sabato 30 novembre 2019

Alessandro Barbero - La bancarotta dello Stato: le cause della rivoluzione francese

LA SCUOLA TI VUOLE MEDIOCRE - Enzo Pennetta

soldati israeliani arrestano il ricercatore di B'Tselem che ha documentato la protesta contro un avamposto illegale in Cisgiordania - Amira Hass



I soldati israeliani hanno arrestato un ricercatore dell' ONG israeliana B'Tselem  giovedì perché aveva fotografato una protesta contro un avamposto illegale in Cisgiordania alcuni giorni prima..
Arif Daraghmeh, 50 anni, della città palestinese   di Tubas, in Cisgiordania , è stato arrestato al checkpoint di Tayasir, che di solito non è presidiato da soldati. È stato rilasciato solo a tarda notte.
In nessun momento della sua detenzione è stato ammanettato, il che  dimostra che il suo arresto era falso e che volevano  intimidirlo.
Daraghmeh ha raccontato di essere arrivato  al posto di blocco in macchina  insieme ad alcuni amici. "I soldati ci hanno subito posto strane domande, come se ci fosse qualche attività in programma  .Hanno chiamato un ufficiale dell'Amministrazione Civile, interessato a qualsiasi attività pianificata nella Valle del Giordano."
Il   ricercatore di B'Tselem ha poi sentito un ufficiale dell'esercito dire a un poliziotto che i soldati lo avevano convocato per un  video che lo riprendeva mentre  partecipava a una manifestazione il 26 ottobre contro l'avamposto di Shirat Ha'asavim nella Valle del Giordano.
Dopo circa un'ora e mezza gli amici di Daraghmeh sono stato autorizzati a partire, mentre lui è stato portato in una base militare vicino all'insediamento di Mehola. Ha detto che i soldati lo hanno lasciato seduto vicino al cancello, al sole, senza ammanettarlo o trattenerlo in altro modo.
È stato quindi inviato per un esame medico , come richiesto per ogni arresto, e il medico lo ha inviato all'ospedale Haemek di Afula per ulteriori test . Mentre si trovava in ospedale  i soldati hanno copiato tutte le foto  del suo cellulare.
Verso le 22:00, Daraghmeh è stato portato alla stazione di polizia dell' insediamento di Ariel in Cisgiordania per essere interrogato. Gli è stato domandato il motivo della sua presenza sia  alla protesta contro l'avamposto, sia a quella  organizzata vicino al villaggio di Ein al-Biddya. Lui  ha risposto che stava semplicemente facendo il suo lavoro come ricercatore B'Tselem. È stato finalmente rilasciato alle 3 del mattino di venerdì.
Durante il suo arresto gli avvocati Gabi Lasky e Itay Lasky hanno cercato di scoprire dove fosse detenuto Daraghmeh, ma non hanno ricevuto risposte chiare dall'esercito e dalla polizia.
La polizia ha detto a Haaretz giovedì che le domande sull'arresto di Daraghmeh dovevano essere poste all'Unità di portavoce delle forze di difesa israeliane. che ha risposto solo venerdì.
"Durante le  operazioni di routine  dell'IDF , un palestinese è stato arrestato con l'accusa di disturbare la pace.  Il  detenuto è stato sottoposto a esami fisici in una base militare, dopo di che è stato deciso di portarlo in ospedale."
L'avamposto di Shirat Ha'asavim si sta espandendo dal 2016, nonostante gli ordini di stop emessi.. Inoltre, recentemente, sono iniziati i lavori per una strada che  lo unirebbe  a  un altro avamposto illegale : Givat Salit,  in procinto di essere legalizzato. La strada viene anche pavimentata senza permesso.
I  pastori palestinesi affermano che i pastori di Shirat Ha'asavim  limitano l' accesso ai pascoli  da loro  usati per decenni.

(articolo in lingua  originale  qui)


venerdì 29 novembre 2019

La pacchia di essere giornalista a Malta


Emergenza Malta: giornalisti sequestrati da delinquenti - Paolo Borrometi, Sandro Ruotolo

Siamo veramente preoccupati per quanto sta accadendo a Malta. La scorsa notte, insieme a tutti gli altri colleghi (almeno una quarantina), siamo stati letteralmente sequestrati dopo la conferenza stampa del Premier Joseph Muscat. Un fatto di una gravità assoluta, come testimoniano le immagini. Sono stati dieci minuti incredibili, sequestrati e bloccati senza una motivazione, fra le urla delle colleghe maltesi che avevano riconosciuto chi ci bloccava.
Inizialmente pensavamo a poliziotti in borghese o uomini del secret service, apprendiamo invece che fossero picchiatori e criminali, pluripregiudicati, a quanto pare sostenitori del primo ministro maltese.
A Malta, evidentemente, non esistono regole valide per tutti, tranne quelle volute a uso e consumo dallo stretto gruppo di Muscat.
Nell’Isola rappresentiamo la Federazione Nazionale della Stampa italiana, quindi istituzionalmente:
Chiediamo al Premier Muscat di chiarire pubblicamente perché siamo stati sequestrati e di chiedere scusa.
Chiediamo all’Europa di intervenire subito: ciò che è accaduto la scorsa notte non ha precedenti in una Repubblica democratica, in un Paese che è a ottanta chilometri in linea d’aria dall’Italia, in uno Stato che dovrebbe essere parte integrante dell’Europa.
Chiediamo ai giornalisti di tutto il mondo, come annunciato nella nota del segretario Lorusso e del Presidente Giulietti, di denunciare quanto sta accadendo.
È una vergogna, non esiste lo stato di diritto a Malta.


Malta, Muscat alle corde. Minacciati giornalisti italiani - Youssef Hassan Holgado

«Barra!» urlano i manifestanti sotto al Palazzo del governo. Una delle tante parole maltesi che derivano dall’arabo. Significa “fuori”. La società civile continua a chiedere le dimissioni del premier Muscat, che secondo il Times of Malta sembrano oramai imminenti. Inizierà una nuova corsa per la leadership del Partito Laburista ma non si sa ancora se sarà il viceministro Chris Fearne a sostituire eventualmente il primo ministro in attesa di nuove elezioni.
Nelle ultime ore nell’Isola è successo di tutto. Ieri mattina Muscat ha avuto un incontro con il presidente della Repubblica George Vella, durante il quale gli avrebbe comunicato le sue intenzioni di dimettersi. Soltanto poche ore prima i ministri avevano deciso di non concedere la tanto discussa grazia a Yorgen Fenech, considerato il mandante dell’assassinio di Daphne.
Fenech avrebbe chiesto la sostituzione dell’ispettore Keith Arnaud visti i suoi presunti legami con Schembri. Quest’ultimo, capo di gabinetto e braccio destro di Muscat è stato accusato di essere il “mastermind” dietro l’intera vicenda. Dopo averlo arrestato, la polizia lo ha rilasciato giovedì sera per mancanza di prove.
Nel pomeriggio di ieri, il primo ministro ha rilasciato un breve comunicato in cui ha dichiarato di aver denunciato alla polizia il ricevimento di messaggi che lo intimavano di concedere la grazia a Fenech, altrimenti i ricattatori avrebbero pubblicato alcune chiamate tra il premier e l’imprenditore.
In giornata è arrivata anche la decisione del Partito laburista di annullare la manifestazione indetta per questa domenica a Fgura, cittadina situata nella parte sud-orientale dell’Isola. Adrian Delia, leader del Partito nazionalista d’opposizione, continua a chiedere le dimissioni per «ristabilire la normalità all’interno del Paese». Scontate anche le dichiarazioni del parlamentare nazionalista e avvocato della famiglia di Daphne, Jason Azzopardi, che qualche giorno fa ha accusato Muscat di avere le mani sporche di sangue.
Il turmoil politico di queste ore rischia di degenerare sempre di più. Ieri sera alcuni giornalisti hanno denunciato di essere stati trattenuti senza alcuna motivazione dopo la conferenza stampa del premier. Erano presenti anche gli italiani Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo. «Siamo stati sequestrati per parecchio tempo da un manipolo di persone che non avevano nulla a che fare con la sicurezza del Palazzo e che non rispondevano alle nostre domande» dichiara Ruotolo. «Alcuni – continua – sono stati riconosciuti come pluripregiudicati, erano il servizio d’ordine privato del premier». I due giornalisti erano lì in rappresentanza della Fnsi da sempre in prima fila nel chiedere giustizia per Daphne. «In questo momento l’opposizione non si fa vedere, nelle piazze ci sono solo studenti e membri della società civile. Malta è una vigilata speciale per noi, è un paese europeo e quindi è importante avere una presenza indipendente da parte delle organizzazioni dei giornalisti» conclude Ruotolo. Presenza forte e costante che ha portato una nazione intera a mobilitarsi contro i palazzi corrotti del potere.

