domenica 31 ottobre 2021

La libertà al di là della retorica della libertà - Andrea Zhok

 

«Stremato dall’ennesimo scempio argomentativo ascoltato nell’ennesima discussione su Green Pass e dintorni avevo pensato di provare a redigere (di nuovo) una sorta di vademecum con domande e risposte, magari solo per un senso di ordine mentale. Tuttavia ho l’impressione che siamo oramai andati oltre il livello in cui questo livello di ragioni poteva avere preminenza. Se non hanno attecchito a sufficienza da due mesi a questa parte, oramai siamo arrivati a un livello ulteriore.

Sul piano di merito al di là dei mille argomenti di dettaglio in cui ci si può perdere, per stabilire l’illegittimità del Green Pass nella sua versione italiana bastavano due argomenti, semplici, e che chiunque avesse fatto un minimo sforzo di approfondimento poteva acquisire subito.

Per definire sul piano scientifico l’illegittimità del GP basta stabilire che:

1) anche i vaccinati contagiano;[1]

2) nessuno è nella posizione di garantire la piena sicurezza dei preparati da inoculare ora in uso.[2]

Non ci voleva assolutamente niente altro. Ed entrambi i punti sono accertati al di là di ogni possibile dubbio (vedi un po’ di riferimenti in nota).

Il primo punto elimina alla radice la presunzione di dover “tenere alla larga” il non inoculato in quanto potenzialmente lesivo (in effetti non godendo della protezione del farmaco il non inoculato è più facilmente la parte lesa.)

Il secondo punto fornisce ragioni per lasciare agli individui il compito di soppesare pro e contro dell’inoculazione - per sé o per le persone su cui si esercita la podestà - in quanto non ci sono da considerare solo benefici.

Sotto condizioni di ragionevolezza la discussione si sarebbe dovuta concludere qua, anzi non sarebbe neanche dovuta nascere.

Ma la scelta fatta dal governo è stata diversa. Nella crescente incredulità di chi ha seguito dall’inizio quella scelta all’opposizione, il governo è andato avanti in perfetta impermeabilità come un rullo compressore. Perché lo ha fatto? Due opzioni sembrano possibili.

A) Se l’idea era quella di creare un’astuta forma di obbligo mascherato a vaccinarsi senza assumersene la responsabilità, in tal caso possiamo pacificamente concludere che il governo ha fatto un disastro, irrigidendo le posizioni di chi non voleva cedere a un ricatto, esasperando il clima sociale, danneggiando l’economia, e riuscendo nel suo intento principalmente verso chi era inutile vaccinare, cioè le fasce giovanili – desiderose di una qualche normalità. Una catastrofe. Se questo era il governo dei competenti, la fantasia non basta ad immaginare gli incompetenti.

B) In alternativa il Green Pass non sarebbe stato inteso mai con finalità sanitarie ma principalmente come forma di controllo sociale destinata a durare; esso opera già in effetti una selezione tra ‘concilianti’ e ‘contestatori’, e con piccoli aggiornamenti funzionali può divenire uno strumento di sorveglianza e condizionamento potentissimo (una volta introdotta la pratica sociale, qualunque ‘buona ragione’ approvata dal governo può divenire criterio per sospendere elementari diritti di vita associata, emarginando il dissenziente). Questo scenario è più machiavellico, ma molto più coerente con il comportamento effettivo del governo.

Quale sia lo scenario effettivo personalmente non lo so. Potrebbe di principio anche essere una combinazione dei due (per alcuni, i più sprovveduti tra i nostri governanti, varrebbe la prima motivazione, mentre altri, giovandosi della loro dabbenaggine, starebbero mettendo in campo un’agenda di più ampio respiro).

Ma questo quadro manca di un aspetto più radicale, profondo, e duraturo, un aspetto che non è chiaro se sia stato previsto neppure sotto l’ipotesi più malevola.

Che sia accaduto per caso o che sia stato preparato, di fatto questa crisi ha portato in luce qualcosa che prima era inapparente: un allineamento di tutti i ‘poteri’ nazionali, inquadrati a sostegno di un unico progetto, di cui il GP è un tassello. Governo, Parlamento e Confindustria, multinazionali farmaceutiche e multinazionali del digitale, sistema mediatico e magistratura, tutti i poteri che contano si trovano in una sorta di armonioso allineamento planetario, concorde nel rigettare ogni forma di resistenza all’imposizione di questa “cittadinanza per i meritevoli”.

Certo, in ciascuno di questi ambiti ci sono singoli individui che sfuggono dal flusso principale, ma il loro impatto è irrilevante.

Ora, è importante comprendere quale sia il quadro che viene percepito da chi contesta il GP, perché esso è inedito e sconcertante, e si presenta con questi tratti:

• Si assiste ad un governo che, nonostante (o forse proprio per) la sempre minore rappresentatività democratica delle forze che lo compongono, si accoda obbediente alle volontà di un “uomo della provvidenza”, un tecnico sostenuto dai vertici UE, incoronato dai media come l’Ultima Spiaggia, l’ultima occasione di redenzione di un paese immeritevole. Il governo procede per decreti, senza nessuna opposizione degna di nota, attuando un programma definito dalle condizionalità del PNRR che nessuno ha mai discusso o spiegato, figuriamoci sottoposto al voto. 

Simultaneamente Confindustria utilizza i sindacati nazionali come stuoino, imponendosi come unico interlocutore effettivo del capo del governo.

• Il sistema sanitario, snodo fondamentale nella recente vicenda pandemica, ne esce stremato e ulteriormente ridotto nella sua dimensione pubblica. Dopo gli innumerevoli cicli di ‘razionalizzazione’ passata, ora si trova di fronte ad una parziale privatizzazione di fatto, per manifesta incapacità di far fronte alle liste d’attesa, mentre il problema pandemico viene consegnato ad una soluzione ‘cost-effective’ come la vaccinazione di massa, che non lascia tracce strutturali nel SSN. Il meccanismo della vaccinazione di massa si presenta come un modo per rendere abile e arruolata una parte maggioritaria della popolazione, costi quel che costi, attraverso un’operazione che trasferisce risorse dallo stato alle case farmaceutiche, senza rinforzare un sistema terapeutico pubblico. 

In questo contesto si è ‘scoperta’ anche l’influenza straordinaria dell’industria farmaceutica, da cui una medicina sempre più affidata a finanziamenti privati, anche e soprattutto sul piano della ricerca, dipende oramai in modo preponderante. In questo contesto si sono viste pressioni, denunce, sanzioni mai viste prima, verso quella minoranza di medici che si è opposto alla narrativa pandemica dominante e a protocolli di cura fallimentari (e che siano fallimentari non è opinabile, avendo l’Italia i peggiori dati di letalità Covid al mondo). Nonostante quasi due anni di balletti imbarazzanti, di dichiarazioni e smentite e giravolte, gli organismi sanitari alle dipendenze del governo esigono l’assoluta acquiescenza dell’intero comparto sanitario. Questa obbedienza letteralmente perinde ac cadaver è stata richiesta da chi nel corso di un anno ha sostenuto: immunità di gregge con il 70% di vaccinati, anzi no con l’80%, anzi no obiettivo impossibile; efficacia dei vaccini al 97%, anzi al 67%; copertura dei medesimi di 6, anzi 9, anzi 12, o forse 3-4 mesi; loro conservabilità a meno 80°, anzi no anche in un frigo normale; loro scadenza estendibile di 3 mesi che manco lo yogurt; inoculazioni di cocktail di vaccini diversi mai sperimentati insieme, che mia zia ha detto che fan benissimo; protocolli sanitari congelati per mesi su ‘tachipirina e vigile attesa’, senza considerare nessun trattamento con farmaci riconvertiti (ampiamente usati all’estero); ecc. ecc. E sulla base di questa performance cristallina poi li vediamo minacciare di radiazione, sanzioni o morte professionale chiunque non si allinei con posizioni che - del tutto incidentalmente ça va sans dire - sono le più gradite alle multinazionali del farmaco.

• Nel frattempo, l’altro grande vincente del periodo Covid accanto all’industria farmaceutica, cioè le multinazionali che manovrano le reti di comunicazione telematica scatenano presunte “cacce alle fake news” manipolando i motori di ricerca, bloccando siti sgraditi con la più completa opacità sui criteri, reindirizzando ricerche di informazioni a fonti governative, cambiando gli algoritmi di diffusione e condivisione in modo da ridurre lo spazio a tesi ritenute improvvide, facendosi insomma garanti privati della verità pubblica da loro insindacabilmente dichiarata tale. Accadono così cose paradossali, come il fatto che la semplice menzione del sito VAERS (Vaccine Adverse Event Reporting System: il sito americano ufficiale per i rapporti sugli eventi avversi da vaccinazione) possa comportare la sospensione di una pagina sui social. (E questo mentre, all’insegna della massima trasparenza, l’Aifa decide di non fornire più i dati nazionali sugli eventi avversi con cadenza mensile, ma solo trimestrale.)

• Infine, ma più importante di tutti, il ruolo dei media di portata nazionale, giornali e televisioni, che hanno fatto a gara nell’omettere, distorcere e manipolare ogni informazione che potesse in qualche modo minacciare la narrazione governativa. Nella quasi totalità i giornali, che hanno perso negli ultimi quindici anni due terzi dei lettori, oramai fanno da mera cassa di risonanza retorica delle opinioni di direttori che sono emanazioni dirette del grande capitale. Non parliamo delle televisioni di portata nazionale. Chi si è ritrovato in questo periodo dalla parte “sbagliata” della barricata ha visto continuamente, ogni giorno, sistematicamente distorte od omesse tutte le informazioni rilevanti per capire qualcosa della protesta nel paese e delle sue motivazioni. Mentre si potevano vedere trasmesse (su canali alternativi e privati) manifestazioni estese, partecipate, reiterate, in tutte le città italiane, queste venivano trasformate televisivamente in nulla, salvo quando occasionalmente c’era un tafferuglio da stigmatizzare. Si è assistito a ondate martellanti di trasmissioni di “approfondimento” (Dio li perdoni) dove una vittima sacrificale (eterodossa) era chiamata a fare da bersaglio per le tirate bullistiche e ignoranti di veri e propri plotoni di esecuzione mediatica. E quando non si poteva tacere si è proceduto con metodici atti di character assassination nei confronti dei dissenzienti più autorevoli.

