella allo Stabile, lo Stabile del Veneto è stato pure declassato. Ma non è che porti un po’ sfiga?
Ma io credo di aver capito che quando parla di importanti introiti per la famiglia il tipo si riferisca alla sua, di famiglia, visto che fin da quando era alla Rai, a differenza di me, ha campato grazie ai soldi delle tasse dei cittadini.
Una cosa che ho capito dalla tua arroganza tutta leghista, Beltotto, è che dovrò persino stare attento a dire se qualcuno in Veneto è amico mio, perché potrebbe restare senza lavoro.
Come avete notato c’è un attore importantissimo di tutta la
vicenda che è stato tenuto fuori: il pubblico. Sì perché del pubblico, a sta
gente qua, non gliene frega un cazzo.
Io, caro Beltotto, gli spettacoli non li faccio né per la Regione, né per la Lega o qualsiasi altro partito, né per il mio ufficio stampa, io faccio spettacoli per il pubblico e se il pubblico smetterà di venire ai miei spettacoli io smetterò di fare questo lavoro perché, a differenza di te, io devo rispondere della gente che porto a teatro, io rispondo solo al pubblico (che è il mio unico e vero datore di lavoro) e non ho stipendio se non c’è incasso; per fare un esempio, per una serata in perdita come quella con Marcello Veneziani io ci avrei rimesso del mio. E quanto v’importi del teatro si capisce dal fatto che inaugurate la stagione di prosa con Cacciari o con Veneziani, cioè professori e giornalisti che invadono lo spazio degli artisti e che nulla c’entrano con il teatro.
Io, caro Beltotto, gli spettacoli non li faccio né per la Regione, né per la Lega o qualsiasi altro partito, né per il mio ufficio stampa, io faccio spettacoli per il pubblico e se il pubblico smetterà di venire ai miei spettacoli io smetterò di fare questo lavoro perché, a differenza di te, io devo rispondere della gente che porto a teatro, io rispondo solo al pubblico (che è il mio unico e vero datore di lavoro) e non ho stipendio se non c’è incasso; per fare un esempio, per una serata in perdita come quella con Marcello Veneziani io ci avrei rimesso del mio. E quanto v’importi del teatro si capisce dal fatto che inaugurate la stagione di prosa con Cacciari o con Veneziani, cioè professori e giornalisti che invadono lo spazio degli artisti e che nulla c’entrano con il teatro.
Io non do del tu alla
Regione, non dispongo di uffici stampa e strutture pagate lautamente coi soldi
pubblici perciò non ho più tempo di parlare di sta roba, a meno che non mi
rompi il cazzo Beltotto, perché mi so pajasso ma no mona.
Qualcosa c'è di marcio in questa azienda vinicola e noi non intendiamo l'uva. il vino Psagot - Gideon Levy e Alex Levac
Sembra una
scena toscana. Un'auto sportiva modello vintage e un SUV nero sono
parcheggiati di fronte a un palazzo con facciata in pietra e tetto verde,
incastonato tra i vigneti. L'acqua della piscina brilla alla luce
ardente. Le foglie sui filari delle viti - piantate in ordine esemplare e
sostenute da pali di ferro - sono ora marroni.
L'atmosfera
è tranquilla: un uccello cinguetta, c'è un'aura di bellezza,ma in realtà
uno dei luoghi più brutti e repellenti che si possano immaginare. La casa,
il vigneto, la piscina, le auto di fascia alta e il portico con vista
panoramica: tutto questo è situato su una proprietà privata saccheggiata dai
suoi proprietari. E non siamo in Toscana; siamo in un quartiere
criminale.
Questa è la
tenuta di Yaakov Berg, CEO della cantina Psagot, nella Cisgiordania centrale . La
casa di Berg si trova nella sezione 233 del blocco n. 17. Questa proprietà
appartiene a due sorelle, Amal e Keinat Quran e alla loro cugina, Karima
-ma non vi hanno accesso. L'uva è stata piantata nelle sezioni
219-220 di proprietà di Huria Quran, un' altra parente. Anche quella
piccola donna anziana non è in grado di raggiungere la sua proprietà.
È difficile
pensare a un odore più cattivo di quello che emana la cantina Psagot
o di marcio morale e legale più odioso di quello prevalente
nell'insediamento con lo stesso nome. Nessuna decisione
dell'amministrazione americana eliminerà quella brutta realtà.
La scorsa
settimana la Corte di giustizia europea ha stabilito che
l'Unione europea richiederà d'ora in poi che il locale dove viene
prodotto questo vino sia annotato sulla sua etichetta, insieme ad ogni altro
prodotto degli insediamenti, dopo che la cantina ha chiesto a un tribunale
francese di annullare tale requisito . Dopo la sentenza, il CEO Berg ha
dichiarato, secondo il quotidiano Maariv, di sentirsi "come un ebreo con
una stella gialla". Come il bambino che ha ucciso i suoi
genitori e chiesto pietà alla corte perché orfano, ha infranto l'ennesimo
incredibile record di sfacciataggine dei coloni.