Noi giovani cileni: niente da perdere, i carri armati non ci fermeranno - Fernanda Soto Mastrantonio




La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento del costo del trasporto pubblico a Santiago, una città dove vivono 8 milioni di abitanti. Il sistema dei trasporti e delle metropolitane è così insufficiente che a volte hai 7-8 persone in un metro quadrato e impieghi fino a due ore per tornare a casa, il servizio è pessimo. Immaginate quindi quando hanno annunciato che ne avrebbero aumentato il prezzo a 30 pesos. Sono stati gli studenti a dare il via alla protesta, a entrare in metro senza biglietto e tutti li hanno sostenuti. I giovani da noi sono l’unica parte della società che può permettersi di manifestare perché il resto della gente lavora 12 ore al giorno per ottenere un salario minimo che le permette a stento di campare.
Ma se tu scendi in strada e chiedi, sono tutti dalla parte dei manifestanti, anzi ti diranno: questi ragazzi lottano per tutti noi. Il problema – va detto chiaramente – non sono i 30 pesos del biglietto della metro ma sono gli ultimi trent’anni in cui abbiamo vissuto in democrazia ma la disuguaglianza sociale è stata più grande e più forte dello sviluppo economico. Finalmente oggi le persone si sono rese conto che è stata raccontata loro un’enorme bugia: quando veniva detto che se avessero lavorato duramente, per tante ore e fatto tutto quello che veniva loro richiesto avrebbero avuto un futuro migliore. Una falsità. Oggi c’è poca speranza e la gente non ha più nulla da perdere. Che importa allora distruggere le fermate della metro? Nessuno si vuole più prestare al gioco dei potenti.
In fondo sono convinta che la nostra anima sia rimasta sempre profondamente socialista, anche se piegata prima dalla dittatura e poi dal neoliberismo. In questi trent’anni di democrazia, quest’anima non ha ottenuto risposte e oggi, dopo il torpore causato dal terrore provato negli anni della dittatura, si è svegliata. Certo, mi si spezza la voce se penso che questa sera dovrò chiudermi in casa alle 8 e non potrò uscire fino a domani mattina. L’ultima volta era accaduto con Pinochet e l’ultima volta che si erano visti i carri armati in strada era stato quel maledetto settembre del 1973 quando uccisero Salvador Allende. Fa male a tutti pensare che stiamo ritornando a quell’epoca, è un trauma per chi ha vissuto quell’orrore, ma adesso nessuno di noi è disposto a ripiombare nel silenzio.
La mia generazione è nata nella democrazia e non ha paura della mobilitazione sociale. I nostri genitori, invece, hanno subìto tutti la violenza di Pinochet e da allora hanno smesso di manifestare. Dieci anni fa in Cile ha preso il via un movimento studentesco enorme che ha lottato e alla fine ottenuto che il governo si impegnasse per assicurare un’istruzione pubblica. Si è trattato, però, di una piccola vittoria, come quella raggiunta poco tempo fa dalle donne per rendere legale l’aborto: grazie alle proteste del movimento femminista del quale faccio parte oggi, se c’è un rischio per la madre o se una donna è stata violentata ha la possibilità di interrompere la gravidanza. Certo è che in un Paese conservatore come il Cile siamo ancora lontanissimi dal vedere riconosciuto pienamente questo diritto.
È vero quello che vi è stato raccontato: il Cile è un Paese molto sviluppato economicamente, è una delle grandi economie dell’America Latina. Le nostre città sono molto simili a quelle europee, però, quello che non vi è stato raccontato abbastanza è che dalla fine della dittatura nel 1989 il nostro Paese ha adottato un sistema economico di neoliberismo estremo. Il nostro sviluppo è stato costruito sulle diseguaglianze tanto che oggi siamo tra i paesi più diseguali del mondo. L’avvicendarsi di governi di destra e di sinistra non ha mai dato risposte alle necessità della gente. Abbiamo un territorio enorme con 17 milioni di abitanti, in maggioranza di classe media e con un 80% della popolazione che non trova soluzione alle proprie necessità: non esiste sicurezza sociale, la sanità pubblica è assolutamente insufficiente, non c’è un sistema previdenziale pubblico e per avere una buona istruzione devi pagare scuole e università private. Non abbiamo niente.
Il nostro stipendio minimo è di circa 300mila pesos vale a dire, più o meno, 400 euro, mentre il costo della vita è altissimo. Io ho famiglia sia in Italia che in Spagna quindi viaggio tutti gli anni e veramente vivere in Cile ha lo stesso costo che vivere in Italia. Mi riferisco a cose fondamentali come andare a fare la spesa. Qui tutto è carissimo: quei 400 euro mensili non bastano ad affittare un appartamento, a comprare da mangiare, a vivere una vita dignitosa. Per questo il 70% dei cileni ha debiti con banche e società finanziarie. Se non trovi un buon lavoro, non c’è nulla che tu possa fare per te e per i tuoi. Allo stesso tempo, però, ci sono persone che si arricchiscono: basti pensare che un politico guadagna 20 o 30 volte in più di una persona comune. C’è un problema enorme anche con le pensioni: sono private e il 90% di pensionati cileni ha un assegno inferiore ai 200 euro al mese. Così continuano a lavorare anche se vecchi e anziani semplicemente perché devono sopravvivere.
In questo contesto, due anni fa il governo di destra ha avviato riforme che assottigliano ancora di più i nostri già limitati diritti sociali: tutto è iniziato con un aumento dei costi dell’elettricità, poi hanno iniziato ad attaccare la sanità. Sembra che si stiano prendendo gioco delle persone. E la gente è stanca. Faccio un esempio: il Ministro della Sanità ha dichiarato recentemente che tutto sommato ai cileni faceva piacere andare in ospedale fin dalle 5 del mattino perché è un luogo di aggregazione dove poter fare vita sociale. Affermazioni come queste rendono esattamente l’idea di quanto la nostra classe politica sia disconnessa e lontana dai bisogni della vita reale. Il mio ragazzo lavora in ospedale e vi assicuro che c’è gente che aspetta 21 ore solo per ricevere una prima visita in pronto soccorso e l’80% dei cileni si rivolge alla sanità pubblica che è letteralmente al collasso. Oggi nell’ospedale più grande di Valparaiso non ci sono guanti né medicinali eppure quando il presidente del Cile Sebastian Piñera partecipa ai vertici internazionali racconta che il nostro Paese è perfetto e che siamo molto sviluppati. Peccato non aggiunga che la disuguaglianza che c’è qua non riesci neanche a immaginarla per quanto è enorme.
In questo momento la situazione è difficilissima, complicata dal fatto che le proteste sono spontanee, diffuse, senza un leader, nascono dalla rabbia e dall’esasperazione. La soluzione non sarà fare marcia indietro sul costo dei biglietti del trasporto pubblico a Santiago ma rispondere alle necessità del popolo cileno: alzare lo stipendio minimo, garantire istruzione gratuita e di qualità, diritto alle cure e alla sanità, pensioni dignitose. Noi, giovani cileni, non ci fermeremo.

(L’articolo è tratto da ilfuturoblog 21 ottobre 2019)


dice Daphne Caruana Galizia



La paura, purtroppo, è il più grande nemico della libertà d’espressione – e di dialogo. Le persone non dovrebbero essere mai colpite per aver esercitato il diritto legittimo di dire ciò che pensano. Possiamo veramente definirci popolo democratico – invece di governo democratico – quando più di noi lo fanno, senza temere le conseguenze.