Ecco, il risultato di questo processo, per la parte di popolazione, non piccola, che l’ha vissuto è molto semplice. 

Si è compreso, si è capito nel modo più diretto ed intuitivo che la propria collocazione di liberi cittadini in una democrazia è oggi sostanzialmente illusoria. 

Se e nella misura in cui le nostre azioni e opinioni sono funzionali a specifici interessi (nella fattispecie gli interessi di autoriproduzione del capitale  implementati dallo stato neoliberale) possiamo avere una qualche voce, ma nella misura in cui ciò non accada possiamo essere ridotti in un istante alla più perfetta impotenza politica, sociale e culturale. 

La rappresentanza democratica è inesistente, giacché le opzioni politiche tra cui possiamo effettivamente scegliere sono solo varianti cromatiche del Partito Unico Neoliberale. 

Tutti i diritti acquisiti, tutte le pretese costituzionali ci possono essere sottratti in un momento senza colpo ferire. Le nostre ragioni possono essere silenziate e spezzate.

Per fare tutto ciò non c’è nessun bisogno di modificare formalmente il funzionamento dello Stato e delle istituzioni, non c’è bisogno di sospendere le elezioni, né di chiudere i sindacati o i giornali, non c’è bisogno di inviare squadracce punitive. Niente di tutto questo. Tutto è già predisposto a poter produrre gli stessi effetti di quegli interventi roboanti e onerosi con modalità quiete e pressoché inavvertite ai più.

Ecco, ed è a questo punto che - nella mia esperienza per la prima volta - l’invocazione di piazza alla “libertà” acquista un senso chiaro e condivisibile. “Libertà” è di per sé termine generico e ambiguo come pochi, e la sua invocazione in forma di slogan, come ogni slogan, è affetto da una costitutiva astrattezza che lo può rendere buono per mille usi, anche discutibili. È discutibile l’idea di libertà come arbitrio (“faccio quel che mi pare”), è assai discutibile l’idea di libertà liberale (“faccio gli affari miei, non interferite cascasse il mondo”), ma nessuno di questi significati è qui in discussione.

In questo momento, in questo contesto, l’appello puro e semplice alla “Libertà” acquista un significato potente e indispensabile: è sia la libertà personale di autodeterminazione, sia la libertà come partecipazione democratica, entrambe ora calpestate e obliterate. 

L’appello elementare alla “libertà” ora appare come qualcosa di eloquente, non perché abbia dietro una chiara elaborazione, ma perché il contesto ne chiarifica il senso: in una situazione che mostra la possibilità già in atto di mettere a tacere ogni istanza pubblica sgradita, in una realtà che evidenzia la capacità di un blocco di interessi consolidati di plasmare il giudizio pubblico e di guidare questo simulacro di democrazia in qualunque direzione desideri, in questo contesto chiedere “libertà” significa dare voce a una richiesta di senso che è innanzitutto umana, necessaria e preliminare ad ogni altra.  

QUI per consultare la bibliografia

 

da qui 

Il Grande Reset - DINAMOpress

Ci hanno fatto credere che la linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green pass, ma la vera partita si gioca sulla ristrutturazione del sistema economico condotta (in gran silenzio) con il Prrn.

The Great Reset non è il complotto apocalittico tirato fuori dal cestino della carta straccia di Davos, ma è il processo più o meno intenzionale eppure assai performativo con cui poco a poco, nell’ultimo anno, ci stanno resettando il cervello. Lo hanno fatto inducendoci a credere, a livello di massa, che la linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green pass, presentato alternativamente come il Bene, la prima emanazione del sommo Draghi, il katechon di Covid-19, o la dittatura sanitaria, l’avvento dello stato d’eccezione permanente e la fine dello stato di diritto.

Certo, la pandemia Covid è stato l’evento più rilevante e minaccioso dell’ultimo biennio su scala mondiale ed è ben lungi dall’essersi risolta e il green pass è l’utile certificazione dell’avvenuta vaccinazione, che per ora (e speriamo nel medio periodo) offre una buona copertura parziale dall’infezione e trasmissione virale. Degli oppositori del green pass non vale neppure la pena parlare. Tuttavia non possiamo ignorare che l’uso che si fa di quel QR-code e della stessa (sacrosanta) campagna vaccinale vada sottoposto a un’attenta valutazione.

Il governo Draghi è stato installato con clangore di trombe e squittio di leccate con due obiettivi dichiarati. Portare a casa i soldi del Next Generation EU (in Italia Recovery Fund, pronunciato correntemente faund, stropicciando le dita) e sconfiggere il virus.

Due battaglie iniziate dal governo Conte 2 ma che si è ritenuto più sicuro affidare all’ex presidente della Bce, non tanto per qualche pasticcio del predecessore quanto per la garanzia di una salda gestione neoliberale. Sul Piano di ripresa e resilienza (cioè la spendita dei soldi) è calato il buio più fitto, mentre per farne approvare in sede europea l’implementazione serve una cascata di “riforme” per decreto-legge e fiducia a ripetizione con un sottinteso indiscutibile: o votate o i soldi non arrivano e non arrivano a nessuno.

Altro che trickle down, sgocciolamento, non c’è festa patronale o partito o impresa che vedrà più il becco di un quattrino. Offerta non rifiutabile e infatti non solo latita il Parlamento (già da tempo svuotato con simili mezzucci, ma stavolta allettato con un appetitoso ciambellone e non terrorizzato con la minaccia di tagli e definanziamenti), ma si sono sciolti anche i partiti della larghissima maggioranza. Destino in cui incorrerà anche l’opposizione di Meloni, il giorno che volesse governare sul serio e non limitarsi a raccogliere gli scontenti del culto messianico di Draghi – scontenti che ci sono sempre, perché gli uomini e le donne sono avide e malvagie e non gli sta mai bene niente.

Per tenere buono il gregge, privato di ogni rappresentanza o meglio dotato di rappresentanze non conflittuali né con Draghi né fra loro, occorreva però montare a lato un teatrino di scontro, dove dividersi e avere l’apparenza di una dialettica.

Il Grande Reset è consistito appunto nel farci discutere su cose serie ma sopravalutate (se isolate dal resto e oltre una fase emergenziale), trascurando altre questioni altrettanto serie ma fornite di una carica emozionale minore, ovvero non sostenute da lotte di massa, oggettivamente calate nell’ultimo decennio e infine ostacolate dalla pandemia, dal lockdown e dalle giuste precauzioni sanitarie. Quando alcuni nodi sono venuti al pettine (lo sblocco dei licenziamenti) è stato abbastanza facile azzittire i sindacati, anche se poi, quando gli “esuberi” sono cominciati nel modo più brutale (Whirpool, Gkn e ora vedremo Ita) le organizzazioni confederali sono state costrette ad accodarsi al sindacalismo di base e all’iniziativa operaia.

Il riflesso sulle politiche governative è stato finora debole, nel senso che i timidi tentativi di contenere il fenomeno delle delocalizzazioni (che incide su alcuni licenziamenti di massa ma non su tutti, per esempio non c’entra nulla con la vicenda ex Alitalia e altre) sonu stato stoppati dall’asse Draghi-Giorgetti. La libertà d’impresa, la patrimoniale e le rendite catastali non si toccano (e Letta abbozza).

Allo stesso tempo nessuna linea politica progressista è emersa finora sulla riunificazione e potenziamento degli ammortizzatori sociali – anzi si moltiplicano le iniziative per smantellare quello che c’à già – e laddove si erano fatti dei passi o si erano elaborati progetti di superamento della precarietà (Decreto Dignità e progetti di salario minimo) è subentrato un cupo silenzio.

Va detto che, almeno sul salario minimo, cui dedichiamo un altro articolo, pesa gravemente la riluttanza del sindacato, che solo negli ultimi giorni ha preso in considerazione, a mezza bocca, una misura che sta passando ovunque a livello europeo (Spagna, Francia, Germania) e perfino negli Usa di Biden. Ci spiegherà mai Landini perché non va bene richiedere, a inflazione crescente, 9 o 10 euro/ora, un po’ meno dei 13 promessi da Biden e dai 12 richiesti dal socialdemocratico Olaf Scholz, che su questo sta impostando una battaglia elettorale vittoriosa in Germania? E perché le confederazioni difendono con i denti il monopolio della rappresentanza, quando tutte le iniziative salariali e occupazionali vincenti – vedi anche i rider – riescono grazie al sindacalismo di base?

In tutti i comparti applicativi del Pnrr, per quanto si è in grado di decifrare, Draghi ha fatto passare senza troppe resistenze una linea neoliberale adattata alla crisi pandemica, cioè integrata in una spesa moderata di sostegno alla domanda e non sull’austerità post-2008, chiudendo però tutte le falle che, in modo velleitario, il governo Conte aveva aperto per riequilibrare gli interessi del grande capitale rispetto a quelli minori o di sezioni di lavoratori. Il programma esposto dal presidente Inps Tridico è il canto del cigno di quella politica economica, che aveva avuto qualche consenso anche dalla sinistra del Pd in era pre-Draghi.

Che ci volete fare, la Confindustria ha detto bene: Draghi è l’uomo della necessità (standing ovation). Che poi imponga le mani e guarisca la scrofola è un dettaglio pittoresco.

Ma il cambiamento più grosso e strutturale ha riguardato o partiti, che già non stavano bene da tempo. Infatti la post-democrazia o crisi endemica della democrazia sostituita da forme illiberali di governance nasce, o almeno in Italia ha un punto di svolte decisivo, con l’agonia dei partiti che della Costituzione postbellica erano l’infrastruttura portante. Il governo Draghi «senza formula politica» (dichiarò papale papale Mattarella insediandolo) nasceva sospendendo la funzione di quei partiti (già compromessa) e la loro reciproca ostilità, che invece ancora perdurava più per bellicosità mediatica che come alternativa programmatica.

