mercoledì 3 luglio 2024

Il collasso del sionismo - Ilan Pappe

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a manifestarsi, ma ora sono visibili nelle sue stesse fondamenta.

A più di 120 anni dal suo inizio, il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico in un Paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe trovarsi di fronte alla prospettiva di un crollo?

Storicamente una pletora di fattori può causare il crollo di uno Stato. Può derivare da attacchi costanti da parte dei Paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può seguire il crollo delle istituzioni pubbliche, che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini.

Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che prende slancio e poi, in breve tempo, fa crollare strutture che un tempo sembravano stabili e consolidate.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. In questa sede sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, al suo inizio – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo.

E, se la mia diagnosi è corretta, stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa.

Infatti, quando Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime sudafricano dell’apartheid durante i suoi ultimi giorni.

1. Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due campi rivali che non riescono a trovare un terreno comune.

La frattura deriva dalle anomalie della definizione di ebraismo come nazionalismo. Se l’identità ebraica in Israele è sembrata talvolta poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. La lotta non si svolge solo sui media, ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito “Stato di Israele”. Comprende gli ebrei europei più laici, liberali e per lo più, ma non esclusivamente, della classe media e i loro discendenti, che sono stati determinanti per la creazione dello Stato nel 1948 e sono rimasti egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso.

Non bisogna ingannarsi: la loro difesa dei “valori democratici liberali” non intacca il loro impegno nel sistema di apartheid che viene imposto, in vari modi, a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista da cui gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato di Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode di crescenti livelli di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha garantito la vittoria di Netanyahu nelle elezioni del novembre 2022.

La sua influenza nelle alte sfere dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo esponenzialmente. Lo Stato di Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estende su tutta la Palestina storica.

Per raggiungere questo obiettivo, è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri ritengono che ciò consentirà loro di rinnovare l’epoca d’oro dei regni biblici. Per loro, gli ebrei laici sono eretici quanto i palestinesi, se rifiutano di unirsi a questo sforzo.

I due campi avevano iniziato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Per le prime settimane dopo l’assalto, sembravano aver messo da parte le loro differenze di fronte a un nemico comune. Ma era un’illusione.

Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile capire cosa possa portare alla riconciliazione. L’esito più probabile si sta già svolgendo sotto i nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, che rappresentano lo Stato di Israele, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese sta per essere fagocitato dallo Stato di Giudea.

Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà.

2. Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere un piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a continui conflitti armati, oltre a dipendere sempre più dagli aiuti finanziari americani.

Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire la tendenza.

Al contrario, l’onere economico non potrà che peggiorare se Israele darà seguito alla sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e di intensificare l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni Paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare sanzioni economiche.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra altrimenti incapace di gestire il suo dipartimento.

Il conflitto tra lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta nel frattempo inducendo alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali al di fuori dello Stato. Coloro che stanno considerando di trasferire i loro investimenti costituiscono una parte significativa di quel 20% di israeliani che paga l’80% delle tasse.

3. Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele, che diventa gradualmente uno Stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio.

Lo dimostrano le posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina è stato in grado di galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a far avanzare la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei Paesi, il sostegno a Israele è rimasto incrollabile nell’establishment politico ed economico.

In questo contesto, le recenti decisioni della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale – che Israele potrebbe commettere un genocidio, che deve fermare la sua offensiva a Rafah, che i suoi leader dovrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di ascoltare le opinioni della società civile globale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite.

I tribunali non hanno alleviato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che proviene sempre più spesso dall’alto e dal basso.

4. Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambio di rotta tra i giovani ebrei di tutto il mondo.

In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi, molti sembrano ora disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo garantivano a Israele un’efficace immunità alle critiche.

La perdita, o almeno la parziale perdita, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora contare sui sionisti cristiani per fornire assistenza e sostenere i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza una significativa circoscrizione ebraica.

Il potere della lobby si sta erodendo.

5. Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione.Tuttavia i suoi limiti sono stati messi a nudo il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato, poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito in un assalto coordinato.

Da allora Israele ha dimostrato di dipendere disperatamente da una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni e missili balistici guidati.

Il progetto sionista dipende più che mai dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza le quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud del Paese. La percezione dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi è ormai diffusa tra la popolazione ebraica del Paese.

Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultraortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarli a migliaia. Questo non farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito, che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6. L’ultimo indicatore è il rinnovamento dell’energia nella nuova generazione di giovani palestinesi. È molto più unita, organicamente connessa e chiara sulle sue prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo, questa nuova coorte avrà un’influenza immensa sul corso della lotta di liberazione.