Cosa stiamo a fare ancora in Iraq? - Piero Orteca




Signor Giuseppe Conte, ci spiega, di grazia, cosa ci stiamo a fare ancora in Irak o in quel calderone ribollente che è ormai diventata la gran parte del Medio Oriente? Che cambiali dobbiamo pagare? E non ci venga a ripetere della “esportazione della democrazia” o della educazione forzata di informi masse di nativi al verbo occidentale. Perché a questa scusa, tra il patetico e il menzognero, non crede più nessuno.
·         Negli ultimi mesi ci siamo sforzati di scrivere che gli scenari politici, bellici ed economici in Medio Oriente non sono più quelli di trent’anni fa.
·         Quando, armiamoci e partite, partecipammo alla Prima guerra del Golfo con un senso etico e diplomatico “borderline”.
·         Né sono quelli del 2003, quando Bush figlio si fece costruire a tavolino dalla Cia le prove fasulle sulle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
·         Abbiamo partecipato a quelle avventure belliche in maniera molto opinabile. E abbiamo contribuito con molte giovani vite alla stabilizzazione di quelle aree di crisi. Ma ora basta.
·         L’ultimo attentato di ieri è l’esempio più lampante che siamo nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Signor Primo ministro, si legga i dossier di tutti i servizi segreti occidentali, anche dei più scalcagnati (e non sono certo i nostri) su quello che sta succedendo nel Medio Oriente. Ormai è una partita di poker, dove è destinato a vincere il più cinico e dove la democrazia e la libertà c’entrano come i cavoli a merenda.
Signor Giuseppe Conte, laggiù ci si ammazza per il petrolio,eser per il gas, per il controllo di aree di influenza che interessano esclusivamente le grandi potenze e le medie potenze di quell’area. La questione curda, lo scontro mortale tra sunniti e sciiti sollevato dalla dalle Primavere arabe, il secolare conflitto arabo-israeliano, il controllo dello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico e di quello di Bab el Mandeb nel Mar Rosso. E potremmo parlare ancora delle aspirazioni egemonistiche turche, del ruolo dell’Iran e della spartizione dei pani e dei pesci nella Siria martirizzata.
Là sono tutti in fila ad aspettare alla cassa i dividendi di un intervento dove l’etica e la morale se le sono messe tutti sotto i piedi. A cominciare dagli Stati Uniti e dalla Russia e proseguendo con gli ex biechi colonizzatori (e decolonizzatori) francesi e inglesi. Che ancora osano impartire lezioni di democrazia e di bon-ton diplomatico dopo avere fatto carne di porco nei tre quarti del globo terracqueo.
Signor Giuseppe Conte, che ci stanno a fare (e a morire) ancora i nostri soldati in Medio Oriente? Ce lo spieghi. O se la faccia spiegare lei prima di spiegarlo a noi. Ma non certo dal suo attuale Ministro degli Esteri.

giovedì 28 novembre 2019

L’esame di Stato della scuola


Come ti stravolgo la scuola. L’esame di Stato come sintomo del «sistema» - Claudio Belloni

Da decenni chi ha potere decisionale nella scuola inneggia all’“interdisciplinarietà”, e quest’anno l’esame di Stato – da tempo non è più di “maturità” (le parole sono importanti) – ha messo al centro della valutazione proprio questa “competenza” (altra parola chiave del sistema ideologico che governa la scuola).
Il nostro presidente di commissione – dopo aver partecipato alla riunione in cui i presidenti ricevono dal provveditorato le indicazioni sulla conduzione dell’esame (e quest’anno anche la retta interpretazione di una normativa quanto meno confusa) – ci ha riferito:
1) l’orale non è più un’interrogazione, ma un “colloquio”. I contenuti sono già stati valutati dal consiglio di classe, dunque la commissione non deve valutare le conoscenze, ma la capacità del candidato di spaziare da una disciplina all’altra a partire dal contenuto della busta estratta;
2) per lo stesso motivo non si possono fare domande, ma si deve valorizzare il candidato lasciandolo parlare senza interrompere o interferire più di tanto;
3) il colloquio ideale è quello in cui il candidato, da solo, riesce a trovare collegamenti tra un argomento e l’altro tra le varie discipline. Per questo motivo il documento contenuto nella busta da cui parte il colloquio deve essere comprensibile immediatamente da chiunque e deve anche favorire, appunto, i collegamenti tra le varie discipline. Ciò ha fatto sì che noi commissari siamo stati costretti ad anticipare fin dalla scelta dei documenti quel gioco idiota del passaggio pretestuoso da una disciplina all’altra con salti mortali vergognosi. Cercando di immaginare quali associazioni libere avrebbe potuto fare il candidato abbiamo dovuto aprire la strada allo stream of consciousness;
4) alzare i voti e cercare di dare il maggior numero possibile di 100, se possibile con la lode. Dunque quelli bravi non vanno giudicati troppo severamente ma valorizzati fin dalla correzione degli scritti. Motivo: in Puglia (sic!) danno un sacco di 100 e di 100 e lode.

I volenterosi carnefici della scuola
Il legame balordo tra calcolo infinitesimale e l’Infinito di Leopardi, ad esempio, può risultare un ottimo collegamento! Ho visto passare dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) alla “resistenza” di un circuito elettrico, dall’imperialismo in Africa alla deriva dei continenti, dal passero solitario alla spiegazione del motivo fisico per cui i passeri sul filo dell’alta tensione non vengono arrostiti dalla corrente elettrica. So che è difficile da credere, ma io c’ero. E se non riescono loro (gli studenti) a inventare questi collegamenti geniali siamo spinti a farlo noi per loro: per condurre in modo naturale (?) il colloquio verso nuovi temi e materie e, soprattutto, “per metterli a loro agio”. Quando il candidato si arenava dopo aver parlato di un argomento, a qualcuno di noi toccava chiedere: Cos’altro ti fa venire in mente lo stile di Ungaretti di cui stavi parlando? O la dialettica hegeliana? O la fissione nucleare? La bomba atomica! Bene, bravo: parlacene! Così, se il candidato è un po’ sveglio, la domanda se la fa da solo e noi rispettiamo le indicazioni ministeriali.
Se la tendenza verrà confermata e consolidata dalle nostre autorità, assisteremo nei prossimi anni al dispiegamento di una competenza che lo studente sicuramente possiede: la capacità di adattamento e assestamento al ribasso. Sarà sufficiente studiare un solo argomento per ogni materia e farsi venire in mente proprio quello nella sequenza prestabilita per affrontare un brillante colloquio d’esame. Del resto siamo spinti ad essere tutti imprenditori di noi stessi e spopolano i consigli e le guide per far bella figura a un colloquio di lavoro. Perché non cominciare prima?
Ho lavorato in due commissioni diverse con due quinte diverse. Risultati: dopo un inizio incerto abbiamo fatto più o meno come negli anni scorsi e non abbiamo dato più di 94. Ma siamo insegnanti irrimediabilmente vecchi che si ostinano a valutare i contenuti nonostante le indicazioni ricevute… fin che ce lo lasciano fare.
Questi pochi squarci sulla deriva cui è stato sottoposto l’esame sono coerenti con la politica generale della scuola degli ultimi decenni. Lo svilimento del senso critico e la noncuranza per una solida formazione hanno origine nell’alto dei cieli del potere, ma, mi piange il cuore ammetterlo, le direttive ministeriali trovano uno stuolo di volenterosi esecutori: quasi tutti i presidi (istruiti a obbedire e a trasmettere direttive, e incentivati anche economicamente a farlo con zelo sempre maggiore) e un certo numero di insegnanti collaborazionisti. Persino tra noi, che dovremmo essere un gruppo umano relativamente colto e critico, taluni si bevono tutte le nuove riforme, parole d’ordine, linee pedagogiche e ogni fuffa metodologica, pronti a cambiare parola d’ordine col governo successivo. Mostrarsi zelanti ai dirigenti scolastici per costoro è un istinto innato, ed ecco i volenterosi carnefici della scuola, quelli che fanno i corsi di aggiornamento e poi imperversano sui colleghi, fanatici più realisti del re.
Personalmente cerco di resistere a questa deriva. Il problema è che le mie discipline (storia e filosofia) hanno migliaia di anni, ma l’ultimo arrivato al ministero pensa di poterne stravolgere l’insegnamento a piacere. Peraltro gli ultimi ministri sono spesso sembrati gli utili idioti manovrati allo scopo di risparmiare per spostare denaro altrove e per adattare la scuola alle esigenze dei mercati (giù il cappello).