C’era un aggregato informe ma ribollente, il M5S, che doveva essere ridimensionato e normalizzato – e lo fu. Il Pd, nel suo estremismo europeista si configurava da naturale “partito di Draghi” e l’operazione Letta funzionò come quella di Conte per il M5S. Fin qui tutto semplice, bastava la razionalità politica e sanitaria per innestare la logistica di Draghi sul sostegno convinto del Pd e, a seguire di malavoglia, dei parlamentari e ministri pentastellati. Il problema non era se fare il lockdown e, trovati i vaccini, la vaccinazione di massa, quello era semplice buon senso (che tuttavia non è equamente distribuito fra gli umani, neppure a sinistra), ma se rinunciare a tutte le altre battaglie per condurre quella unitaria contro il “nemico” armato di proteina spike.

A quel punto si registrava già una forte torsione ideologica. Per dirla con un recentissimo articolo del “Guardian”, «i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra parlano di sicurezza e stabilità mentre quelli di destra parlano di liberazione e rivolta». Ok.

Restava il fronte sovranista e complottista, guidato da Salvini, dentro il governo, e da Meloni, fuori. La Lega era paralizzata dai vincoli europei e dal crollo del sostegno oltre Atlantico di Trump, tuttavia esprimeva un blocco di interessi industriali fondamentale per “mettere a terra” i grandi gruppi finanziari internazionali di cui Draghi è espressione o garante (mettetela come volete). Il più recente passaggio è stato decisivo. Solo Letta poteva illudersi di diventare l’azionista di riferimento di Draghi con la caduta di Salvini per i suoi errori strategici.

Molto abilmente Draghi, sapendo che Letta comunque sarebbe venuto dietro, inchiodato al suo 19 e rotti per cento dei sondaggi e a un partito balcanizzato e pieno di infiltrati renziani, ha scelto di fare andare in minoranza Salvini dentro la Lega e di costruire un asse “produttivistico” con Giorgetti e i governatori delle zone ricche del Paese. A questo punto – con la riserva che bisognerà pur trovare una soluzione di garanzie nell’elezione del Presidente della Repubblica – i giochi sono fatti e l’asse di governo è pronto. Solo che l’azionista di riferimento è Giorgetti. Con un piccolo spostamento a sinistra della Lega (cioè di semplice buonsenso pandemico) si è spostato a destra tutto l’equilibrio di governo.

Draghi l’ha scandito con la proposta di un «patto economico, produttivo e sociale del Paese», che ponga rimedio al deterioramento «delle relazioni industriali sul finire degli anni ’60» – cioè il maledetto ‘68 e l’autunno caldo del ’69.

Inoltre questo patto è fra le “parti sociali”, cioè scavalca perfino i partiti della sua maggioranza e questo va molte oltre il patto Ciampi del 1993, quando i grandi partiti di massa erano ancora in salute.

Letta, invece vede in Draghi un nuovo Ciampi e vaneggia di un nuovo patto concertativo su sviluppo e lavoro. Essendo adulti e vaccinati non ci scandalizziamo per il suo proclamare il Pd “partito del lavoro e dell’impresa”, vorremmo solo obiettare che non rappresenta più il primo ed è wishful thinking che l’impresa si riconosca in esso. Quando si comincia a pensare a un prolungamento del governo taumaturgico dopo il 2023, si prefigura In pratica la fine del Pd persino come gruppo di pressione e stakeholder dell’esecutivo. Che non è l’apocalisse evocata da certi intellettuali di sinistra che pensano per eoni, ma è un evento che chiude la piccola fase storica di cui siamo testimoni e di cui la generazione trap manco ha fatto in tempo ad accorgersi.

L’agenda Draghi ha disattivato tutti i buoni propositi della sinistra immaginaria, moderata e radicale e i cattivi propositi dei sovranisti. Quanto possa sanare le contraddizioni manifestate dal neoliberismo nel 2008 e nell’incontro con la pandemia è tutto da vedere.

Il fallimento di quel progetto è intrinseco, per fortuna, non dipende dalla resistenza dei suoi avversari attuali, anche se si manifesterà soltanto con il sorgere di nuove resistenza Il problema e oseremmo dire il compito di qualsiasi oppresso e subalterno è costruire un’agenda alternativa.

Qualche segno interessante si sta manifestando ed è legato agli effetti economici salariali e occupazionali della crisi covidica, alla ristrutturazione del lavoro informale, all’indebolimento dell’egemonismo Usa, all’insostenibilità dell’assetto ecologico, alla decadenza delle relazioni patriarcali e del razzismo che interagiscono con le contraddizioni dello sviluppo e del comando.

Segni prognostici corposi sono stati per un verso il grande corteo operaio di Firenze – il maggiore nell’ultimo quinquennio –, per l’altro il successo impressionante della ripresa delle manifestazioni dei Fridays for Future post-pandemia. Altro che le chiassate bavose dei no-vax e il sex-appeal nei comizi di Conte di cui si diletta la nostra stampa mainstream e l’arrendevole TV.

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Scandalo su Cop26: volevano truccare il report Onu sull’allarme del clima

 

Scandalo alla vigilia di Cop26


Un’enorme fuga di notizie su documenti riservati in mano a Bbc News ha rivelato che ci sono Paesi che stanno facendo grandi pressioni (si parla di oltre 32.000 appunti e modifiche) al testo per cambiare l’ultimo rapporto scientifico prodotto dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo delle Nazioni Unite che studia il cambiamento climatico.

Peer esempio si racconta come Arabia Saudita, Giappone e Australia avrebbero chiesto alle Nazioni Unite di “minimizzare la necessità di allontanarsi” mentre  alcune nazioni ricche hanno espresso perplessità sulla possibilità di finanziare gli Stati più poveri per passare a tecnologie verdi.



La “lobby”

L’insieme di questi paesi, che è stato definito dalla Bbc – lobby- ha  sollevato interrogativi per il vertice sul clima, la Cop26. Si tratta della 26esima Conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite che si terrà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre per assumere impegni significativi per mantenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi.

Per quanto riguarda i combustibili fossili, molti Paesi e organizzazioni sostengono che il mondo non ha bisogno di ridurre l’uso di combustibili fossili così rapidamente come raccomanda l’attuale bozza del rapporto. Un consigliere del ministero del petrolio saudita chiede che frasi come “la necessità di azioni di mitigazione urgenti e accelerate su tutte le scale…” siano eliminate dal rapporto.  Inutile ricordare che l’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo…

Tra i paesi invece riluttanti all’ipotesi di finanziare i Paesi più poveri e in via di sviluppo perché passino a tecnologie “green”, la Svizzera svetta fra tutti. Il Paese ha già chiesto di modificare parti del rapporto. Alla conferenza sul clima di Copenaghen del 2009, infatti, è stato concordato che le nazioni sviluppate avrebbero fornito “100 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima per i paesi in via di sviluppo entro il 2020″. L’obiettivo in realtà deve ancora essere raggiunto. L’Australia si è accodata alla Svizzera facendo presente che “gli impegni climatici dei paesi in via di sviluppo non dipendono tutti dalla ricezione di un sostegno finanziario esterno”.

Dunque, con queste premesse, c’è da prendere con le molle qualsiasi impegno prenderanno gli stati partecipanti all’imminente summit…

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sabato 30 ottobre 2021

Vittorio Agnoletto: «Non sospendere i brevetti sui vaccini è un atto di guerra»

 

India e Sudafrica hanno chiesto da ormai più di anno di mettere in discussione la proprietà intellettuale sui farmaci anti-Covid affinché si possa garantire un accesso equo ai vaccini in tutto il mondo. Ma i paesi europei sono conniventi con Big Pharma

(Intervista di Francesco Brusa)

Al summit internazionale del G20 di questo fine settimana a Roma si parlerà anche di accesso ai vaccini per tutti i paesi del mondo. La situazione non è certo rosea: nelle zone ricche del pianeta ci sono dosi in eccesso e in via di scadenza, mentre in contesti come quello africano alcuni stati sono sotto al 5% di popolazione vaccinata. In più, gli accordi stretti fra case farmaceutiche e Commissione Europea ostacolano una ripartizione equa degli antigenici. Proprio per questo, ormai un anno fa, India e Sudafrica hanno presentato una proposta di moratoria per sospendere i brevetti sui farmaci anti-Covid e chiedere maggiore trasparenza sui metodi e sulle ricerche nell’ambito della loro produzione. Abbiamo parlato con Vittorio Agnoletto, fra i promotori della campagna “Nessun profitto sulla pandemia” che sta appunto cercando di far pressioni su governi e istituzioni europee per accettare la richiesta dei paesi a medio e basso reddito.

Qual è il punto della situazione?

Siamo di fronte a un mese decisivo per il futuro prossimo dell’umanità. Ci sono due importanti scadenze in successione: il g20, in cui i paesi più ricchi del pianeta arriveranno a determinare la loro posizione in merito alla distribuzione dei vaccini, mentre dal 30 novembre al 3 dicembre si svolgerà la riunione interministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che in qualche modo rappresenta la “battaglia finale”. In quell’occasione si arriverà per forza di cose a una decisione finale: o i brevetti vengono messi in discussione sulla scorta della moratoria proposta da Sudafrica e India oppure non cambia niente.
È dall’ottobre del 2020 che questa discussione è sul tavolo di tutte le più importanti organizzazioni internazionali e sul tavolo di tutti i governi, compreso il nostro. Perché è esattamente dall’ottobre del 2020 che Sudafrica e India chiedono una fast track, vale a dire un percorso veloce dentro le organizzazioni del commercio per arrivare a dibattere e ad approvare la proposta di moratoria. La situazione non si è sbloccata e adesso arriviamo al tavolo interministeriale col tema all’ordine del giorno ma dopo aver perso un anno.

Quanto conta dunque il summit di questo fine settimana?

Nel G20 si dovrà decidere qual è il comportamento dei paesi più ricchi. Teniamo presente che dentro il g20 ci sono i paesi che si stanno opponendo a questa scelta (ovvero Ue, Gran Bretagna, Norvegia). Quindi le due tappe sono conseguenti l’una all’altra ed è importantissimo quello che avverrà o non avverrà nel corso del vertice all’Eur. Il nostro paese ha una responsabilità enorme perché ha la presidenza del g20 e quindi le eventuali proposte per l’approvazione della moratoria sono in mano al governo italiano e agli sherpa italiani.
Purtroppo, se lasciamo da parte qualche fumosa dichiarazione rilasciata giusto per essere data in pasto all’opinione pubblica grazie all’aiuto di qualche media compiacente, andando al nocciolo della questione notiamo che da parte del nostro governo non emerge nessuna volontà di modificare la propria posizione e tanto meno di contribuire a modificare la posizione del Consiglio Europeo.