Le discussioni in corso tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che essi sono preoccupati di creare un’organizzazione realmente democratica – un’OLP rinnovata o una nuova organizzazione – che persegua una visione di emancipazione antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire la soluzione di un solo Stato al modello screditato dei due Stati.

Saranno in grado di dare una risposta efficace al declino del sionismo?

È una domanda a cui è difficile rispondere. Il crollo di un progetto statale non è sempre seguito da un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati.

In questo caso, si tratterebbe di una decolonizzazione, e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà post-coloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione.

Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò avverrà, dovremo sperare che un robusto movimento di liberazione sia in grado di riempire il vuoto.

Per oltre 56 anni, quello che è stato definito “processo di pace” – un processo che non ha portato a nulla – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane a cui i palestinesi sono stati chiamati a reagire.

Oggi, la “pace” deve essere sostituita dalla decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione della regione, mentre agli israeliani viene chiesto di reagire.

Per la prima volta da decenni, il movimento palestinese assumerebbe la guida nell’esporre le proprie proposte per una Palestina post-coloniale e non sionista (o come si chiamerà la nuova entità). Nel farlo, guarderà probabilmente all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più giustamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove gruppi religiosi secolarizzati si sono gradualmente trasformati in gruppi etno-culturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è ormai prevedibile. Questa possibilità dovrebbe informare la conversazione a lungo termine sul futuro della regione.

Verrà inserita nell’agenda quando ci si renderà conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico in un Paese arabo sta lentamente volgendo al termine.

Il successo è stato tale da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la loro volontà su milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato a lottare per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria.

Nei prossimi decenni, i coloni dovranno abbandonare questo approccio e dimostrare la loro disponibilità a vivere come cittadini uguali in una Palestina liberata e decolonizzata.


* da New Left Review, 21 giugno 2024

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La città dei vivi – Nicola Lagioia

Marco e Manuel ammazzano Luca, in modi orribili.

Nicola Lagioia ricostruisce tutte le vicende che ruotano intorno al fatto, dati causa e pretesto, in una Roma che diventa sfondo e protagonista della storia.

quello che sconvolge nella lettura (e nella scrittura) del romanzo è che non ci sono ruoli definiti per l'eternità, ma vittime e carnefici potremmo essere ciascuno di noi, in una sadica e casuale lotteria della vita e della morte.

Nicola Lagioia inizia a seguire la storia dopo un po' dal momento dei fatti, e però non lascia niente d'intentato per riuscire a ricostruire l'indicibile.

ps: il libro ricorda a tratti A sangue freddo (di Truman Capote).

 

 

 

Il male, dunque, è parte dell’esperienza umana, difficile da spiegare, ma da accettare. Il male travolge tutti come un fiume in piena, non risparmia nessuno, né Lagioia, né Foffo e Prato, né chi legge il romanzo. Nessuno, nemmeno l’autore, sembra in grado di giudicare il male: si può solo comprendere il fatto che dalla parte dei carnefici potremmo esserci anche noi, e che il male è qualcosa di più grande di noi che non possiamo controllare. Ciò che resta è la letteratura che, come dichiara Lagioia in un’intervista, è antidoto che «rimette in campo fragilità e debolezze che nel discorso pubblico non sono più ammesse». Quella della letteratura, alla fine, è la giustizia più alta: quella che ci aiuta ad accettare la nostra debolezza e a comprendere «i complicati principî di rotazione e rivoluzione, la gigantesca macchina che ci fa nascere e ci riduce in polvere»…

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…L’indagine puntigliosa di Lagioia riesce ad essere neutrale pur utilizzando la compassione come strumento conoscitivo. Rifiuta ogni giudizio sulla vittima, che in quanto tale è ingiudicabile (molti giornalisti, al contrario, hanno sottolineato come Varani fosse solito prostituirsi occasionalmente, come se questo potesse renderlo meno innocente). Messi davanti ad un omicidio come questo, viene spontaneo pensare all’ingenuità di Luca, attirato nella casa dei suoi carnefici, e chiedersi: “potrebbe succedere anche a me?”. Lagioia ci invita a invertire la rotta, a riconoscere l’umanità dei carnefici: due ragazzi normali, improvvisamente posseduti, ma non per questo meno colpevoli. La domanda da porsi, quindi, quel “potrebbe succedere anche a me?” andrebbe fatta pensando al raptus omicida di Manuel Foffo e Marco Prato. Ricordiamo che Manuel è stato condannato a trent’anni di carcere, mentre Marco (tragedia nella tragedia) è morto suicida in carcere.