La scuola è pericolosa, dunque va neutralizzata
Tutte le ultime riforme/deforme della scuola sono coerenti con una visione del mondo che non ha alcun interesse a coltivare popoli colti e capaci di pensiero critico e autonomo. Il Novecento è stato un secolo troppo rischioso per i privilegiati e non deve ripetersi mai più! Ogni riforma è sbandierata in nome della democrazia, ci mancherebbe. Chi oggi non si direbbe “democratico”? Persino Orban si definisce “democratico illiberale”.
Il metodo più semplice per neutralizzare la scuola è intralciarla, impoverirla e umiliarla; si può soffocare i docenti di inutile burocrazia e sommergere gli studenti di iniziative straordinarie per impedire il lavoro ordinario, l’unico serio. Qualunque sia il problema, ormai si demanda alla scuola: educazione stradale, teatrale, musicale, educazione alla salute, all’affettività, donazione di organi, giornate della memoria, incontri con i “maestri del lavoro”, con volontari di ogni genere di lodevole iniziativa… Poi, se rimane tempo, si studiano anche le derivate e l’Infinito di Leopardi, ma nei ritagli di tempo tra un’iniziativa entusiasmante e un corso di recupero obbligatorio.
Le élite possono sempre studiare seriamente altrove o cooptare elementi da fuori, se necessario. La scuola sta smettendo di funzionare come ascensore sociale.
Una scuola sgangherata che non sviluppa un pensiero critico e una formazione solida non è solo un problema di incuria, ma l’obiettivo di una visione lucida. La scuola è forse il settore più delicato del welfare in generale. Lo stato sociale, frutto di secoli di lotte, è una gigantesca forma di redistribuzione delle ricchezze. La dimensione raggiunta da questo sistema in occidente è comprensibile, storicamente, solo per la presenza della minaccia sovietica. I comunisti erano brutti e cattivi, mangiavano pure i bambini, quindi, tanto più, faceva paura quell’Impero che, nonostante tutto, illudeva e seduceva milioni di lavoratori occidentali sprovveduti e masse di poveracci ingenui sparsi per il pianeta. Ora quel pericolo non c’è più, quindi il welfare si può smantellare; l’opera è avviata bene ed è solo questione di tempo, di farlo senza dirlo e se possibile senza che se ne accorgano in troppi. Anche per questo la scuola è pericolosa.
Ma la scuola è anche un dispositivo utilissimo e può essere riadattata; preziosa per educare e già che ci siamo disciplinare fin da piccoli. Per le esigenze del mercato del lavoro la scuola che funziona bene è quella che normalizza i caratteri, piega i ribelli o li espelle, educa al realismo, insegna la puntualità e rende familiare la terminologia aziendale dei debiti e dei crediti. Da quando è diventata “buona” per legge, la scuola insegna la flessibilità (per es. ad adattarsi a regole che cambiano in corso d’opera, per cui ci si iscrive a una scuola che nel giro di cinque anni può cambiare anche due volte le regole del gioco, le richieste, le imposizioni e persino l’esame finale), ma anche a lavorare un po’ gratis, giusto quel che serve da piccoli, come il vaccino, per non soffrirne poi troppo da grandi. Del resto, «la scuola deve preparare al mondo del lavoro», lo dicono tutti. Ma ci siamo mai chiesti perché? Chi l’ha stabilito? Quale scuola? Le riforme puntano a produrre esseri umani pronti a entrare nel mondo del lavoro il giorno dopo quello del diploma o della laurea, a tutti i livelli (dal tornitore all’ingegnere spaziale, dall’impiegato che sa usare excel al genietto “smanettone” che inventa cose mirabili nella Silicon Valley). Lavorare bene significa fare bene e rapidamente ciò che è richiesto e, se possibile, migliorare la parte di lavoro di competenza. Nulla di male, sia chiaro.
Però la formazione che abbiamo coltivato negli ultimi millenni è un po’ più ambiziosa. La differenza è tra preparare un buon tecnico e un essere umano a tutto tondo, che, certo, può essere anche un buon tecnico, ci mancherebbe. Ma qui dipende anche da che cosa si intende per “essere umano”


Un’opportunità per la storia - Matteo Saudino



Il decreto maturità firmato dal ministro Lorenzo Fioramonti il 21 novembre 2019 introduce due importanti novità rispetto all’esame di stato delineato meno di un anno fa dall’allora ministro Marco Bussetti: ritorna il tema di storia e spariscono le buste da scegliere per l’avvio del colloquio orale. Si tratta di due modifiche all’apparenza modeste, ma in realtà estremamente significative sul piano didattico che entreranno in vigore già nel 2020.
Il primo cambiamento è di natura sostanziale: reintrodurre nella prima prova scritta di italiano la traccia di storia rappresenta un’importante inversione di rotta dopo decenni di miopi controriforme scolastiche che hanno tagliato, svuotato e umiliato gli studi storici nelle scuole superiori, con l’eccezione del liceo classico. In un percorso di formazione rivolto agli adolescenti che si apprestano a diventare adulti, invece, è più che mai importante dare dignità e vigore alla storia, la quale non sarà forse “magistra vitae”, ma è pur sempre una delle principali discipline in grado di fornire conoscenze e strumenti critici per comprendere le complessità della realtà in cui viviamo. Insegnare agli studenti a decodificare e interpretare il presente, infatti, vuol dire offrire loro la preziosa possibilità di stare al mondo più liberi e consapevoli. Inoltre, oggi, di fronte al pericoloso e dilagante diffondersi di una fake history, che volutamente crea confusione e relativismo al fine di alimentare e giustificare odio, violenza e razzismo, ridare spazio alla storia in sede di esame di stato significa conferire maggior robustezza allo studio del Novecento, dalla cui conoscenza può sorgere un argine civile e democratico rispetto alle ricorrenti barbarie che sempre si nutrono di ignoranza e superficialità.
Tuttavia questi cambiamenti potranno realizzarsi solo se il ritorno del tema storico non sarà interpretato semplicemente come un consolatorio e di conseguenza effimero punto di arrivo per nobilitare lo studio della storia in quinta superiore, bensì se esso rappresenterà uno stimolante punto di partenza per rilanciarne complessivamente l’approccio critico, l’approfondimento e la rielaborazione personale durante tutto il percorso scolastico. Questa svolta necessita, però, di alcuni profondi mutamenti nella didattica della storia stessa, la quale deve essere insegnata per problemi e in maniera interdisciplinare, affrontando i grandi nodi e processi del passato alla luce delle loro conseguenze e influenze nel presente. Ciò ovviamente non implica appiattire gli avvenimenti di ieri sull’attualità, bensì studiarli in modo attivo e laboratoriale, utilizzando fonti e documenti, in modo da stimolare le connessioni con la realtà che ci circonda. La sfida è rendere lo studio della storia a scuola utile e interessante senza ricorrere al gossip e al sensazionalismo: sfida difficile ma che si può vincere facendo emergere lo stimolo alla curiosità che è insita nella natura della disciplina stessa.
Il secondo cambiamento è invece di natura formale, con evidenti ricadute sostanziali: eliminare la scelta tra buste chiuse per avviare il colloquio significa, infatti, uscire dalla logica del quiz televisivo, che dovrebbe essere agli antipodi della valutazione di un percorso formativo scolastico. Anche in questo caso tale piccolo mutamento dovrebbe essere l’occasione per ripensare a come strutturare un insegnamento che non sia finalizzato ad un modello prestativo quantitativo e competitivo, bensì a una crescita circolare docente-studenti, fondata sul binomio qualitativo curiosità-apprendimento. Se veramente pensiamo che gli studenti non siano vasi da riempire, ma fuochi da accendere, dobbiamo avere il coraggio di non fare del voto numerico il fulcro dell’istruzione, come invece ancora troppo spesso accade per convinzione ideologica o per abitudine. La scuola deve essere un laboratorio di idee e di pratiche e non di mera ripetizione di contenuti e le ore di lezione devono essere la miccia che innesca coinvolgimento ed esplosioni e non una stanca coercizione ad eseguire. Se per gli studenti il voto diventa l’unico scopo dell’andare a scuola e la noia sistematica pervade il loro tempo scolastico, viene meno ogni senso autentico della formazione. Ed è inutile e dannoso nascondersi dietro frasi del tipo “ci siamo passati tutti” oppure “nella vita ci sono cose che vanno fatte perché si devono fare, anche se non ti piacciono”: questo può valere per una singola materia o per qualche studente, ma se tale approccio investe la maggior parte degli allievi il problema diventa pedagogicamente assai rilevante e come docenti dobbiamo cercare e sperimentare nuove strade senza abbandonarci a tali sconfortanti opacità.
In un mondo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, fare della scuola un luogo pubblico che sappia coinvolgere gli studenti in un apprendimento critico, circolare e collaborativo potrebbe essere il modo più lungimirante per gettare i semi di una democrazia che coniughi libertà, solidarietà e giustizia sociale, unici antidoti contro le molteplici oppressioni che soffocano le nostre vite.