Come mai questa reticenza?

Nella vicenda dei vaccini, la Commissione Europea ha delle colpe enormi ma è chiaro che può permettersi di comportarsi così perché i governi che contano di più avvallano la sua posizione. La Commissione non può decidere per conto proprio, quindi la responsabilità di aver fino a ora chiuso la porta a una sospensione dei brevetti è condivisa fra Commissione e governi europei e in particolare col governo tedesco, francese e italiano. Questo perché da sempre i governi europei sono i massimi alleati di Big Pharma. Ma questa è una storia che va avanti da decine di anni, almeno dall’autunno del 2001 quando ci fu la dichiarazione di Doha. Allora ci fu uno scontro molto acceso col Sudafrica di Mandela, attraverso cui si arrivò alla dichiarazione per cui «la tutela dei brevetti non dovrà mai impedire ai governi di fornire la miglior cura disponibile ai propri cittadini». Si tratta di un principio che stabilisce la prevalenza del diritto alla salute sugli interessi commerciali.
Dal momento in cui quella dichiarazione venne approvata, l’Unione Europea iniziò a mettersi di traverso. Cominciò subito a ostacolarne l’applicazione pratica. Si tratta di qualcosa di cui va tenuto conto in tutta la vicenda dei vaccini: come possono essere giustificati gli accordi presi con le aziende farmaceutiche?

Accordi in larga parte secretati…

Hanno stretto degli accordi che non sono stati resi pubblici, hanno accettato in pratica tutto quello che gli è stato chiesto dalle case farmaceutiche. Tra l’altro, fra Canada Unione Europea e Stati Uniti, sono stati impiegati almeno 8 miliardi di dollari per finanziare la ricerca sui vaccini. Se prendiamo il caso di AstraZeneca, sappiamo che il 97,2% delle spese sostenute dall’azienda per produrre il suo vaccino derivano da fondi pubblici o da soldi di fondazioni caritatevoli. Nonostante questo, la Commissione Europea ha lasciato i brevetti in mano a istituti che sono completamente privati. Quindi, per riassumere: abbiamo finanziato la ricerca ma abbiamo lasciato alle case farmaceutiche il brevetto, ovvero il profitto. Poi abbiamo acquistato da loro un farmaco che abbiamo contribuito a produrre e infine abbiamo accettato che fossero loro a stabilirne i prezzi che, tra l’altro, non sono stabili. È stato dichiarato che, appena passata la fase pandemica, questi prezzi potrebbero aumentare anche di sette o otto volte.

Non solo: abbiamo pure accettato di inserire nei contratti delle clausole per cui se volessimo donare gratuitamente dei vaccini ai paesi poveri occorre avere un’autorizzazione. Allora, per firmare un contratto di questo tipo è chiaro bisogna essere o ubriachi oppure conniventi degli interessi delle azienda farmaceutiche. Non c’è altra opzione. E tutto questo al netto di ciò che non sappiamo per via dei contenuti degli accordi che rimangono secretati: mi chiedo se anche gli accordi con l’Unione Europea contengano delle clausole, che le multinazionali hanno in passato imposto ad alcuni paesi, per cui nel caso di cause collettive devono essere gli stati a pagare, sollevando così l’azienda da ogni responsabilità. Sarebbe la prima volta che capiterebbe in campo sanitario una roba del genere.

Nel frattempo però alcune dosi di vaccino vengono donate ai paesi più poveri…

È inaccettabile. L’elemosina e la carità non possono mai sostituire i diritti. Al massimo possono essere qualcosa di complementari ai diritti, che però devono venire per primi. Il nostro governo e l’Unione Europea si riempiono la bocca di donazioni, che comunque a oggi sono pochissime. In parte, sono stati donati vaccini che erano a un passo dalla scadenza e anche adesso si parla di donare vaccini che scadono a dicembre. Tra l’altro si sta discutendo di donare le dosi di AstraZeneca in eccesso, farmaco che però è stato dimostrato che non va utilizzato con persone giovani e nel sud del mondo l’età media è chiaramente inferiore alla nostra. Insomma, questa non è neanche carità.
È abbastanza scioccante che l’Europa con la sua storia, cultura e con i suoi principi (dei i quali si erge a difensore in tutto il mondo), decide di farsi corresponsabile della morte di milioni di persone. Perché è quello che sta succedendo: la guerra non si fa solo con le armi, si fa anche negando i farmaci e negando i vaccini. Non dimentichiamo che Big Pharma– dunque il settore farmaceutico – è al secondo posto a livello mondiale per distribuzione dei dividendi ai propri azionisti, solo dopo l’industria delle armi. C’è quindi un peso enorme di questi settore industriale sulle istituzioni politiche europee, che genera probabilmente anche degli intrecci che rimangono ai più sconosciuti.

Come agirete da qui in avanti?

Il coordinamento europeo “Nessun profitto sulla pandemia” si sta organizzando per una serie di iniziative che costelleranno il mese di novembre in tutto il mondo e in particolare in Europa: movimenti, associazioni e fondazioni hanno gli occhi puntati su di noi, perché siamo noi europei che stiamo bloccando tutto. Cercheremodi spingere insegnanti di medie superiori e università affinché da qui al 30 novembre venga dedicato del tempo a spiegare l’importanza di far arrivare vaccino anche nel sud del mondo.

Qualora non si volessero seguire i principi di solidarietà e giustizia, si tratta di un’azione fondamentale pure sulla base di un “sano egoismo”: se il virus continuerà a diffondersi è molto probabile che si sviluppino varianti maggiormente aggressive, che arriveranno anche da noi e nessuno oggi può dire se i vaccini di cui disporremo saranno efficaci o meno e in che misura. Se non vogliamo tornare indietro e non vogliamo tornare in lockdown, dobbiamo rendere i vaccini disponibili per tutti. Il nostro è un obiettivo molto concreto: appoggiare la proposta di India e Sudafrica per una moratoria di tre anni sui brevetti dei vaccini e per consentire la socializzazione delle conoscenze.

da qui

Goran Bregovic in concerto

 

Acqua pubblica, il 3 novembre parte la carovana contro la privatizzazione - Corrado Oddi

 

(dal manifesto del 25.10.2021)

 

Non c’è limite al peggio. Mi riferisco all’emendamento della legge regionale con cui, una decina di giorni fa, l’Assemblea regionale dell’Emilia-Romagna ha deciso di prorogare fino alla fine del 2027 gli affidamenti del servizio idrico in regione, tranne quelli – Reggio Emilia e Rimini – dove è in corso una procedura di gara.

Una scelta espressa con il voto di tutti i gruppi consiliari ad eccezione di Europa Verde e di quello Misto, che non hanno partecipato al voto. Il provvedimento è stato presentato senza discuterne con associazioni e movimenti, a partire dai Comitati dell’acqua, in una regione che si vanta di essere esempio della partecipazione.

E non c’è dubbio che esso costituisca un grande regalo alle multiutilities quotate in Borsa, che gestiscono la grandissima parte del servizio idrico nel territorio.

In particolare ad Hera, tenuto conto che la concessione è in scadenza: alla fine di quest’anno a Bologna; alla fine del 2023 a Forlì-Cesena e Ravenna; alla fine del 2024 a Ferrara e Modena. Anziché porre all’ordine del giorno il tema della possibile ripubblicizzazione – come si era iniziato a fare a Bologna- si consolida, invece, la privatizzazione e si dà un colpo pesante all’esito referendario del 2011.

Le giustificazioni non sono credibili: è stato detto che era necessario dare continuità alle gestioni esistenti per realizzare gli investimenti previsti nel Pnrr, fingendo di non sapere che, in caso di subentro di un nuovo gestore, essi comunque continuano.

Oppure che il male minore era allungare gli affidamenti di 6 anni piuttosto che di 30, nel momento in cui si fosse realizzata una nuova gara. Occultando il fatto che, scaduta la concessione, non esiste l’obbligo di andare a gara, visto che si può invece ripubblicizzare il servizio, né tantomeno che essa si debba svolgere alla scadenza prefissata, visto che l’esperienza dimostra l’esatto contrario.

Ciò che inquieta maggiormente è che non ci troviamo di fronte ad un provvedimento isolato, ma a una strategia di privatizzazione completa del servizio idrico. Basta leggere le pagine del Pnrr su «Tutela del territorio e della risorsa idrica». Al di là delle risorse stanziate, decisamente insufficienti, il cuore del Pnrr in materia è quello della «riforma» per rendere «efficienti» i soggetti gestori del servizio idrico.

Nel mirino, c’è, in primo luogo il Mezzogiorno e molto probabilmente l’azienda di diritto pubblico Acqua Bene Comune di Napoli, la prima e quasi unica esperienza che ha dato compiutamente corso all’esito referendario.

L’intenzione, che peraltro informa tutto il Pnrr, è che l’intervento pubblico sia servente nei confronti del mercato, per crearlo e sostenerlo, e apra la strada alla conquista del Mezzogiorno delle grandi aziende multiutilities quotate in Borsa.

Né ci deve stupire che l’argomento usato per il Mezzogiorno sia esattamente contrario a quello messo in campo dalla Regione Emilia- Romagna: qui si dice che per realizzare gli investimenti del Pnrr si deve dare continuità alle gestioni, guarda caso delle multiutilities, e là, su suggerimento del Ministero della «finzione» ecologica e di Arera, l’agenzia regolatoria del servizio idrico, si sostiene che per avere i soldi del Pnrr occorre procedere a nuovi affidamenti.

La sostanza è una sola: si deve chiudere la stagione iniziata con i referendum di 10 anni fa e stabilire definitivamente che il modello di gestione è quello imperniato sulle grandi multiutilities quotate in Borsa.