Roma è l’altra grande protagonista del libro: la sua incontestabile bellezza è tutt’uno con la sua incontestabile abiezione. La città eterna è quella che, più di ogni altra, non ha la concezione del passare del tempo. Gli uomini passano, mentre passato, presente e futuro perdono ogni significato. Roma è lerciume, immoralità, grettezza, e allo stesso tempo il suo splendore è indiscutibile. Lagioia la descrive come una malattia, da cui lui stesso si ritiene contagiato. Le pagine sono permeate da un senso di sporcizia, che sfogliando le pagine sembra entrarci sotto le unghie, nelle dita, ci invade.

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martedì 2 luglio 2024

Avete salvato Julian Assange - Chris Hedges

 

La macchina oscura dell'impero, la cui mendacità e ferocia Julian Assange ha esposto al mondo, ha passato 14 anni a cercare di distruggerlo. Gli hanno bloccato i fondi, cancellando i suoi conti bancari e le sue carte di credito. Hanno inventato false accuse di violenza sessuale per farlo estradare in Svezia, dove sarebbe stato poi spedito negli Stati Uniti. 

Lo hanno intrappolato nell'ambasciata ecuadoriana a Londra per sette anni dopo che gli era stato concesso l'asilo politico e la cittadinanza ecuadoriana, rifiutandogli un passaggio sicuro per l'aeroporto di Heathrow. Hanno orchestrato un cambio di governo in Ecuador che lo ha visto privato dell'asilo politico, perseguitato e umiliato da un personale dell'ambasciata compiacente. Hanno incaricato la società di sicurezza spagnola UC global dell'ambasciata di registrare tutte le sue conversazioni, comprese quelle con i suoi avvocati. 

La CIA ha pensato di rapirlo o di assassinarlo. Hanno fatto in modo che la polizia metropolitana di Londra facesse irruzione nell'ambasciata - territorio sovrano dell'Ecuador - e lo sequestrasse. Lo hanno tenuto per cinque anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, spesso in isolamento. 

E per tutto il tempo hanno messo in atto una farsa giudiziaria nei tribunali britannici, in cui è stato ignorato il giusto processo per far sì che un cittadino australiano, la cui pubblicazione non aveva sede negli Stati Uniti e che, come tutti i giornalisti, aveva ricevuto documenti da informatori, potesse essere incriminato ai sensi della legge sullo spionaggio.

Hanno cercato più e più volte di distruggerlo. Hanno fallito. Ma Julian non è stato rilasciato perché i tribunali hanno difeso lo stato di diritto e scagionato un uomo che non aveva commesso alcun reato. Non è stato rilasciato perché la Casa Bianca di Biden e la comunità dei servizi segreti hanno una coscienza. Non è stato rilasciato perché le organizzazioni giornalistiche che hanno pubblicato le sue rivelazioni e poi lo hanno gettato sotto l'autobus, portando avanti una feroce campagna diffamatoria, hanno fatto pressione sul governo degli Stati Uniti. 

È stato rilasciato - grazie a un patteggiamento con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, secondo i documenti del tribunale - nonostante queste istituzioni. È stato rilasciato perché giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo si sono mobilitate per denunciare l'incarcerazione del più importante giornalista della nostra generazione. Senza questa mobilitazione, Julian non sarebbe libero.

Le proteste di massa non sempre funzionano. Il genocidio a Gaza continua a mietere vittime tra i palestinesi. Mumia Abu-Jamal è ancora rinchiuso in una prigione della Pennsylvania. L'industria dei combustibili fossili devasta il pianeta. Ma è l'arma più potente che abbiamo per difenderci dalla tirannia. 

Questa pressione sostenuta - durante un'udienza londinese del 2020, con mia grande gioia, il giudice distrettuale Vanessa Baraitser, del tribunale Old Bailey che supervisiona il caso di Julian, si è lamentata del rumore che i manifestanti facevano nella strada all'esterno - getta una luce continua sull'ingiustizia e mette a nudo l'amoralità della classe dirigente. Per questo motivo gli spazi nei tribunali britannici erano così limitati e gli attivisti con gli occhi annebbiati si sono messi in fila fuori già alle 4 del mattino per assicurare un posto ai giornalisti che rispettavano, il mio posto è stato assicurato da Franco Manzi, un poliziotto in pensione.

Queste persone sono sconosciute e spesso non conosciute.  Ma sono eroi. Hanno smosso le montagne. Hanno circondato il Parlamento. Sono rimasti sotto la pioggia battente davanti ai tribunali. Sono stati tenaci e fermi. Hanno fatto sentire la loro voce collettiva. Hanno salvato Julian. E mentre questa terribile saga si conclude e Julian e la sua famiglia, spero, trovano pace e guarigione in Australia, dobbiamo onorarli. Hanno spinto i politici australiani a difendere Julian, un cittadino australiano, e alla fine la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno dovuto arrendersi. Non dico di fare la cosa giusta. È stata una resa. Dovremmo esserne orgogliosi. 