Il bivio delle sardine - Marco Bersani



Che il Capitano del Papeete, tutto ruspe, bacioni e rancore, sia rimasto dapprima spiazzato e poi intimorito dalla comparsa di branchi di migliaia di sardine, nel mare in burrasca dentro cui naviga questo Paese, non può che far piacere.
Perché a chi da anni predica l’individualismo proprietario del chiudersi in casa e difendersi dall’esterno, le sardine hanno risposto con la ripresa delle piazze come luoghi dell’incontro collettivo.
Perché a chi da anni semina odio per raccogliere rancore elettorale, le sardine hanno opposto la forza dell’ironia, che ha reso il re improvvisamente nudo.
Perché a chi pensa che la società si sostanzi nella perenne competizione dei forti contri i deboli, le sardine hanno risposto con il mare aperto come luogo della cooperazione fra tutte e tutti.
C’è tuttavia un passaggio, nel manifesto delle sardine appena pubblicato sui social, che non può che far riflettere problematicamente.
Ed è quando le sardine provano ad autoriconoscersi cosi:“siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”.
Parole senz’altro positive, speranzose, in qualche modo anche sagge, ma…..davvero è questa la normalità della maggioranza delle persone di questo Paese?
Siamo un Paese dove tutti hanno una casa, una famiglia amorevole, un lavoro, un’istruzione e una sanità adeguate, che consentano un tempo nel quale impegnarsi nel volontariato e nello sport?
O siamo invece un popolo “spaesato”, con la precarietà come quotidianità, la solitudine competitiva come orizzonte e un futuro che si fa fatica ad immaginare?
Di cosa si alimenta il Capitano del Papeete, se non di questa frustrazione sociale, che cerca di trasformare ogni giorno in strategia autoritaria e razzista?
Il fatto è che le sardine hanno un grande pregio: quello di nuotare in mare aperto, al punto che le si può incontrare sia lontano dalle coste, sia in acque basse e prossime alla riva; ma hanno anche un difetto, quello di nuotare senza mai avere alcun contatto con il fondale marino.
Quel fondale marino che dovranno ad un certo punto attraversare, se davvero vogliono dare una risposta, non tanto al Capitano del Papeete, quanto a tutte le persone che hanno fatto cortocircuito nel rancore, e che, invece di rivendicare diritti e libertà, reclamano ordine e disciplina.
E’ questa la scommessa che, seppur appena nate, le sardine dovranno quasi immediatamente giocare. Perché già un primo bivio le aspetta.
L’urgenza e la determinazione con cui si sono affacciate nelle piazze, raccogliendo una domanda diffusa di nuovo protagonismo sociale, chiede loro di prepararsi ad una prima mutazione: divenire salmoni, ovvero pesci capaci di risalire la corrente, nuotando in direzione ostinata e contraria al pensiero unico del mercato, che accomuna tanto il Capitano del Papeete, quanto le forze politiche che ora governano.
L’alternativa è finire in scatola, con destinazione il fuoco fatuo dei social, o come spezia della padella zingarettiana.

LA CIA ORCHESTRA LE PROTESTE NELLE NAZIONI SOVRANE PER DESTABILIZZARLE - Stephen Lendman (*)




L’Agenzia di intelligence centrale americana (CIA) spesso orchestra le proteste in nazioni sovrane e indipendenti per destabilizzarle, come scrive il noto scrittore e commentatore politico Stephen Lendman.
Lendman sostiene che la CIA è un’agenzia antidemocratica / anti-governativa incompatibile con la pace, l’equità e la giustizia – nozioni alle quali ha giurato di opporsi.
Il suo playbook include l’uso di squadroni della morte globali, orchestrando rivoluzioni e colpi di stato a colori, assassinando leader stranieri, sostenendo despoti amichevoli, operando prigioni segrete di tortura, accompagnando guerre di droni e altre azioni ostili a ciò che le società libere e aperte hanno a cuore.
La stessa CIA e le altre agenzie statunitensi manipolano o interferiscono in altro modo nelle elezioni straniere, sono complici del crimine organizzato nel traffico illecito di stupefacenti, spiano segretamente i cittadini degli Stati Uniti e si impegnano in esperimenti di controllo mentale fisicamente dannosi e psicologicamente paralizzanti – soggetti umani usati come inconsapevoli cavie.
Politici sporchi, funzionari aziendali, accademici, capi del lavoro, grandi media, numerosi giornalisti, gruppi di riflessione statunitensi e altre organizzazioni, nonché elementi del clero sono complici delle sinistre attività della CIA.
Le mani sporche dell’agenzia sono dappertutto azioni dirompenti vengono effettuate nelle nazioni mirate al cambio di regime – con l’obiettivo che i governi sovrani indipendenti siano sostituiti da governi fantoccio filo-occidentali.
Da ultimo in Iran, lo scorso sabato, gli ultimi aumenti dei prezzi della benzina e razionamento in Iran hanno suscitato proteste. Manifestazioni pacifiche si sono svolte in diverse città iraniane con persone che hanno invitato il governo a invertire la sua decisione. Le manifestazioni, tuttavia, sono diventate violente in alcune città e sono stati segnalati scontri con le forze di sicurezza.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ex capo della CIA, ha espresso il suo sostegno ai manifestanti in Iran.
“Come ho detto al popolo iraniano quasi un anno e mezzo fa: gli Stati Uniti sono con te”, ha detto Pompeo, retwittando un tweet in lingua persiana che ha inviato nel luglio 2018 in cui si riferiva a un discorso fatto direttamente al Popolo iraniano.
La Press TV ha chiesto a Lendman se Pompeo e altri funzionari statunitensi stessero provando il dolore del popolo iraniano e stessero provando empatia con loro o cercando di sfruttare la situazione che era effettivamente causata a motivo delle severe sanzioni economiche statunitensi sull’Iran.
“Spesso quando si verificano proteste contro i governi sovrani indipendenti gli obiettivi statunitensi per il cambio di regime, vengono orchestrati dalla CIA per destabilizzare le nazioni”, ha detto Lendman a Press TV domenica.
“In passato è successo diverse volte in Iran, con le mani sporche degli Stati Uniti che si allungano su di loro. Sospetto qualcosa di simile avvenga ora.
Chiaramente, le mani sporche degli Stati Uniti sono protese costantemente per sobillare la situazione a Hong Kong, attaccando il ventre molle della Cina per cercare di destabilizzare e indebolire il paese ”, ha aggiunto.
“I leader della protesta hanno incontrato la presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi e altri funzionari statunitensi a Washington, e si sono riuniti anche con la responsabile del consolato americano a Hong Kong”, ha detto.
“Le proteste in Bolivia dopo la rielezione democratica del 20 ottobre di Evo Morales sono state orchestrate dalla CIA, volendo farlo sostituire da una tirannia reazionaria filo-occidentale , questo dal modo in cui le cose si sono svolte e a meno che le proteste di massa pro-Morales non possano cambiare le cose”, ha osservato.
Gli Stati Uniti hanno scatenato rivoluzioni di colore in numerosi paesi da quando hanno depositato Slobodan Milosevic in Serbia. La stessa cosa è successa in Georgia, due volte in Ucraina, l’ultima volta nel 2014, e in altre nazioni – in alcuni casi hanno avuto successo, in altri hanno fallito “, ha detto l’analista.
 “Numerose proteste si sono verificate a Mosca e in altre città russe a seguito di un tentativo di rivoluzione di colore. Queste operazioni sono tratte direttamente dal manuale della CIA, con altre agenzie statunitensi coinvolte, in particolare utlizzando la dotazione nazionale antidemocratica per la democrazia che e l’USAID “, ha affermato.
“Il primo colpo di stato della CIA, ovviamente, fu contro l’Iran nel 1953, ce ne furono molti altri in Latino America e in Asia fino alla prima rivoluzione a colori contro Milosevic in Serbia, nel 1999, dopo molti altri tentativi riusciti e senza successo, incluso quella fallita nel 2009, la cosiddetta Rivoluzione verde in Iran della CIA”, ha ha concluso.
Qualunque paese voglia sottrarsi alla subalternità verso gli USA e pretenda di seguire “politiche economiche ortodosse” subisce prima o poi dei tentativi di destabilizzazione in varie forme, ha dichiarato Lendman.