Il neoliberista Draghi vuole portare a termine il lavoro iniziato all’indomani del referendum del 2011: all’epoca, in quanto presidente entrante della Bce scriveva al governo italiano perché intervenisse per «liberalizzare» i servizi pubblici locali, nonostante l’esito referendario, e oggi, dal governo, realizza direttamente quell’intendimento.

Per quanto ci riguarda, non subiremo queste volontà autoritarie che contraddicono il responso popolare: ci mobiliteremo con un presidio promosso dai Comitati per l’acqua e dalla Rete regionale Emergenza Climatica e Ambientale sotto la Regione Emilia-Romagna il 3 novembre e organizziamo come Forum nazionale una «carovana per l’acqua» che toccherà vari territori e culminerà a Napoli con una manifestazione di carattere nazionale il 20 novembre, oltre a partecipare alle varie iniziative che costruiscono momenti di convergenza tra i vari movimenti e soggetti sociali.

Con la consapevolezza che chi intende procedere con il comando e con una visione avulsa dai processi reali, prima o poi i conti con il consenso e i fatti concreti li dovrà fare.

 

* Forum Italiano Movimenti per l’Acqua

 

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venerdì 29 ottobre 2021

WWF accusato di inganno, insabbiamento e disonestà nell’udienza della Commissione al Congresso USA - Survival

 

- Il Presidente della Commissione si è detto “frustrato, esasperato e incredulo per la mancata assunzione di responsabilità del WWF” negli abusi dei diritti umani


- L’esperto indipendente sottolinea i “continui impatti del colonialismo nella conservazione”, accusa il WWF di “raggiri scioccanti” e denuncia che l’organizzazione “non cambierà il suo comportamento a meno che non venga costretta a farlo”


Nel corso di un’udienza senza precedenti della Commissione Risorse Naturali della Camera degli Stati Uniti (US House Natural Resources Committee), deputati di entrambe le parti politiche ed esperti indipendenti hanno fatto a pezzi la reputazione del WWF e hanno denunciato le gravi violazioni dei diritti umani alimentate dal modello della “conservazione fortezza”.

L’organizzazione ha subito un attacco senza precedenti per il suo coinvolgimento in abusi dei diritti umani e per il suo rifiuto di assumersene la responsabilità. Secondo Survival International, “per l’industria della conservazione è uno scandalo da cui non si riprenderà più”.

L’udienza segue le denunce di Buzzfeed News e di molte altre indagini, incluse le testimonianze dei popoli indigeni raccolte da Survival International nel corso degli anni, che hanno messo a nudo il coinvolgimento del WWF in abusi dei diritti umani, in particolare in Africa e Asia.

Decine di popoli indigeni e locali sono stati uccisi, torturati e stuprati da guardaparco finanziati dal WWF che, pur sapendo da decenni degli abusi, ha fatto ben poco per fermarli. Gli abusi sono alimentati direttamente da un modello di conservazione che sfratta le comunità indigene e locali per creare aree di conservazione. Altre organizzazioni sono state coinvolte in simili abusi, tra queste la Wildlife Conservation Society e African Parks.



Nel corso dell’udienza, il professor John Knox, che ha diretto un’indagine sulle violazioni dei diritti umani nei progetti WWF commissionata dalla stessa Ong, ha affermato: “Sono molto deluso perché il WWF non ha rotto con il suo passato… La leadership del WWF continua a negare il suo ruolo nella conservazione fortezza e negli abusi dei diritti umani”.

Knox ha chiesto all’organizzazione di scusarsi [per il suo coinvolgimento in passati abusi dei diritti umani] e di assumersi la responsabilità [per i suoi fallimenti], e ha rimproverato il WWF per aver ingannato la Commissione: “La testimonianza rilasciata dal WWF a questa sotto-commissione ha utilizzato citazioni tratte dal rapporto ma decontestualizzate, e ha quindi fornito una falsa impressione delle conclusioni del team investigativo. È francamente scioccante…”

“Queste accuse hanno anche messo in luce i continui impatti del colonialismo nella conservazione: il vecchio modo di fare conservazione – occidentali che arrivano in un paese, istituiscono un parco nazionale con confini rigidi e liberano l’area dei suoi abitanti – continua ancora oggi a creare conflitto.”

 

 “Sono assolutamente scioccato per le violazioni dei diritti umani e per il trattamento delle comunità locali e indigene che sono stati denunciati oggi” ha dichiarato il deputato democratico Alan Lowenthal. “È devastante sapere” che i finanziamenti statunitensi hanno contribuito ad “atrocità davvero brutali.”

Il Presidente della Commissione, il deputato democratico Jared Huffman, ha affrontato duramente Ginette Hemley, vice-presidente WWF per la conservazione della fauna, venuta a rappresentare l’organizzazione all’udienza dopo il declino dell’invito a prestare testimonianza da parte di Carter Roberts, Presidente e Amministratore Delegato WWF negli Stati Uniti.

Huffman ha criticato il WWF anche per non volersi assumere la responsabilità degli abusi che ha finanziato: “…I finanziamenti alla conservazione internazionale sono messi potenzialmente a rischio perché moltissime persone sono frustrate, esasperate e incredule per la mancata assunzione di responsabilità da parte del WWF. Non risponde a una semplice domanda si/no sul fatto che abbiate qualche responsabilità, figuriamoci chiedere scusa…”. “Sin dall’inizio, il WWF si è concentrato sull’elaborazione di scuse per prendere le distanze dalle accuse” e si è comportato “come se il problema fosse solo una questione di cattiva pubblicità per il WWF”.

L’organizzazione è stata castigata anche dal deputato repubblicano Cliff Bentz: “Il WWF è stato irresponsabile – la loro testimonianza è imbarazzante. Devono fare un passo avanti e ammettere di aver sbagliato…. Mi viene in mente la parola colonialismo ”.

Fiore Longo, responsabile della campagna condotta da Survival International per decolonizzare la conservazione, ha commentato: “Per l’industria della conservazione questo è l’equivalente dello scandalo di Abu Ghraib, è la demolizione totale di ciò che rimaneva della reputazione del WWF. Più e più volte è stato smascherato davanti a tutti il loro innato istinto a insabbiare, svicolare dalla colpa e fingere di cambiare mentre continuano con i soliti comportamenti.”

“Come ha detto John Knox, il WWF non è l’unico a comportarsi così: questo genere di abusi è profondamente radicato nel modello di conservazione tradizionale, che è in diretto conflitto con i diritti umani e i diritti indigeni in particolare” ha dichiarato oggi la Direttrice generale di Survival International Caroline Pearce. “Per decenni il fenomeno è stato non solo ignorato ma anche sostenuto da grandi organizzazioni per la conservazione, che mentre attraevano imponenti finanziamenti da governi e aziende, chiudevano un occhio sulle atrocità in atto contro i popoli indigeni e altre comunità. Il furto di vaste aree indigene nel nome della conservazione della natura è, come ha detto il deputato Bentz, colonialismo moderno che viene finalmente e spietatamente denunciato.”

“Quanto accaduto dovrebbe suonare come un campanello d’allarme. Non solo per le celebrità che sostengono il WWF, come Leonardo Di Caprio e il Principe William, ma anche per tutti quei filantropi e quelle aziende che versano soldi alla conservazione con il presunto intento di “proteggere” il 30% del pianeta: queste organizzazioni e il loro modello di conservazione sono tossiche. Con la COP26 ai blocchi di partenza, per garantire davvero la sostenibilità ambientale e la biodiversità urge adottare un approccio basato sui diritti umani – e in particolare, sul riconoscimento dei diritti territoriali indigeni. La strada corretta non passa per le ONG della conservazione, per le quali gli abusi sono una caratteristica e non un errore.”

da qui



Survival e Wwf: rotta la trattativa per salvaguardare i diritti dei nativi in Africa (06-09-2017)


La storica mediazione tra Survival e il WWF sulla violazione delle Linee Guida OCSE destinate alle imprese multinazionali si è interrotta sul tema del consenso dei popoli indigeni.

 

Si spezza l'esile filo che teneva in piedi la trattativa tra Survival, l'associazione che difende i diritti dei popoli indigeni, e il  WWF, accusato di appoggiare coloro che puntano a cacciare le tribù dai loro luoghi originari in nome di un conservazionsimo che Survival critica da sempre.

«Avevamo chiesto al WWF che si impegnasse ad assicurare che vi fosse il consenso dei ‘Pigmei’ Baka rispetto alle future modalità di gestione delle aree di conservazione create nelle loro terre in Camerun, in linea con la politica sui popoli indigeni dell’organizzazione stessa - spiegano da Survival - ma si sono rifiutati di farlo, perciò Survival ha ritenuto che non valesse più la pena continuare i negoziati».

Survival ha presentato un’istanza nel 2016 denunciando la creazione di aree di conservazione nelle terre dei Baka avvenuta senza il loro consenso e il costante mancato intervento del WWF nei casi di grave abuso dei diritti umani commessi dai guardaparco che addestra e finanzia.

È la prima volta che un’organizzazione per la conservazione è soggetta ad un’istanza secondo le linee guida dell’OCSE. La mediazione che ne è seguita si è tenuta in Svizzera, dove il WWF ha la sua sede principale.

«Il WWF ha giocato un ruolo determinante nella creazione di numerosi parchi nazionali e altre aree protette in Camerun nelle terre dei Baka e di altre tribù della foresta - spiega Survival - La sua stessa politica afferma che qualsiasi progetto di questo tipo deve avere il consenso libero, previo e informato di coloro che ne sono interessati. Un uomo baka ha riferito a Survival nel 2016: “[La squadra anti-bracconaggio] ha picchiato i bambini e anche una donna anziana con i machete. Mia figlia non sta ancora bene. L’hanno fatta accovacciare e l’hanno colpita ovunque – sulla schiena, sul sedere, ovunque, con un machete”. “Mi hanno chiesto di prendere mio padre in spalla. Ho iniziato a camminare, mi hanno picchiato e hanno picchiato mio padre. Per tre ore. Ogni volta che mi lamentavo mi picchiavano, fino a che non sono svenuto e sono caduto a terra” ha raccontato un altro uomo».