Ho conosciuto Julian quando ho accompagnato il suo avvocato, Michael Ratner, agli incontri nell'ambasciata ecuadoriana a Londra. Michael, uno dei più grandi avvocati per i diritti civili della nostra epoca, ha sottolineato che la protesta popolare era una componente vitale in ogni causa che portava avanti contro lo Stato. Senza di essa, lo Stato potrebbe portare avanti la sua persecuzione dei dissidenti, il disprezzo per la legge e i crimini nell'oscurità. 

Persone come Michael, insieme a Jennifer Robinson, Stella Assange, il caporedattore di WikiLeaks Kristinn Hrafnsson, Nils Melzer, Craig Murray, Roger Waters, Ai WeiWei, John Pilger e il padre di Julian, John Shipton, e il fratello Gabriel, sono stati fondamentali nella lotta. Ma non avrebbero potuto farlo da soli.

Abbiamo disperatamente bisogno di movimenti di massa. La crisi climatica sta accelerando. Il mondo, ad eccezione dello Yemen, assiste passivamente a un genocidio in diretta streaming. L'avidità insensata dell'espansione capitalistica senza limiti ha trasformato ogni cosa, dagli esseri umani al mondo naturale, in merci da sfruttare fino all'esaurimento o al collasso. La decimazione delle libertà civili ci ha incatenato, come aveva avvertito Julian, a un apparato di sicurezza e sorveglianza interconnesso che si estende in tutto il mondo.

La classe dominante globale ha mostrato la sua mano. Intende, nel Nord globale, costruire fortezze climatiche e nel Sud globale usare le sue armi industriali per chiudere fuori e massacrare i disperati come sta facendo con i palestinesi.

La sorveglianza dello Stato è molto più intrusiva di quella impiegata dai regimi totalitari del passato. I critici e i dissidenti sono facilmente emarginati o messi a tacere sulle piattaforme digitali. Questa struttura totalitaria - il filosofo politico Sheldon Wolin l'ha definita "totalitarismo invertito" - viene imposta per gradi. Julian ci ha avvertito. Man mano che la struttura del potere si sentirà minacciata da una popolazione in rivolta che ripudia la sua corruzione, l'accumulo di livelli osceni di ricchezza, le guerre senza fine, l'inettitudine e la crescente repressione, le zanne che ha esposto a Julian saranno esposte a noi. 

L'obiettivo della sorveglianza su larga scala, come scrive Hannah Arendt in "Le origini del totalitarismo", non è, alla fine, scoprire i crimini, "ma essere a portata di mano quando il governo decide di arrestare una certa categoria della popolazione". E poiché le nostre e-mail, le conversazioni telefoniche, le ricerche sul web e gli spostamenti geografici sono registrati e conservati in perpetuo nei database governativi, poiché siamo la popolazione più fotografata e seguita nella storia dell'umanità, ci saranno "prove" più che sufficienti per sequestrarci qualora lo Stato lo ritenga necessario. Questa sorveglianza costante e i dati personali attendono come un virus mortale nei caveau del governo per essere rivolti contro di noi. Non importa quanto siano banali o innocenti queste informazioni. Negli Stati totalitari la giustizia, come la verità, è irrilevante.

L'obiettivo di tutti i sistemi totalitari è inculcare un clima di paura per paralizzare una popolazione prigioniera. I cittadini cercano sicurezza nelle strutture che li opprimono. L'imprigionamento, la tortura e l'omicidio sono riservati ai rinnegati ingestibili come Julian. Lo Stato totalitario ottiene questo controllo, scrive Arendt, schiacciando la spontaneità umana e, per estensione, la libertà umana. La popolazione è immobilizzata dal trauma. I tribunali, insieme agli organi legislativi, legalizzano i crimini di Stato. Abbiamo visto tutto questo nella persecuzione di Julian. È un'inquietante presagio del futuro.

Lo Stato corporativo deve essere distrutto se vogliamo ripristinare la nostra società aperta e salvare il nostro pianeta. Il suo apparato di sicurezza deve essere smantellato. I mandarini che gestiscono il totalitarismo aziendale, compresi i leader dei due principali partiti politici, gli accademici fatui, gli opinionisti e i media in bancarotta, devono essere cacciati dai templi del potere. 

Le proteste di massa e la disobbedienza civile prolungata sono la nostra unica speranza. Se non ci ribelliamo - e questo è ciò su cui conta lo Stato corporativo - saremo ridotti in schiavitù e l'ecosistema terrestre diventerà inospitale per l'uomo. Prendiamo esempio dai coraggiosi uomini e donne che sono scesi in piazza per 14 anni per salvare Julian. Ci hanno mostrato come si fa.