Alcuni dei
proprietari terrieri espropriati, circa una dozzina di uomini e donne anziani,
sono seduti negli uffici municipali della vicina città di El Bireh, esaminando
una fotografia aerea delle loro terre e di ciò che ne rimane. Molti
detengono i loro atti di proprietà, debitamente autorizzati
dall'amministrazione civile del governo militare israeliano. Eppure il
colono Berg parla di una "stella gialla".
Può esserci un
vino più volgare di quello prodotto dalla cantina Psagot? C'è qualcosa di
più giustificato che etichettarlo e distinguerlo dai vini che non sono
prodotti nei territori? E cosa potrebbe esserci di più morale e nobile che
boicottarlo del tutto? Questo è il nuovo Migron, l'insediamento
originariamente costruito su terreni palestinesi privati nelle vicinanze,
smantellato nel 2012 e ricostruito qui, vicino alla cantina. La
cantina - fondata dall'attuale padre dell'amministratore delegato, Meir
Berg, immigrato dall'Unione Sovietica - si è trasferito qui nel 2009 per
espandere le sue attività e produrre circa 400.000 bottiglie di vino all'anno,
secondo i suoi annunci pubblicitari.
Un soldato
sorveglia il cancello d'ingresso dell'insediamento. Apparentemente questo
è il lavoro di un giovane tenente delle forze di difesa israeliane: alzare e
abbassare una barriera, al di fuori di un'azienda vinicola. Un cane da
guardia con un lungo guinzaglio di metallo abbaia furiosamente nel
cortile del centro visitatori vuoto dove, secondo il sito web della cantina,
sono disponibili gioiosi eventi familiari, conferenze e incontri, compresi i
pasti con asado argentino - “nel cuore di Paese."
Gli operai
edili palestinesi sono impegnati a costruire sempre più ville in questo nuovo
Migron. Le famiglie Hemo, Diamant, Weinberg e Halevy sono felici di vivere
qui. Scarabocchiato alla fermata dell'autobus all'uscita c'è lo slogan
"Rabbi Meir Kahane aveva ragione."
Psagot,
l'insediamento, è a pochi minuti di distanza. Una strada illegale che i
coloni hanno costruito con l'aiuto delle autorità la conduce da Migron. Dal
2003, Psagot è circondato da una recinzione elettrificata che arriva fino alla
strada. Sotto la copertura della recinzione questo insediamento canaglia
si espanse e sequestrò altri 550 dunam (138 acri) di terra privata dai suoi
proprietari palestinesi. La terra saccheggiata comprende 80 dunam
sequestrati da Yaakov Berg e dalla cantina Psagot, dove fu piantato il
vigneto e l'espropriazione continua.
Questa
settimana, Dror Etkes, il ricercatore esperto di insediamenti della ONG Kerem
Navot ( il fotografo Alex Levac è un membro del comitato esecutivo
dell'organizzazione), ha notato nuove quote di metallo nel terreno. Apparentemente
sono destinati a più viti e all'acquisizione di ancora più terra.
L'ingresso
al sempre crescente insediamento di Psagot racconta l'intera storia: resti di
terrazze agricole in rovina e frutteti avvizziti sono visibili lungo i lati
della sua strada di accesso recintata. L'agricoltura palestinese che
esisteva qui è un ricordo del passato.
Oltre la
casa di Berg c'è il cimitero di Psagot e poi un altro avamposto illegale di
case mobili, Mitzpe Ha'ai. Un'iscrizione sul cartello all'ingresso del
piccolo parco giochi trascurato di Psagot afferma: "Nome del proprietario:
Consiglio Regionale di Binyamin". Un'altra beffa della legge. Istituita
nel 1979 per compensare i coloni per il ritiro dal Sinai richiesto a
Israele nel trattato di pace con l'Egitto, uno degli scopi di
Psagot era soffocare il vicino El Bireh. Nel 1967, quest'ultimo aveva
una popolazione di 8.000 abitanti su un'area di 12.000 dunam (3.000
acri). Oggi la sua popolazione è di 82.000 abitanti, ma la sua area
si è ridotta a circa 10.500 dunam. In un punto, solo 30 metri ,separano
l'affollata città palestinese dalle case dei coloni.
Ad
attenderci nella moderna sala conferenze del comune di El Bireh c'è il membro
del consiglio comunale Muneif Treish insieme a circa una dozzina di altre
donne e uomini, residenti, tutti anziani; il più vecchio è l'89enne Odeh
Hama'il. Sono i proprietari della terra sulle quali sorge
Psagot. Treish, che parla fluentemente ebraico e inglese, stende sul
tavolo una grande fotografia aerea aggiornata di Psagot. A differenza di
altri luoghi i registri catastali conservati qui sono accurati.