La cronistoria

- Survival ha sollevato le proprie preoccupazioni circa i progetti del WWF nelle terre dei Baka per la prima volta nel 1991. Da allora, i Baka e altri popoli locali hanno subito ripetuti arresti e pestaggi, torture e persino morte per mano dei guardaparco finanziati dal WWF.
- L’OCSE è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Pubblica delle Linee Guida sulla responsabilità delle imprese multinazionali, e fornisce un meccanismo di reclamo per i casi in cui le linee guida sono violate.
- L’Istanza è stata presentata presso il Punto di Contatto Nazionale (PCN) svizzero dell’OCSE, dato che il WWF ha la sua sede internazionale in Svizzera. I negoziati hanno avuto luogo nella capitale Berna, tra i rappresentanti del WWF e di Survival.
- Il principio del Consenso Libero, Previo e Informato (CLPI) è il fondamento della legislazione internazionale sui diritti dei popoli indigeni. Ha implicazioni significative per le grandi organizzazioni della conservazione, che spesso operano nelle terre dei popoli indigeni senza essersi assicurate che vi sia il loro consenso.


«Popoli indigeni come i Baka hanno vissuto e gestito i loro ambienti per millenni. Contrariamente a quanto si crede, le loro terre non sono selvagge - aggiunge Survival - Le prove dimostrano che i popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Nonostante ciò, il WWF li ha esclusi dai suoi sforzi di conservazione nel Bacino del Congo. I Baka, come molti popoli indigeni in tutta l’Africa, sono accusati di “bracconaggio” perché cacciano per nutrire le loro famiglie. Gli viene negato l’accesso a vaste porzioni della loro terra ancestrale per cacciare, raccogliere prodotti e svolgere rituali sacri. Molti sono obbligati a vivere in accampamenti improvvisati ai margini delle strade, dove il loro livello di salute è molto basso e dilaga l’alcolismo. Nel frattempo, il WWF ha stretto partnership con imprese del legname come la Rougier, sebbene queste compagnie non abbiano il consenso dei Baka per disboscare la foresta, e il taglio del legno non sia un’attività sostenibile».

«Il risultato di questi negoziati è sconcertante ma non certo sorprendente - ha detto il Direttore generale di Survival International, Stephen Corry - Le organizzazioni per la conservazione dovrebbero assicurarsi che vi sia il 'consenso libero, previo e informato' per le terre che vogliono controllare. Questa è stata la politica ufficiale del WWF negli ultimi venti anni. Ma questo consenso non viene mai ottenuto nella pratica, e il WWF non si è voluto impegnare per assicurarlo in futuro nell’ambito del suo lavoro. Adesso è chiaro che il WWF non ha alcuna intenzione di cercare, tanto meno assicurare, il consenso formale delle comunità a cui ruba le terre in collusione con i governi. Dovremo trovare altri modi per spingere il WWF a rispettare la legge, e la sua stessa politica».

da qui




https://www.wilderness.it/sito/wwf-internazionale-si-diffondono-due-comunicati-di-survival-international-e-di-greenpeace-international-in-merito-a-certe-posizioni/

 

https://www.wwf.it/pandanews/ambiente/sui-baka-il-wwf-risponde-a-survival/

 

Fermare la creazione di nuove Aree Protette: 

https://www.survival.it/notizie/12676


Preliminare zapatista - Aldo Zanchetta

  

Una consistente delegazione di componenti maschili, femminili e otro@s del movimento zapatista sono in questi giorni in Europa ed una loro commissione è in Italia dal 12 di ottobre ove resterà fino al 5 di novembre.

Gli zapatisti sono arrivati in Europa percorrendo il cammino inverso rispetto a quello seguito da Cristobal Colon nel lontano 1492, quando arrivò, equivocando circa il luogo, nelle terre che chiamò Indie Orientali. Hanno ‘navigato’ nelle moderne caravelle dell’aria, gli aerei, ma un piccolo nucleo di 7 persone, lo “squadrone 421”, era giunto in Europa, alle Azzorre, l’11 luglio scorso su un veliero, percorrendo simbolicamente in senso inverso il percorso del 1492.  Per questo il viaggio  è stato definito scherzosamente come una loro “invasione” dell’Europa.

È possibile non cogliere, per distrazione, il significato storico dell’evento: gli “invasi” di 500 anni or sono hanno invertito i ruoli.

Conseguenza del viaggio di Colombo fu il più grande genocidio che la storia ricordi: secondo studi contemporanei la popolazione di quelle terre contava all’epoca da 80 a 90 milioni di persone. Dopo 50 anni essa era ridotta a meno di 10 milioni: responsabili di ciò in buona parte i virus portati dai conquistatori, il più comune dei quali, ormai innocuo per i suoi portatori – quello dell’influenza – contro il quale invece i nativi non avevano difese immunitarie. Il massacrante lavoro nelle miniere e le stragi in battaglie nelle quali i nuovi venuti impiegarono le loro armi “moderne”: archibugi e cannoni, cavalli e cani addestrati al combattimento fecero il resto.

Nel tempo, le culture originarie superstiti, molte centinaia o forse migliaia allora, dovettero affrontare la distruzione culturale originata da quello che il filosofo Dussel ha definito l’”occultamento dell’altro”, da contrapporre alla celebrata “scoperta” delle terre, non certo ignote a chi le abitava. Si iniziò negando la natura umana dei “conquistati”, che secondo i canoni dell’epoca necessitava l’esistenza dell’anima, che molti negavano essere da essi posseduta. Una volta decretato ex-lege papale che anch’essi ne erano dotati, iniziò la loro assimilazione culturale, cioè la negazione della loro “diversità”, che prosegue ancora oggi con le politiche dette “indigeniste”, concepite cioè dai successori dei conquistadores, disegnate per loro, ma non da loro. Rispolverate e applicate oggi in Messico dal presidente “progressista” AMLO (Andrés Manuel López Obrador).

Ci limitiamo a questi brevi richiami storici non avendo queste note l’intenzione di ripercorrere la storia ma solo di voler sottolinearne un dato di fatto: cinque secoli o poco più dopo la “scoperta”, a cui erano seguite la conquista e la decimazione degli abitanti, i rappresentanti di alcuni popoli superstiti, in una fase storica che potrebbe essere definita come un “ri-nascimento” indigeno, ripercorrono in senso inverso il cammino di Colon per riaffermare la loro appartenenza “con dignità” alla comune razza umana, in un percorso che programmaticamente incontrerà successivamente i popoli dei 5 continenti, dove molte altre culture sono “occultate”, in un momento storico in cui i popoli occidentali stanno cambiando la stessa modalità di essere ‘umani’, in una prospettiva ormai in via di attuazione da Cartesio in poi e che oggi procede in modo enormemente accelerato, quella di una liberazione dell’attività cerebrale dal limitante corpo di carne: il post, o se preferite, il trans-umano.

Chiuso questo rapido excursus storico, le altrettanto brevi note che seguono sono scritte per quanti non conoscono lo zapatismo e lo ignorano vedendo in questa venuta di loro rappresentanti solo un elemento “folcloristico” singolare, da ‘consumare’ e subito dimenticare, in una frenesia dissipativa di ogni evento insolito capace di attrarre per breve tempo l’attenzione.

 

Chi sono gli e le zapatiste?

Molto è stato scritto sullo zapatismo, soprattutto nei primi anni della loro sollevazione armata in Chiapas, questo Stato situato sulle montagne del Sudest della Repubblica del Messico fino ad allora sconosciuto al pubblico internazionale. Dal primo gennaio del 1994 si sarebbero letti con curiosità – però da una minoranza anche con reale interesse – i messaggi inviati al mondo da un enigmatico Comando Generale del Comando Clandestino Rivoluzionario Indigeno (Ccri-Cg) o, più spesso, da un altrettanto misterioso sub-comandante Marcos (intrigante quel sub! Una geniale impostura, come fu scritto?).

Un’insurrezione armata di indigeni col volto coperto in un momento storico in cui era stata dichiarata la “fine della storia” (ricordate il libro del 1992 di F. Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?) e l’affabulare geniale del loro presunto “capo”,  Marcos, un non indigeno, avevano tutti gli elementi per ricevere spazio anche nei nostri media occidentali, affamati di “novità” per distrarre i loro lettori. Dopo alcuni mesi l’attenzione mediatica ebbe termine e dopo pochi anni essa calò anche nelle schiere dei simpatizzanti che nei primi  tempi si erano recati numerosi a portare la loro “solidarietà” a questi ipotetici costruttori di un mondo nuovo, che gli zapatisti affermavano di voler realizzare. Oggi il numero di quelli che vennero ironicamente definiti “zapaturisti” è notevolmente diminuito, anzi quasi estinto, come già l’interesse del pubblico, e ogni tanto qualche persona all’epoca interessata, sapendo del mio perdurante interesse a questa vicenda, incontrandomi mi chiede “Ma gli zapatisti esistono ancora? E se sì, che cosa fanno?”.

Già, che cosa hanno fatto e che cosa fanno? Difficile rispondere in due parole ma si può provare a farlo andando al cuore dei fatti: stanno facendo crescere pazientemente e consolidando fra molti ostacoli un’esperienza di autogoverno comunitario che probabilmente è la più avanzata nel mondo, almeno fra quelle conosciute da chi scrive. “Qui il popolo comanda e il governo obbedisce”, si legge all’ingresso dei territori zapatisti, non è solo uno slogan.

 

La notte del primo gennaio 1994

Tutto ebbe inizio nella notte del primo di gennaio del 1994 quando alcune migliaia – gli storici dicono 3 o 4 mila – di indigeni e indigene maya col volto coperto occuparono senza colpo ferire 5 cabeceras (capoluoghi municipali) fra i quali il più importante simbolicamente era San Cristóbal de Las Casas, l’antica Ciudad Real dei conquistatori, promossa da poco a una delle capitali del turismo internazionale. Altre migliaia restavano come rinforzo nelle comunità ribelli della “Montaña” (un simbolo importante, nella narrazione zapatista, tanto da dare questo nome al veliero dello “squadrone 421”). In realtà l’EZLN, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, nel quale erano inquadrati i ribelli, era già sorto qualche anno prima in clandestinità, nelle cañadas, le aspre e strette valli che solcano la Selva Lacandona, una delle ormai poche quasi inesplorate foreste tropicali del pianeta. Lo avevano fondato nel 1983 quattro leader indigeni, colà rifugiati per salvare la vita, e 4 guerriglieri cittadini, anch’essi sfuggiti alle selvagge repressioni che il governo stava conducendo fin dal 1965 contro i movimenti studenteschi che avevano osato contestarne l’operato.