 

Traduzione de l’AntiDiplomatico

 

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C’è sempre una prima volta - Mauro Armanino

 

“Venerdì 14 giugno pomeriggio, papa Francesco ha fatto il viaggio a Borgo Egnazia, stazione balneare della Puglia in Italia, per partecipare al vertice del G7… – scrive l’Agenzia vaticana Zenit – Una prima storica poiché nessun papa aveva finora partecipato al G7″. Difficile dire quanto di vangelo c’è in questa presenza e quanto di diplomazia vaticana che, com’è noto, appare tra le più rodate e lungimiranti. Ciò che nondimeno stupisce è anzitutto il fatto stesso che il papa, rappresentante della Chiesa Cattolica, sia stato invitato a questo tipo di vertice che mette assieme alcuni tra i “potenti” della politica e dell’economia del mondo.

L’invito del papa, per motivi che non è poi difficile discernere, è già un segno e un messaggio la cui tragica scelta non potrà non lasciare tracce nel presente e il futuro del papato e della Chiesa stessa. Essere invitati al vertice di alcuni tra i Paesi più ricchi e potenti del globo significa dare sufficienti “garanzie” al sistema perché esso possa perpetuarsi o quantomeno continuare a legittimarsi. Aver accettato l’invito ( o allora la proposta è giunta dal vaticano e accolta dalle diplomazie del vertice), come il papa ha fatto, non è che l’ennesimo e patetico tentativo di accompagnare, da “cappellano di corte”, il sistema attuale che, come il capitalismo di cui è l’espressione, è nato e cresciuto senza cuore. Non dovremmo dimenticare che i membri di questo vertice sono corresponsabili o sostenitori della produzione, vendita e uso di armi in zone di guerra. Si tratta dunque di persone che hanno le mani macchiate di sangue.


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D’altra parte sembra tipico di questo insondabile e ambiguo pontificato giocare su tutti i fronti con la stessa spudorata disinvoltura. Incontrare e valorizzare i movimenti sociali. Assumere i poveri come elemento trasformatore del sistema (secondo le lezioni latinoamericane ben assimilate). Proteggere i migranti nella loro ricerca di futuro e parlare di “periferie” dalle quali dovrebbe sgorgare un mondo nuovo e una Chiesa che ascolta. Questo e molto altro all’ordine del giorno, senza dimenticare le innumerevoli volte nelle quali è stato necessario precisare, rettificare, contraddire quanto affermato il giorno precedente in uno dei tanti discorsi letti o improvvisati. Allo stesso tempo, lo stesso pontefice (vero ponte tra sponde diverse) accompagna e celebra un’alleanza vaticana col “capitalismo inclusivo” che vede tra i suoi membri e promotori i più quotati magnati del capitalismo globalizzato. Con la manipolata crisi del Covid poi, l’attuale papa, ha toccato quanto di peggio ci si sarebbe potuto attendere da un qualunque politico da strapazzo. L’obbligazione per tutto il personale dello Stato Vaticano alla vaccinazione pena il licenziamento in tronco, il fermo invito fatto ai fedeli cristiani di vaccinarsi ‘come gesto d’amore’ e gli incontri più o meno ‘segreti’ con boss dell’industria delle vaccinazioni, Bourla. Malgrado i danni occasionati e accertati, l’aumento della mortalità nei Paesi che più hanno somministrato i vaccini, non è mai sfuggita al papa una sola parola di attenzione per quanti hanno sofferto a causa delle suo fermo invito a vaccinarsi e tantomeno la richiesta ufficiale di perdono per essersi sbagliato di bersaglio. Mai ha domandato venia per la mancanza di rispetto dei diritti dei dipendenti che avrebbero potuto scegliere o meno di vaccinarsi in tutta libertà di coscienza come i documenti della Chiesa e della medicina ufficiale sottolineano da tempo.

La parvenza “democratica” di questo papato è poi contraddetta da protagonismi nella vita pubblica quotidiana che si esibisce in modo asfissiante fino a domandarsi se esiste ancora una conferenza episcopale italiana degna di questo nome. Dappertutto e su ogni tema ci si aspetta una parola, un’allusione e soprattutto una conferma. Persino nelle trasmissioni televisive seguite da largo pubblico dove si ha il diritto e il piacere di ascoltare quanto papa Bergoglio afferma, sostiene, propone e soprattutto allude.

E, infine, la partecipazione anche fisica al vertice del G7 che ha annoverato altri invitati di marca, ma non la Russia e la Cina ad esempio. Invitato, accolto e infine assimilato ai potenti, tra coloro che hanno diritto di presenza, ascolto e udienza. Per parlare dell’intelligenza artificiale di cui, sembra, il vaticano ha assunto un ruolo non trascurabile e naturalmente apprezzato. Una Chiesa segno di contraddizione per gli imperi di oggi sembra essere passata di moda. Accomodarsi accanto al potere di turno e allo stesso tempo prendere le difese dei poveri desta sospetto sull’autenticità e sincerità di chi gioca a dare spettacolo per il pubblico.