*Stephen Lendman è nato nel 1934 a Boston, MA. Nel 1956, ha conseguito una laurea presso l’Università di Harvard. servizio a prestato servizio presso l’esercito americano, ha vinto un MBA presso la Wharton School presso l’Università della Pennsylvania nel 1960. Lendman è un analista, scrittore che ha pubblicato opere sui principali problemi mondiali e nazionali . Dall’inizio del 2007 è autore di un programma radiofonico, il Progressive Radio News Hour sulla Progressive Radio Network molto seguito negli USA. Lendman è vincitore del Project Censored del 2008 e vincitore del premio giornalistico internazionale 2011 Mexican Club Club.
Fra le opere pubblicate [Flashpoint in Ukraine: How the US Drive for Hegemony Risks World War III]; Banker Occupation: Waging Financial War on Humanity (English Edition)16 gen. 2016; [(How Wall Street Fleeces America: Privatized Banking, Government Collusion and Class War )
·         Fonte: Stephen Lendman.org
·         Traduzione e sintesi: Luciano Lago


mercoledì 27 novembre 2019

Natalino Balasso a teatro, forse




Trovo ora un articolo che non avevo letto e finalmente capisco come si chiama sto tizio che, mi dicono, sia presidente dello Stabile del Veneto, tal Beltotto che qualcuno mi dice essere stato il portavoce di Zaia, che è stato il vice di Galan, che è stato ingabbiato per mazzette, tanti soldi occultati, furti, ai danni della collettività.
Come vedete, le cose vengono da lontano, e quando si parla di arte, non bisogna dimenticare che in questa nazione l’arte pubblica la finanziano i cittadini ma se ne impadronisce la politica, e se la politica è sta roba qua, fatta di “qua è tutto mio”, i risultati sono la stronzata di aprire la stagione dello Stabile con un giornalista di secondo piano che parla del 1919, così possiamo mettere Mussolini in locandina, tamorticani!
Non c’è mai un intento politico sia chiaro, mai! Accanto a questo articolo ne trovo uno del 2010, quando nell’inaugurazione di una scuola, fanno sentire il Va’ pensiero e non l’inno d’Italia, il tal Beltotto era portavoce di Zaia, quale risposta avrà dato secondo voi? intanto, da buon leccaculo veneto, si assume le responsabilità della cosa e dice che Zaia non c’entra niente e poi, ovviamente, aggiunge: “Non c'era alcun intento politico in tutto quel che è successo", non c’è mai un intento politico, gli intenti politici ce li hanno solo quelli che ci stanno sul cazzo!
Ma veniamo ai giorni nostri.
In pratica il Gazzettino di Treviso gli chiede come mai la Bancarotta di Vitaliano Trevisan (scrittore veneto di primo piano) tratta da Goldoni (commediografo veneto di primissimo piano) con Natalino Balasso (attore veneto di primo piano) non sia presente nei cartelloni dello stabile del Veneto. La placida risposta è: “Se non ti piace casa mia, a casa mia non ci vieni”.
Notate che a questi qua della Lega non gli frega un cazzo di dire a tutti che si sono impossessati dello stabile del Veneto e che hanno fatto un editto per non farmi lavorare nelle strutture pubbliche del veneto, ma questo m’interessa poco, questo qua dice una cosa ben più grave e non riguarda me, riguarda tutti:
Eh no, caro Beltotto! La vostra idea politica del qua xe tuto mio, così bene messa in pratica da Galan, non ha nulla a che fare con l’amministrazione delle cose pubbliche, il teatro stabile del Veneto, Beltotto, non è casa tua per un cazzo! Io capisco che se tu minacci di far perdere il lavoro a chi lavora là dentro, quelli poi ti dànno ragione come si fa coi matti, ma mi meraviglio che là dentro stiano tutti gobbi e chini e nessuno ti dica che lo Stabile del Veneto NON È CASA TUA.
E forse, se nessuno ti dice un cazzo e tutti eseguono quello che non avresti nemmeno l’autorità per pretendere, vuol dire che hai ragione tu. Hai ragione a mettere sullo stesso piano Cacciari e Veneziani, come avessero lo stesso talento, hai ragione a mettere sullo stesso piano Gramsci e Mussolini, ma sì, sono la stessa cosa, tutto fa brodo! Se il pubblico non si lamenta, se a tutti va bene così, se tutti trovano normale che in democrazia un tizio possa dire “Questa è casa mia” di un’istituzione che pagano loro stessi, questi veneti così codardi si meritano gente come te.
Ti do un consiglio per aprire la prosa stellare dell’anno prossimo, genio, ma sì basta con sti artisti di sinistra, vediamo chi c’è fra i talenti leghisti... nessuno...va ben, ma almeno qualcuno che dica qualcosa di fascio si può trovare, gli mettiamo dietro un’orchestra che si fa il culo così sembra teatro: dunque, Sallusti che legge i testi di Gigi D’Alessio (potrebbe cantare Gigi, ma purtroppo è straniero e quindi non si può fare) oppure la Meloni che fa il riff che ha rotto i coglioni sui social, così dimostriamo che anche noi di destra abbiamo l’autoironia, ma, che portino qualcosa però, che so, una boccia di vino, un cd, un par de voti, perché a CASA NOSTRA no se vien sensa dare qualcosa in cambio.