I motivi della nuova rivolta indigena erano da ricercare in una serie secolare di agravios (torti subiti) che avevano alimentato una lunga serie di rivolte, intensificatisi e divenuti assolutamente intollerabili negli ultimi anni nel corso dei quali gli effetti delle politiche neoliberiste si erano ripercossi anche in queste terre lontane dal “centro” del “sistema”. Dopo vari e vani tentativi disperati di farsi ascoltare dal governo statale come da quello federale e, nonostante la sfavorevole situazione nazionale e internazionale del momento, nel corso di una lunga consultazione condotta fra le centinaia di comunità in sofferenza sparse nella regione, un certo numero di esse decise l’insurrezione armata. Per iniziarla fu scelta la data del primo gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore di un Trattato Internazionale di Libero Commercio (TLCAN) stipulato fra Stati Uniti, Canada e Messico, alcune clausole del quale equivalevano a una vera e propria condanna a morte per la maggioranza indigena e contadina dello Stato per l’impossibilità di sopravvivere alle conseguenze economiche del Trattato.

Non intendiamo ripercorrere la storia dell’epopea zapatista, impossibile in un breve scritto, ma solo ricordarne alcuni aspetti per meglio conoscere i promotori del “viaggio per la vita” (“travesía por la vida”) iniziato nei giorni scorsi a partire dall’Europa (“capitulo Europa”) per incontrare e scambiare esperienze con i movimenti di opposizione al brutale sistema dominante esistenti nei 5 continenti.

L’insurrezione, che nell’aggettivo “zapatista” rievoca quella contadina e indigena guidata da Emiliano Zapata (1910-1919) e che fu anche la prima grande rivoluzione popolare del turbolento secolo XX, precedente anche a quella sovietica del 1917, secondo una interpretazione non peregrina significò la “riapertura della storia”, dopo che le resistenze mondiali al capitalismo sembravano estinte con la caduta del “muro” di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991), mentre le guerriglie centro-americane perdevano vigore o si stavano spegnendo intrappolate in ambigui accordi di pace (Guatemala, El Salvador) o si ripiegavano su loro stesse (Nicaragua). Restava come eccezione la discussa rivoluzione cubana.

L’insurrezione zapatista significò, per i suoi contenuti ideologici e le modalità operative, un profondo cambiamento rispetto alle precedenti ribellioni, latinoamericane e non solo.

Essa nacque da una “ibridazione” di due culture fra loro lontane che le conferirono contenuti e modalità nuove rispetto alle molte ribellioni storiche: quella marxista, con le sue varie colorazioni latinoamericane (trozkismo, castrismo, guevarismo, mariateguismo …), diffusa fra i movimenti studenteschi e le periferie operaie delle città, e quella indigena radicata in una multisecolare esperienza di vita comunitaria ancorata nella natura ma non cristallizzata in forme antiche, come spesso si crede. In anni recenti, in tutta la America detta Latina, e particolarmente in Chiapas, essa era stata scossa dalla Teologia della Liberazione, la prima teologia cristiana non elaborata al centro della cristianità bensì in una delle sue periferie. Questo ripensamento dal basso in Chiapas aveva assunto il volto di una “teologia india”, che ebbe uno dei suoi alfieri più significativi nel vescovo di San Cristóbal, Samuel Ruiz, “convertito” dagli stessi indios, come egli sottolineava.  Fu grazie al suo instancabile lavoro (fu sopranominato “el caminante”) che il mondo indigeno del Chiapas, condizionato da una secolare sottomissione al potere civile e religioso anche se ripetutamente ribelle, si era risvegliato alla politica. Questi due mondi lontani si incontrarono proprio nelle cañadas della Selva dove si fusero dando vita a quello che sarebbe stato chiamato “neo-zapatismo”.

Possiamo ricordare questa “ibridazione” attraverso le parole del sub-comandante Marcos, il cui pensiero si era forgiato in un marxismo critico cittadino:

Noi (i rivoluzionari venuti dalla città, nda) avevamo una concezione molto squadrata della realtà. Quando urtammo con la realtà, questa squadratura restò abbastanza ammaccata. Come questa ruota che sta qui. Comincia a ruotare e essere modellata con il contatto con i popoli. Ormai non ha più nulla a che vedere con l’inizio. Quindi, quando ci chiedono. “Voi, cosa siete? Marxisti, leninisti, castristi, maoisti o cos’altro?”, io non lo so. Veramente, non lo so. Siamo il prodotto di una ibridazione, di un confronto, di uno scontro nel quale fortunatamente, così penso io, abbiamo perso.

L’ibridazione, inizialmente non facile per le reciproche diffidenze (“il vostro linguaggio è duro, non lo comprendiamo”, dicevano gli indigeni ai guerriglieri venuti dalla città) avvenne nelle cañadas perché lì gli agravios del sistema erano più acuti e lì stava covando una situazione drammatica, coi giovani che, avendo perduto il lavoro, rientravano nelle loro comunità già carenti di terra da condividere, situazione così descritta dallo storico García de Leon, parlando della nascita dell’EZLN:

“L’esercito zapatista è oggi composto da questa massa giovane e marginale, moderna, poliglotta e con esperienze di lavoro salariato. Un profilo che ha poco a che vedere con l’indio isolato che immaginiamo da Città del Messico. Nel suo attuale habitat convive con le vecchie fattorie e i suoi peones in regime di schiavitù, con i gruppi di guardie bianche ammodernate nel corso dell’amministrazione di Patrocinio González, coi latifondi dissimulati, con le anacronistiche strutture statali. Questo pare essere il fermento sociale, la combinazione creatrice di un vero esercito popolare, con migliaia di combattenti e di simpatizzanti nella Selva, le Terre Alte, il Nord e la Sierra Madre che conferma l’insolito carattere del Chiapas, la combinazione creatrice che questa regione ha sempre ottenuto fra passato e futuro. […] Un esercito popolare che in pochi giorni ha distrutto le verità assolute maturate in anni di concertazione frazionate, di pace ingiusta e di opportunismo. […] Il suo nuovo stile politico e il suo linguaggio fresco e diretto, pieno di riferimenti simbolici e con una poesia direttamente influenzata dalle strutture linguistiche maya, si ritrova in questa raccolta di documenti …. (Da: EZLN – Documenti e comunicati dal Chiapas insorto Vol.1, edizione BFS, Pisa  pp. 26-27.

 

Il neo-zapatismo

Volendo segnalare alcuni degli elementi di questo pensiero ibridato e perciò nuovo, possiamo ricordare la discontinuità rispetto alla teoria del foco guerrigliero, una avanguardia “illuminata” che guida alla conquista del potere e, una volta al potere costruisce, dall’alto un improbabile “uomo nuovo”. Lo zapatismo ha optato chiaramente per una orizzontalità nei rapporti politici e sociali, il rifiuto della delega a rappresentanti che vivono separati dalla vita quotidiana dei militanti, l’uguaglianza negli incarichi fra uomini e donne (l’occupazione di San Cristóbal fu diretta da una “comandanta”); ha compiuto una scelta anti-elitaria nell’esercizio del potere, che è detenuto dal popolo e espresso dalle decisioni prese in assemblea e dove gli incarichi per l’esecuzione delle decisioni sono di breve durata, non replicabili, rotativi e comunque revocabili dalle stesse assemblee che li hanno devoluti e soprattutto a persone che proseguono nella loro vita normale in mezzo alla gente; una forma di educazione scolastica al comunitarismo e all’internazionalismo i cui contenuti e modalità vengono definiti dalle assemblee dei genitori; un esercizio della giustizia praticato col buon senso delle “Giunte di buon governo” (vedi dopo) che nelle liti infra o inter-comunitarie agiscono piuttosto come mediatori che autori di sentenze, incentrato più sulla rieducazione che sulla punizione; una sanità basata più sulla prevenzione e l’educazione di base che non una sanità specialistica (che pure talora è necessaria). (Vedi La metamorfosi della lotta armata in Subcomandante Marcos – Il sogno Zapatista di Yvon Le BotMondadori, Milano 1997, pp. 50-57)

Per concludere queste note è necessario spendere alcune parole sull’autonomia, asse centrale della politica zapatista nei riguardi dello Stato. Per fare questo compiamo un passo indietro, fino all’insurrezione armata, che fu seguita dopo 12 giorni da una tregua imposta dalle imponenti manifestazioni popolari nelle grandi città del Messico, seguita dall’inizio di una trattativa di pace le cui prime mosse si tennero nella chiesa cattedrale di San Cristóbal sotto la mediazione di Ruiz.

Gli obiettivi della rivolta, esposti in una Dichiarazione pubblica il giorno 2, erano innanzi tutto un cambiamento profondo nelle politiche governative e nei loro gestori e il soddisfacimento per tutti i messicani bisognosi, cioè la grande maggioranza, di 11 esigenze riguardanti: lavoro, terra, casa, cibo, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace. A questi nel corso delle trattative si aggiunse più tardi quello, che divenne prioritario, dell’”autonomia” politica, che comunque mai adombrò da parte zapatista l’eventuale secessione dallo Stato (“Mai più un Messico senza di noi” fu uno dei lemmi dominanti), posizione fatta propria dalla maggioranza delle altre etnie che fiancheggiarono le trattative e che, da parte loro, avevano dato vita a un Congresso Nazionale Indigeno (CNI), alcuni rappresentanti del quale fanno oggi parte della travesía .

Le trattative proseguirono per mesi, basate su un’agenda dei lavori in 5 punti, il primo dei quali aveva come tema Diritto e Cultura Indigena. Su questo, nel febbraio del 1996 si giunse a un accordo sottoscritto dalle parti, accordo che però il Governo federale, disconoscendo l’operato dei suoi delegati, non accettò con la motivazione che il loro riconoscimento avrebbe condotto a una “balcanizzazione” del paese.  