Al vertice citato nessun povero è stato invitato. In un non lontano passato, ad esempio il G8 di Genova, si presentava come un vanto del summit quello di invitare persone di alcuni Paesi che aiutassero a non dimenticare che c’è anche e soprattutto un altro mondo. Quello a cui spesso il papa allude e che diventa visibile nelle guerre, le migrazioni e le terre rare… da sfruttare per motivi ecologici ben ricordati dall’ultima esortazione, al soldo anch’essa di una sola versione del mondo.

La presenza del papa tra i “grandi” del sistema addolora, preoccupa e fa vergognare chi pensava che scegliere i poveri e la loro strada non fosse per farsi strada tra i potenti per diventarne il “cappellano” e in definitiva il garante. Si tratta dell’esibizione di un tradimento nell’usare i volti e il silenzio dei poveri per poi accomodarsi alla mensa dei ricchi e dei potenti.

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lunedì 1 luglio 2024

L’ODORE DELLE COSE BRUCIATE - Giovanni Gusai

 

L’uomo soffoca un grido di dolore. Il vetro scheggiato della finestra da cui cerca di accedere al capannone si è impigliato alla manica della camicia. Lui rischiava di restare appeso per il tessuto, ha dato uno strattone e il vetro ha reciso la carne. La vista del sangue gli è indifferente. Stringe i denti per soffocare un’imprecazione e salta dentro. Si guarda intorno, procede svelto e silenzioso. Comprime la ferita con la mano. Quando arriva di fronte al cumulo informe sul fondo del magazzino, scosta il telone di plastica ed estrae la busta di nylon dal retro dei pantaloni. La depone a terra, tendendo i bordi e dandole la forma di un cestino. Sotto il telone ci sono sei sacchi di mangime sigillati. Mangime per galline. Nel settimo non c’è quasi più niente. Lo svuota con le mani, dentro la busta informe depositata sul cemento. Fa un nodo con i manici del sacchetto, nasconde le sei confezioni di mangime rimaste con il telone occhiellato, ed esce. Sulla strada del ritorno guarda la terra impolverargli i piedi e vede cadere una goccia di sangue scuro. Osserva il braccio, la manica è macchiata. Non fa male. Di tanto in tanto l’uomo si china e raccoglie delle erbe selvatiche. Una dozzina di steli quasi secchi, il brodo non uscirà granché. Pensa che sei sacchi sono ancora tanti, dovrebbero bastare fino alla fine. Se sapessi quand’è la fine, aggiunge – e se nessuno mi segue e porta via i sacchi. Gli sfuggono due lacrime, ma ha giurato che non avrebbe più pianto. Le asciuga subito. Ora la manica della camicia è sporca di moccio e polvere, di sangue e lacrime. Il campo ricomincia all’improvviso. Tutto, di quel luogo, è disperato. Ma l’uomo non si guarda attorno e balbetta un canto nella lingua di sua madre per distrarsi dal suono della morte incombente, fatto di maledizioni, preghiere e silenzi rassegnati. Lui stringe il sacchetto sul torso, sotto la camicia insanguinata, accoglie la sensazione del sudore a contatto con la plastica, preme con la mano per riconoscere la forma del mangime in pellet. Evita di incrociare gli sguardi. Ignora le grida. La puzza delle cose bruciate, invece. Quella ha preso il posto dell’aria che si respira. Il fuoco ingoia ogni cosa e vomita quest’odore. Dei cadaveri, della plastica, dei tessuti delle tende, o di ciò che queste cose, tutte le cose, furono e non saranno più. L’uomo combatte i conati e accelera, si arresta sul bordo del loro pezzo di campo. Stanno sotto una copertura di lamiera, hanno trovato una poltrona sfondata. Sua moglie e i bambini dormono lì, a turno. Lui ha un tappeto. Recupera il pentolino, lo riempie d’acqua gialla e accende il gas. Usano un fornellino da campeggio. Chissà da quale negozio è stato rubato. Non lo ricorda più. A un certo punto l’acqua bolle, e lui ci butta dentro le erbe selvatiche che ha appena raccolto. I bambini si sono spostati a giocare. La donna dorme. Ha perso venticinque chili. Venticinque è un modo per dire tanti. La bilancia l’hanno lasciata a casa, ma non esiste più. La casa intera. Con la bilancia, i giocattoli, l’armadio con i vestiti, il bagno e la nuova pianta appena travasata, nel vaso grande in salotto. Non esiste più niente, ora c’è solo odore di cose bruciate. Quelle erbe servono a fare un brodo. È molto pallido. È così chiaro da farti preoccupare se lo guardi. Probabilmente il colore glielo dà l’acqua, mica le erbe. È essenziale avere il brodo. Quand’è in temperatura ci butti dentro il mangime e con il cucchiaio puoi mescolare fino a creare un impasto denso. Come una polenta, ma del colore delle pozzanghere e un fetore nauseabondo. Poi lo tiri fuori, lo stendi sulla carta stagnola, fai delle polpette, le schiacci e le ripassi in pentola per formare una crosticina croccante e sono pronte. È una ricetta che ha inventato lui. Puzza come la merda sul fondo del pollaio, guardi le polpette e ti chiedi come sia possibile che non ci siano delle piume, come quelle che trovi sulle uova. Neanche le uova esistono più. Comunque quell’odore di mangime bollito impastato steso e abbrustolito scompare. Si fonde con la puzza del resto e se uno si stringe le narici mentre manda giù neanche lo sente. È questo che l’uomo ha raccontato ai bambini, di tapparsi il naso e mandare giù. Sono poco lontani, li vede: hanno qualcosa tra i piedi e la prendono a calci verso una coppia o l’altra di pietre, andando a memoria per ricordare dove passino le linee di bordo campo, delle aree e di fondo, tutto quello che serve per una partita. È curvo sul pentolino, le polpette cominciano a emanare l’odore di bruciato oltre il quale non si deve mai andare. A quel punto bisogna fermarsi, perché diventano davvero immangiabili. Le ridispone sulla stagnola tesa lì accanto, la moglie si sveglia e sorride come se Dio le abbia portato in sogno tutto il senso di fatica dell’umanità. L’uomo si stringe le ginocchia, ricambia con una curva delle labbra e si mette dritto. Sposta le mani sui reni come per tenersi. La manica destra della camicia è nera di sangue rappreso. Socchiude gli occhi contro il vento e la polvere. Brilla qualcosa sul suo volto di padre, una specie di gioia commossa, ma è un attimo. Perché poi, senza poter stare appresso alle immagini del cervello, pensa che non avrebbe mai voluto un futuro del genere per i suoi figli, si dà del padre irresponsabile, in quel pezzo di mondo non c’è niente di buono e lui li doveva portare via, anni fa, si maledice perché chi cazzo lo vorrebbe mai mangiare il mangime delle galline, e io devo chiamare i miei bambini a costringerli, perché non ho alternative, li individua nella mischia dei loro coetanei, confusi nella stessa effimera spensieratezza. Stacca le labbra per gridare, piega la lingua sui denti, la mano destra già piegata sul lato della bocca. Prende fiato. Ora grida e li chiama. Anzi, no. 