Etkes
riferisce che Psagot era originariamente situato su una collina (psagot
significa picchi o vette in ebraico) in un sito che Israele aveva classificato
come terra di stato. Treish spiega che la terra fu acquistata dai suoi
proprietari nel 1965 dal governo della città di Gerusalemme est, poi
passata sotto il controllo giordano, per la costruzione di un resort
estivo per ricchi vacanzieri del Kuwait. La guerra del 1967, dove
Gerusalemme est passò sotto il controllo israeliano, tuttavia silurò quel piano
e in seguito la terra divenne "i territori del [sindaco di Gerusalemme]
Teddy Kollek" o "territorio dello stato", nella parlata
israeliana degli insediamenti .
Nel corso
degli anni, osserva Etkes, i 140 dunam originali assegnati a Psagot si sono
estesi a 655 dunam. Etkes ha mappe sul suo computer che mostrano
l'acquisizione fase per fase .In sintesi una breve storia di
espropriazione , ovviamente, sotto l'egida delle autorità israeliane, insieme
all'aggiunta di case mobili, barriere di sicurezza e così via. La terra
che aveva fatto parte del piano generale di El Bireh, divenne
l'insediamento di Psagot.
"Le
case mobili sono state installate in buona fede", afferma Treish, citando
una lettera che una volta ha ricevuto dal consulente legale
dell'Amministrazione Civile, che ha anche scritto: "li rimuoveremo al più
presto possibile". Aspetta ancora .
La vista
degli anziani nella sala del consiglio è straziante. Quasi tutti
sono vestiti in abiti tradizionali, con la testa coperta da fazzoletti e
kaffiyeh. Sono convinti che il giornalista eil fotografo israeliano
possano far restituire la loro terra. Nei loro cuori non hanno mai
rinunciato.
Come diceva
Treish, "Finché saremo qui, non smetteremo mai di lottare". I
proprietari terrieri originali erano circa 100. Si trattava di piccoli
appezzamenti di terra, frutteti, uliveti, proprietà accumulate nel corso di
diverse generazioni.
Thaisir
Hama'il non è più sulla sua terra dal 1992. Mustafa Samarin riferisce che dopo
l'istituzione iniziale di Psagot, fu ancora in grado di raggiungere la sua
proprietà, ma poi iniziò a essere cacciato: prima sotto la minaccia di
armi e cani e infine a causa della barriera di sicurezza che ha
bloccato completamente i Palestinesi. Alcuni membri del gruppo di
proprietari terrieri si recano ogni anno presso l'amministrazione civile
(israeliana) e ottengono una nuova conferma ufficiale della loro proprietà,
debitamente timbrata e firmata. Nella loro ingenuità, pensano che ciò dia
loro una sorta di diritti sulla loro terra perduta.
Questa
settimana Etkes ha twittato: “I proprietari della cantina Psagot devono il
successo a diversi fattori: all'IDF che ha costruito la recinzione
attorno a Psagot; all'Amministrazione Civile che non li ha
sfrattati ; alla polizia, che non li ha sottoposti a processo; ai
miliardari Falic
Brothers di Miami, in Florida che sono entrati come
soci nell'impresa ; e alla Israel Water Authority che ha assegnato
decine di milioni di litri cubi di acqua per l'irrigazione. "
Lo scorso 1
luglio i giornalisti Uri Blau e Josef Federman hanno pubblicato
un rapporto investigativo per l'Associated Press sul coinvolgimento
dei Falic
Brothers nell'impresa
insediativa , incluso il loro supporto a elementi di
estrema destra violenti e la parziale proprietà dell'azienda
Psagot. Il 6 luglio il quotidiano britannico Independent ha anche
pubblicato un rapporto sulla famiglia che possiede una vasta rete di
negozi duty-free negli Stati Uniti. Quell'articolo si concentrava
sull'acquisizione del controllo della cantina, dove hanno investito più
di un milione di dollari, attraverso una società fondata a
Panama. Hanno acquistato poco più della metà delle quote dell'azienda, diventando azionisti di maggioranza.
Le donne
della famiglia sanno cosa è sorto sulla loro terra: la cantina, i
vigneti, la tenuta? Tutto quello che sanno è ciò che sentono da Dror
Etkes.
A seguito
della decisione dell'UE sull'etichettatura della scorsa settimana, Berg ha
dichiarato a Haaretz: “Come ebrei e israeliani, vediamo il nostro
lavoro come una grande missione. Abbiamo agito come israeliani che vivono
in una comunità fondata con l'approvazione del governo [israeliano] e che
cercano solo di produrre ed esportare vino di grande qualità in
tutto il mondo ".
Facciamo un
brindisi a questo entusiasmante sforzo sionista. Ora, almeno, gli europei
conosceranno l'origine del "vino di grande qualità" di Psagot.
da qui
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