Chi mi conosce sa che je cherche la bagarre e siccome amo la rissa, rispondo ai cazzotti di Beltotto.
Torno sull’argomento Stabile del Veneto di cui alla gente non frega un cazzo, perché, laddove ci sono stipendifici, le cose si fanno complicate.
Scrivo sulla mia paginetta facebook, non ho uffici stampa, non posso permettermeli, ben sapendo che come al solito i giornali non capiranno un cazzo e tradurranno il mio affetto verso il pubblico come la preoccupazione per il mio lavoro, maccheccazzo, io posso smettere di lavorare domani perché sono un uomo libero e posso vivere anche con niente, visto che non trattengo mai nulla e reinvesto sempre TUTTO quel che guadagno nella produzione del mio teatro e dei miei racconti video.
Dunque il presidente “quaxetutomio” Beltotto, si è risentito come una bambinetta dell’asilo a cui hanno tirato i codini e ha convocato mari e monti per stabilire l’unica Verità, la sua.
Beltotto, col “suo” ufficio stampa Golia di 9 persone pagato coi soldi dei cittadini, si dà da fare per rispondere a un Davide come me, è bugiardo e pensa che basti essere amicissimo dei direttori dei giornali per affermare, tranciando assai, che io sono stato lautamente retribuito dallo Stabile del Veneto e che non facendo spettacoli al Verdi e al Goldoni viene a mancare un’entrata importante per la mia famiglia. Sticazzi! Ovviamente secondo il suo canone ciellino della famiglia in cui l’uomo porta i soldi a casa.
Dunque, le bugie hanno gambe lunghissime sui giornali ma per fortuna i giornali non li legge più nessuno, Beltotto, e le tue amicizie democristiane con me non attaccano.
Rispondiamo dunque: la mia famiglia è un’impresa privata che riesce a mettere insieme, con uno spettacolo, non una, non due, ma 10 volte ciò che mi può dare uno Stabile, cosa che accetto perché mi piace fare spettacoli con la compagnia e perché mi fa piacere che attori e tecnici guadagnino qualcosina grazie a me anche laddove potrei benissimo rappresentare, come fanno quasi tutti quelli famosi e che ne sono capaci, un monologo per i fatti miei. Si chiama mercato, mi pare che i leghisti siano per il mercato, no? O è tutta una finta?
L’altra cosa che egli dice sapendo di mentire è alludere al fatto che sa “quanto l’abbiamo pagato” dice egli. A ridaje! Tu non mi hai pagato per un cazzo caro Beltotto, tu non hai tirato fuori una lira, tu i soldi li hai presi dal pubblico col tuo stipendio nel passato e te li sei tenuti nel privato. È molto facile dire quanto guadagnavo (a consuntivo di paga media giornaliera, poco più di 600 euro lordi, sui quali pagavo le tasse, e coi quali dovevo pagarmi viaggi, pasti fuori casa (e io mangio tanto!) e alberghi e sfido un altro attore del mio livello a dire che guadagnava meno!) se mettessi nel conteggio i giorni di prove, pagati molto ma molto meno, la cifra sarebbe anche più bassa, ma la cosa che il furbastro non dice è che, a fronte di quei 200 euro netti a giornata, il Verdi di Padova, per fare un esempio, incassava 15-20.000 euro al giorno e ti sfido, Beltotto, ad essere altrettanto produttivo, tu che vivi di chiacchiere e di soldi pubblici. Ogni 5000 euro lordi da me incassati ne ha prodotti solo in Veneto 150.000 per lo Stabile, se poi lo Stabile abbia speso tutto quel surplus da me prodotto per pagare la struttura, cioè gente molto meno produttiva di me e non gli artisti, non so che farci.
E il buon Ongaro, il taciturno direttore dello Stabile, che dovrebbe dirigere mentre pare che diriga tu per conto della Regione Veneto, ti può dire quanto ha dovuto penare per convincermi a proseguire le tournee con lo Stabile quando io, per campare, chiedevo invece tempo per poter fare i miei monologhi.
Una cosa che il tipo dimentica di dire è che la mia Cativìssima è stato uno dei pochissimi spettacoli in attivo dello Stabile. Un’altra cosa che si dimentica di dire è che ho rinunciato al mio compenso di regista (per altro assai sotto costo) per redistribuire il corrispettivo agli attori della compagnia e risarcirli un pochino delle paghe vergognose che dà loro lo stabile. Un’altra cosa che si dimentica di dire è che io ho fatto una riunione di fuoco per intimare allo Stabile di non fare i costumi a Venezia per una produzione a Padova, spendendo 1600 euro solo per il trasporto, ma di spendere molto ma molto meno. Queste sono cose che annoiano la gente, Beltotto lo sa, quindi gli basta dire “sappiamo quanto gli abbiamo dato” e tacere di “quanto ci ha fatto guadagnare e risparmiare”, per inciso, la vecchia abitudine di fare costumi a Venezia con relativi costi è tornata puntuale l’anno dopo che io me ne sono andato.
Ovvio che, per i burocrati come lui, un artista vale l’altro e il costo di un artista non può essere paragonato al costo di un ufficio stampa.
Ed è curioso che, pestando una merda colossale, si metta a parlar di soldi pubblici e di menzogne uno che, agli ultimi tempi del crack della banca vicentina, percepiva 180.000 euro l’anno come responsabile della comunicazione, in qualche modo per rassicurare i finanziatori sul fatto menzognero che tutto andava bene.
Beltotto è stato dentro al Mose, stipendiato con soldi pubblici; è stato dentro alle banche, stipendiato, lui sì, lautamente; è stato a dirigere la Fenice, altro pozzo senza fondo, stipendiato coi soldi pubblici; quando poi è salito in sella allo Stabile, lo Stabile del Veneto è stato pure declassato. Ma non è che porti un po’ sfiga?
Ma io credo di aver capito che quando parla di importanti introiti per la famiglia il tipo si riferisca alla sua, di famiglia, visto che fin da quando era alla Rai, a differenza di me, ha campato grazie ai soldi delle tasse dei cittadini.
Una cosa che ho capito dalla tua arroganza tutta leghista, Beltotto, è che dovrò persino stare attento a dire se qualcuno in Veneto è amico mio, perché potrebbe restare senza lavoro.
Come avete notato c’è un attore importantissimo di tutta la vicenda che è stato tenuto fuori: il pubblico. Sì perché del pubblico, a sta gente qua, non gliene frega un cazzo.
Io, caro Beltotto, gli spettacoli non li faccio né per la Regione, né per la Lega o qualsiasi altro partito, né per il mio ufficio stampa, io faccio spettacoli per il pubblico e se il pubblico smetterà di venire ai miei spettacoli io smetterò di fare questo lavoro perché, a differenza di te, io devo rispondere della gente che porto a teatro, io rispondo solo al pubblico (che è il mio unico e vero datore di lavoro) e non ho stipendio se non c’è incasso; per fare un esempio, per una serata in perdita come quella con Marcello Veneziani io ci avrei rimesso del mio. E quanto v’importi del teatro si capisce dal fatto che inaugurate la stagione di prosa con Cacciari o con Veneziani, cioè professori e giornalisti che invadono lo spazio degli artisti e che nulla c’entrano con il teatro.
Io non do del tu alla Regione, non dispongo di uffici stampa e strutture pagate lautamente coi soldi pubblici perciò non ho più tempo di parlare di sta roba, a meno che non mi rompi il cazzo Beltotto, perché mi so pajasso ma no mona.

Qualcosa c'è di marcio in questa azienda vinicola e noi non intendiamo l'uva. il vino Psagot - Gideon Levy e Alex Levac