Un sibilo spacca il silenzio, diventa fuoco appena tocca terra. È un tuono senza pioggia, un terremoto piovuto dall’azzurro del cielo. Al posto del campetto improvvisato lascia un cratere, mille membra scomposte, da qualche parte anche quello che resta dei figli dell’uomo. Col grido del nome del primogenito spezzato in gola, sua moglie che, lui non lo sa, è morta adesso anche se camminerà sulla terra per qualche tempo ancora, un abisso nello sguardo, una promessa che sta per tradire: perché ora piangerà senza pensare a come smettere. Non ha canzoni di madre per distrarsi, nell’aria c’è di nuovo l’odore delle cose bruciate. Di tutte le cose bruciate. I corpi, le attese, i destini, suoi figli, le polpette di mangime, la terra di suo padre, le tende del campo, la rabbia impotente.

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Guerra a Gaza: “Non voglio morire, mamma”. – Eman Alhaj Ali

Durante l’attacco israeliano che ha ucciso più di 270 palestinesi a Nuseirat, una donna racconta il terrore di fuggire dalle bombe e dai proiettili in un campo vicino.

Palestinesi camminano nel fumo e nella polvere dopo un attacco israeliano al campo profughi Nuseirat di Gaza, 8 giugno 2024 (Bashar Taleb/AFP)