Gli zapatisti non desistettero e attesero, in un contesto fortemente conflittuale, l’elezione di un nuovo governo, prevista per il 2.000. Nelle elezioni, per la prima volta dopo 71 anni, venne eletto un presidente non del PRI, Vicente Fox Quesada del PAN (Partito di Azione Nazionale), il quale in campagna elettorale aveva assicurato che avrebbe risolto il problema del Chiapas in 15 minuti! Credendo di cogliere qualche novità in alcune parole del nuovo presidente, nel 2001 22 comandanti indigeni con Marcos iniziarono una lunga marcia fino a Città del Messico attraversando 12 Stati, con un percorso di 3mila km compiuto in 37 giorni durante i quali vennero realizzati 70 affollati incontri con le popolazioni locali, giungendo il 28 marzo nello zocalo di Città del Messico dove ad attendere c’era una immensa folla.

Arrivo a Città del Messico della marcha color de la tierra

Dopo una delicata e controversa trattativa, la delegazione zapatista fu ammessa a parlare nel Congresso dei parlamentari messicani: dopo circa 180 anni dall’indipendenza del paese (1821) – alla quale i popoli indigeni avevano dato un grosso contributo di sangue restando tuttavia esclusi di fatto nella gestione del nuovo Stato – era la prima volta che loro rappresentanti prendevano la parola in questa assise, disertata nell’occasione da alcuni congressisti per protesta contro questa “dissacrazione” del Congresso! A prendere la parola, scandalo nello scandalo, fu un’indigena, la comandante Ramona, con un discorso che resterà nella storia della nazione. Il Congresso promise a maggioranza che gli accordi raggiunti sarebbero stati onorati con una apposita legge ma quella che venne votata, dopo che gli zapatisti erano rientrati in Chiapas, non corrispondeva alle attese. Gli zapatisti, delusi e sconcertati, si chiusero in un lungo silenzio verso l’esterno e, durante due anni, discussero al loro interno sul da farsi, con incontri nelle centinaia di comunità, sparse nelle impervie montagne, che avevano preso parte alla sollevazione.

 

L’autonomia

Autonomia è auto-organizzazione fuori dalle strutture statali. Alla fine di questo lungo silenzio essi fecero sapere che avrebbero applicato unilateralmente gli accordi firmati a San Andrès su Diritti e Cultura Indigena. Con questo annuncio si ebbe una svolta ideologica e operativa dello zapatismo. L’EZLN si metteva da parte, restando però vigile contro eventuali attacchi armati, affidando alle comunità la gestione del nuovo corso.

Vennero costituiti 5 caracoles (chiocciole, la cui spirale disegnata sul guscio ha un valore simbolico nella cultura maya), cioè 5 centri organizzativi, ciascuno dei quali riuniva un certo numero di municipi autonomi allora già esistenti nei territori in mano zapatista e ognuno dei quali comprendeva a sua volta centinaia di piccole comunità sparse sui loro territori. Ogni caracol era retto da una Giunta di buon governo (JBG) che amministra la giustizia, il sistema scolastico e quello sanitario e deve realizzare le direttive ricevute dalle assemblee tenute nei municipi autonomi, i quali a loro volta erano retti da analoghe JBG. Gli incarichi vengono assegnati assemblearmente secondo le regole prima esposte (rotazione, breve durata, revocabilità). I componenti delle JBG dei caracoles vengono nominati dalle assemblee municipali. (Vedi : Dai Municipi Autonomi alle Giunte di Buon Governo – https://sites.unica.it/cisap/files/2018/04/Gas.. ). Oggi, grazie all’iniziativa zapatista, il numero dei caracoles e dei municipi autonomi è cresciuto (1919) ma ciò esula da queste note.

Questo sistema funziona ed è stato rodato nel corso ormai di 18 anni. Naturalmente nulla va idealizzato. La realtà presenta sempre attriti col desiderato, ma per quanto constatato personalmente fin quando sono potuto andare e a quanto mi raccontano oggi, funziona. E’ ripetibile in altri luoghi? Direi di no: ogni contesto deve trovare le sue regole. Nel libro “Alba di mondi altri” e in altri suoi libri, l’uruguaiano Zibechi descrive esperienze di autonomia in molti contesti latinoamericani, dai quali emergono soluzioni varie che però tutte hanno nelle assemblee di base il perno centrale. Gli zapatisti, da parte loro, hanno detto e ripetuto che essi non si propongono come modello da imitare, salvo che in una cosa: dimostrare che quando esiste la volontà di liberarsi dal giogo del sistema per sperimentare modi di vita alternativi, per difficile che questo sia, ciò è possibile.

In questi 18 anni i caracoles non si sono chiusi al mondo e anzi i vari caracoles, a turno, sono stati teatro di incontri nazionali e internazionali, fra i quali spicca l’iniziativa delle escuelitas zapatistas, quando 1500 persone di vari paesi hanno frequentato nelle scuole zapatiste un corso sul tema La libertà secondo gli e le zapatiste, ricevendo ciascuno 4 libri di testo e  2 DVD (vedi https://www.globalproject.info/it/mondi/messico-escuelita.zapatista…), esperienza alla  quale fece seguito nel 2015 un corso di secondo livello. Sempre nel 2015, alla Università della Terra, situata nelle vicinanze di San Cristóbal, si è tenuto un lungo seminario (3-9 maggio) dal titolo Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista con la partecipazione di studiosi e leader sociali di vari paesi (gli atti sono consultabili nel sito https://enlacezapatista.ezln.org.mx). Fra i molti altri eventi di particolare rilievo ricordiamo  il Primo Incontro Internazionale Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle donne che lottano tenutosi nel caracol di Morelia nel marzo 2018 a cui parteciparono migliaia di donne  di vari paesi del mondo e al quale fece seguito un Secondo Incontro a cavallo fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020.

 

Lo zapatismo oggi

Lo zapatismo è un pugno di sabbia  gettato 27 anni or sono negli ingranaggi del sistema capitalista, che oggi per molto aspetti mostra segni di usura pur restando potente nella sua azione distruttrice. Per questo il governo del presidente “progressista”  AMLO, che si gloria di star realizzando la Quarta Trasformazione storica del paese usando però criteri economici capitalisti, stringe il laccio attorno alle comunità zapatiste e, proprio mentre la delegazione zapatista è in Europa, le violenze dei gruppi paramilitari mai neutralizzati, anzi sempre incoraggiati quando non addirittura promossi dalle autorità sia Statali che Federali, stanno facendo temere un ritorno alla guerra (vedi l’articolo di Gustavo Esteva Ultima chiamata per il Chiapas su Comune-infohttps://comune-info.net/ultima-chiamata-per-il-chiapas . Un motivo di più per incontrare e solidarizzare le e gli zapatisti.

 

Post-scriptum

Il filosofo argentino Henrique Dussel, oggi messicano, in occasione dei festeggiamenti per il 500 anniversario della “scoperta” dell’America tenne una serie di conferenze in Europa in cui contrappose alla scoperta delle terre l’occultamento dei loro abitanti, cioè dell’altro, del diverso, del non ‘occidentale’, come abbiamo accennato all’inizio.

In questo incontro con gli zapatisti non incontriamo un altro noi, in lotta per diventare come noi, credenza spesso presente nell’immaginario occidentale. Non storcete la bocca, ma è così: incontrando questi e queste zapatiste noi incontriamo altri, uno dei tanti altri che l’Occidente nella storia della Modernità ha negato, oppresso, distrutto.

Non è chi scrive a dirlo, sono gli stessi zapatisti. Nel saluto di benvenuto ai partecipanti dell’Incontro definito auto-ironicamente Intergalattico, organizzato dagli zapatisti nell’agosto 1996 nella Selva Lacandona, che simboleggiò ma anche iniziò di fatto la riapertura della storia delle resistenze al capitalismo, la comandante Ana Maria affermò: “Siamo uguali perché diversi“. Un ‘perché’ problematico. Un’espressione che ho sentito talvolta ripetuta perché insolita, conturbante ma forse inesplorata nel suo vero significato. Eppure qui c’è uno dei nuclei forti, culturalmente rivoluzionari del pensiero zapatista, che si contrappone all’universalismo astratto del pensiero moderno, che forse è solo un’espressione del nostro modo occidentale di considerare universale ciò che è solo nostro.

Il paradosso “perché” suggerisce che l’uguaglianza non deve più essere definita a dispetto delle supposte differenze che la ostacolano bensì a partire dal loro pieno riconoscimento. L’immagine è forte. Mentre l’universale pretende di produrre delle identità rendendo le differenze indifferenti, il comune viene qui pensato a partire dalle esistenze concrete e dalle loro singolarità vale a dire nella trama delle loro diversità, senza mai astrarsene. È questo che fa tutta la differenza, senza mai astrarsene. È ciò che costituisce tutto lo scarto fra l’universale dell’Uno e un ‘comune’ planetario sperimentato nella sua molteplicità costitutiva. (J.Bachet, Basculements – Mondes emergents, possibile desirables, La Decouverte, Paris 2021, p.172)

A questo “universalismo europeo” (Wallerstein) gli zapatisti, con la formula “un mundo donde quepan muchos mundos“, hanno contrapposto la ricchezza di un mondo che “contiene molti mondi diversi”. L’elogio della pluralità dei molti modi di essere dell’homo sapiens, da affermare con forza oggi perché, passando per i robot come stadio intermedio e ancor prima di essi gli iphones, si sta trasformano l’uomo di carne, materia vivente parte dell’universo vivente, in “uomo di acciaio inox e silicone”, con un chip al posto di un cervello vivente. In un bel saggio in cui si analizza la trasformazione in corso grazie alle tecniche digitali, Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, l’autore, Scott Eastham, insinua un dubbio drammatico: “Forse prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens, abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare degli altri modi di “essere” umani”. (Visioni del mondo in collisione – Interculture Italia http://www.interculture-italia.it › index2).

A chi scrive piace pensare che il viaggio degli zapatisti attraverso i 5 continenti possa essere l’inizio di questa consultazione planetaria fra diversi, appartenenti a un’unica razza, quella umana, sul futuro dell’homo sapiens.

https://comune-info.net/450022-2/