Sembra una scena toscana. Un'auto sportiva modello vintage e un SUV nero sono parcheggiati di fronte a un palazzo con facciata in pietra e tetto verde, incastonato tra i vigneti. L'acqua della piscina brilla alla luce ardente. Le foglie sui filari delle viti - piantate in ordine esemplare e sostenute da pali di ferro - sono ora marroni.
L'atmosfera è tranquilla: un uccello cinguetta, c'è un'aura di bellezza,ma in realtà uno dei luoghi più brutti e repellenti che si possano immaginare. La casa, il vigneto, la piscina, le auto di fascia alta e il portico con vista panoramica: tutto questo è situato su una proprietà privata saccheggiata dai suoi proprietari. E non siamo in Toscana; siamo in un quartiere criminale.
Questa è la tenuta di Yaakov Berg, CEO della cantina Psagot, nella Cisgiordania centrale  . La casa di Berg si trova nella sezione 233 del blocco n. 17. Questa proprietà appartiene a due sorelle, Amal e Keinat Quran e alla  loro cugina, Karima -ma non vi hanno accesso. L'uva è stata piantata  nelle sezioni 219-220  di proprietà di Huria Quran, un' altra parente. Anche quella piccola donna anziana non è in grado di raggiungere la sua proprietà.
È difficile pensare a un odore più cattivo di quello che emana la cantina Psagot  o  di marcio morale e legale più odioso di quello prevalente nell'insediamento con lo stesso nome. Nessuna decisione dell'amministrazione americana eliminerà quella brutta realtà.
La scorsa settimana la Corte di giustizia europea ha stabilito  che l'Unione europea richiederà d'ora in poi che il locale dove  viene prodotto questo vino sia annotato sulla sua etichetta, insieme ad ogni altro prodotto degli insediamenti, dopo che la cantina ha chiesto a un tribunale francese di annullare tale requisito . Dopo la sentenza, il CEO Berg ha dichiarato, secondo il quotidiano Maariv, di sentirsi "come un ebreo con una stella gialla".  Come il bambino che ha ucciso i suoi genitori e chiesto pietà alla corte perché  orfano, ha infranto l'ennesimo incredibile record di sfacciataggine dei coloni.
Alcuni dei proprietari terrieri espropriati, circa una dozzina di uomini e donne anziani, sono seduti negli uffici municipali della vicina città di El Bireh, esaminando una fotografia aerea delle loro terre e di ciò che ne rimane. Molti detengono i loro atti di proprietà, debitamente autorizzati dall'amministrazione civile del governo militare israeliano. Eppure il colono Berg parla di una "stella gialla".
Può esserci un vino più volgare di quello prodotto dalla cantina Psagot? C'è qualcosa di più giustificato che etichettarlo e distinguerlo dai vini che non sono prodotti nei territori? E cosa potrebbe esserci di più morale e nobile che boicottarlo del tutto? Questo è il nuovo Migron, l'insediamento originariamente costruito su terreni palestinesi privati ​​nelle vicinanze, smantellato nel 2012 e ricostruito qui, vicino alla cantina. La cantina - fondata dall'attuale padre dell'amministratore delegato, Meir Berg, immigrato dall'Unione Sovietica - si è trasferito qui nel 2009 per espandere le sue attività e produrre circa 400.000 bottiglie di vino all'anno, secondo i suoi annunci pubblicitari.
Un soldato sorveglia il cancello d'ingresso dell'insediamento. Apparentemente questo è il lavoro di un giovane tenente delle forze di difesa israeliane: alzare e abbassare una barriera, al di fuori di un'azienda vinicola. Un cane da guardia  con un lungo guinzaglio di metallo abbaia furiosamente nel cortile del centro visitatori vuoto dove, secondo il sito web della cantina, sono disponibili gioiosi eventi familiari, conferenze e incontri, compresi i pasti con asado argentino - “nel cuore di Paese."
Gli operai edili palestinesi sono impegnati a costruire sempre più ville in questo nuovo Migron. Le famiglie Hemo, Diamant, Weinberg e Halevy sono felici di vivere qui. Scarabocchiato alla fermata dell'autobus all'uscita c'è lo slogan "Rabbi Meir Kahane aveva ragione."
Psagot, l'insediamento, è a pochi minuti di distanza. Una strada illegale che i coloni hanno costruito con l'aiuto delle autorità la conduce da Migron. Dal 2003, Psagot è circondato da una recinzione elettrificata che arriva fino alla strada. Sotto la copertura della recinzione questo insediamento canaglia si espanse e sequestrò altri 550 dunam (138 acri) di terra privata dai suoi proprietari palestinesi. La terra saccheggiata comprende 80 dunam sequestrati da Yaakov Berg e dalla cantina Psagot, dove fu piantato il vigneto e l'espropriazione continua.
Questa settimana, Dror Etkes, il ricercatore esperto di insediamenti della ONG Kerem Navot ( il fotografo Alex Levac è un membro del comitato esecutivo dell'organizzazione), ha notato nuove quote di metallo nel terreno. Apparentemente sono destinati a più viti e all'acquisizione di ancora più terra.
L'ingresso al sempre crescente insediamento di Psagot racconta l'intera storia: resti di terrazze agricole in rovina e frutteti avvizziti sono visibili lungo i lati della sua strada di accesso recintata. L'agricoltura palestinese che esisteva qui è un ricordo del passato.
Oltre la casa di Berg c'è il cimitero di Psagot e poi un altro avamposto illegale di case mobili, Mitzpe Ha'ai. Un'iscrizione sul cartello all'ingresso del piccolo parco giochi trascurato di Psagot afferma: "Nome del proprietario: Consiglio Regionale di Binyamin". Un'altra beffa della legge. Istituita nel 1979 per compensare i coloni per il ritiro dal Sinai richiesto a Israele  nel  trattato di pace con l'Egitto, uno degli scopi di Psagot era soffocare il vicino El Bireh. Nel 1967, quest'ultimo aveva una popolazione di 8.000 abitanti su un'area di 12.000 dunam (3.000 acri). Oggi la sua popolazione è di 82.000 abitanti, ma la sua area si è ridotta a circa 10.500 dunam. In un punto, solo 30 metri ,separano l'affollata città palestinese dalle case dei coloni.
Ad attenderci nella moderna sala conferenze del comune di El Bireh c'è il membro del consiglio comunale Muneif Treish insieme a circa una dozzina di altre donne e uomini, residenti, tutti anziani; il più vecchio è l'89enne Odeh Hama'il. Sono i proprietari della terra sulle quali  sorge Psagot. Treish, che parla fluentemente ebraico e inglese, stende sul tavolo una grande fotografia aerea aggiornata di Psagot. A differenza di altri luoghi i registri catastali conservati qui sono accurati.
Etkes riferisce che Psagot era originariamente situato su una collina (psagot significa picchi o vette in ebraico) in un sito che Israele aveva classificato come terra di stato. Treish spiega che la terra fu acquistata dai suoi proprietari nel 1965 dal governo della città di Gerusalemme est, poi passata  sotto il controllo giordano, per la costruzione di un resort estivo per ricchi vacanzieri del Kuwait. La guerra del 1967, dove  Gerusalemme est passò sotto il controllo israeliano, tuttavia silurò quel piano e in seguito la terra divenne "i territori del [sindaco di Gerusalemme] Teddy Kollek" o "territorio dello stato", nella parlata israeliana degli insediamenti .
Nel corso degli anni, osserva Etkes, i 140 dunam originali assegnati a Psagot si sono estesi a 655 dunam. Etkes ha mappe sul suo computer che mostrano l'acquisizione fase per fase  .In sintesi una  breve storia di espropriazione , ovviamente, sotto l'egida delle autorità israeliane, insieme all'aggiunta di case mobili, barriere di sicurezza e così via. La terra che aveva fatto parte del piano generale di El Bireh,  divenne l'insediamento di Psagot.
"Le case mobili sono state installate in buona fede", afferma Treish, citando una lettera che una volta ha ricevuto dal consulente legale dell'Amministrazione Civile, che ha anche scritto: "li rimuoveremo al più presto possibile". Aspetta ancora .
La vista degli anziani nella sala del consiglio è straziante. Quasi tutti sono  vestiti in abiti tradizionali, con la testa coperta da fazzoletti e kaffiyeh. Sono convinti che il giornalista eil  fotografo israeliano possano far restituire la loro terra. Nei loro cuori non hanno mai rinunciato.
Come diceva Treish, "Finché saremo qui, non smetteremo mai di lottare". I proprietari terrieri originali erano circa 100. Si trattava di piccoli appezzamenti di terra, frutteti, uliveti, proprietà accumulate nel corso di diverse generazioni.
Thaisir Hama'il non è più sulla sua terra dal 1992. Mustafa Samarin riferisce che dopo l'istituzione iniziale di Psagot, fu ancora in grado di raggiungere la sua proprietà, ma poi iniziò a essere cacciato: prima sotto la minaccia di armi e cani e infine a causa della  barriera di sicurezza che  ha bloccato completamente i Palestinesi. Alcuni membri del gruppo di proprietari terrieri si recano ogni anno presso l'amministrazione civile (israeliana) e ottengono una nuova conferma ufficiale della loro proprietà, debitamente timbrata e firmata. Nella loro ingenuità, pensano che ciò dia loro una sorta di diritti sulla loro terra perduta.
Questa settimana Etkes ha twittato: “I proprietari della cantina Psagot devono il successo a diversi fattori: all'IDF che ha costruito la recinzione attorno a Psagot; all'Amministrazione Civile che non li ha sfrattati ; alla polizia, che non li ha sottoposti a processo; ai miliardari   Falic Brothers  di Miami, in Florida che sono entrati come soci nell'impresa ; e alla Israel Water Authority che ha assegnato decine di milioni di litri cubi di acqua per l'irrigazione. "
Lo scorso 1 luglio i giornalisti Uri Blau e Josef Federman hanno pubblicato un rapporto investigativo per l'Associated Press sul  coinvolgimento dei Falic Brothers nell'impresa insediativa , incluso il loro supporto a elementi di estrema  destra  violenti e la parziale proprietà dell'azienda Psagot. Il 6 luglio il quotidiano britannico Independent ha anche pubblicato un rapporto sulla famiglia  che possiede una vasta rete di negozi duty-free negli Stati Uniti. Quell'articolo si concentrava sull'acquisizione del controllo della cantina, dove hanno investito  più di un milione di dollari, attraverso una società  fondata a Panama. Hanno acquistato poco più della metà delle quote dell'azienda, diventando   azionisti di maggioranza.
Le donne della famiglia  sanno cosa è sorto sulla loro terra: la cantina, i vigneti, la tenuta? Tutto quello che sanno è ciò che sentono da Dror Etkes.
A seguito della decisione dell'UE sull'etichettatura della scorsa settimana, Berg ha dichiarato a Haaretz: “Come ebrei e israeliani, vediamo il nostro lavoro come una grande missione. Abbiamo agito come israeliani che vivono in una comunità fondata con l'approvazione del governo [israeliano] e che cercano solo di produrre ed esportare vino di grande qualità    in tutto il mondo ".
Facciamo un brindisi a questo entusiasmante sforzo sionista. Ora, almeno, gli europei conosceranno l'origine del "vino di grande qualità" di Psagot.
da qui