La mia famiglia si è abituata alla monotonia della sopravvivenza. Siamo stati ripetutamente sfollati a causa dell’implacabile assalto di Israele a Gaza, che continua da più di otto mesi.
Le continue evacuazioni, le condizioni di vita anguste e la scarsità di beni di prima necessità hanno avuto un loro peso. Lo scorrere del tempo sembra essersi deformato e distorto. La stanchezza, la paura e la disperazione si sono mescolate in una nebbia insensibile e inarrestabile.
Ogni giorno è una lotta. Le nostre vite sono prive di gioia o felicità, bloccate in una routine senza fine. I miei fratelli fanno domande che mi spezzano il cuore, ricordandomi tutte le cose che abbiamo perso e che non possiamo riavere.
Quando le cose si fanno davvero difficili, cerco di fingere che tutto andrà bene, anche se non sono sicura che sia vero. Questa guerra è terrificante. L’esercito israeliano sta distruggendo Gaza ed è difficile sapere cosa succederà poi.
Il mio letto a casa, nel campo di al-Maghazi, nel centro di Gaza, era morbido e confortevole e mi faceva sentire al sicuro. Qualche mese fa, dopo che la mia famiglia è stata trasferita a Rafah, sono stata costretta a dormire su un terreno duro che mi faceva soffrire ogni volta che mi muovevo.
Siamo tornati rapidamente a Maghazi dopo aver appreso che Israele progettava di lanciare una nuova invasione di Rafah, incurante del benessere dei civili sfollati. Ma ora viviamo con un parente, poiché la nostra casa è stata bruciata e danneggiata, insieme a molte altre, quando le forze israeliane hanno invaso il campo.
I nostri pasti sono diventati gradualmente più scarsi e meno frequenti. Non possiamo procurarci cibo fresco né i piatti tradizionali che eravamo soliti gustare. Ricordo quando era facile comprare latte e uova; ora scarseggiano. È difficile vedere i miei fratelli più piccoli crescere senza il cibo di cui hanno bisogno per essere sani.

Congelati dallo shock

Sabato 8 giugno è iniziato come un giorno qualsiasi nella logorante routine di questa guerra, mentre mio padre cuoceva il pane sul fuoco (dato che non c’è il gas per cucinare) e io e mia madre preparavamo la colazione. Ma poi tutto è cambiato.
L’area di Maghazi, non lontana dal campo profughi di Nuseirat, doveva essere una zona sicura, ma gli eventi dell’8 giugno sono ormai impressi nella mia memoria per sempre.
Mentre io e i miei genitori preparavamo il pasto, i miei fratelli e le mie sorelle, giovani e spaventati, erano stretti al nostro fianco. Sono sempre in ansia per la minaccia dei bombardamenti israeliani e ci teniamo continuamente aggiornati sulle ultime notizie, cercando di anticipare quello che succederà. Ma non avremmo potuto prevedere gli eventi di quel giorno.
All’improvviso, l’aria si è riempita dei suoni assordanti degli spari, come un diluvio incessante.
Abbiamo aperto la finestra e guardato il cielo e il paesaggio davanti a noi cercando di capire cosa stesse succedendo. Non avevamo motivo di aspettarci un’invasione, poiché non c’era stato alcun avviso di evacuazione della zona. Ma guardando fuori dalla finestra, abbiamo visto carri armati e artiglieria a pochi metri di distanza.
Mentre eravamo in piedi, congelati dallo shock, ci siamo resi conto che le nostre vite a Gaza potevano essere stravolte in un istante. La gente gridava per le strade, invitandoci a abbondonare l’area in fretta. È stato il momento più terrificante della nostra vita, quando abbiamo capito che eravamo circondati e non sapevamo dove andare.
Il caos nelle strade è stato spaventoso. Siamo fuggiti con i soli vestiti che avevamo addosso e una borsa con i documenti essenziali, abbandonando tutto ciò che possedevamo. I miei fratelli sono scoppiati in lacrime, in preda al panico improvviso.

Nessuna destinazione chiara

Mentre afferravo le loro mani, la mia unica preoccupazione era quella di garantire la nostra sopravvivenza. Pensavo solo a mantenere in vita la mia famiglia, a prescindere da ciò che avremmo perso. I suoni degli spari e dell’artiglieria riempivano l’aria e le strade erano un mare caotico di persone che fuggivano per salvarsi la vita.
Ho visto una madre che stringeva il suo neonato, un uomo che portava la madre anziana e una donna incinta che lottava per camminare, tutti disperati per sfuggire al pericolo.
Il bombardamento costante era terrificante. Correvamo per le strade, senza una chiara destinazione in vista. Le bombe esplodevano nel cielo mentre fuggivamo; persino il rifugio di un campo vicino sembrava essere in pericolo, mentre i residenti in fuga ci avvertivano che l’artiglieria si stava avvicinando e che dovevamo scappare il più velocemente possibile. Abbiamo continuato a correre per la nostra vita, incerti su ciò che ci aspettava.
A un certo punto, abbiamo dovuto attraversare la strada di fronte ai carri armati israeliani, sapendo che potevano prenderci di mira in qualsiasi momento. Il pensiero di essere colpiti da schegge o da un razzo vagante era terrificante.
Siamo sopravvissuti per miracolo, sfollati per la sesta volta in questa guerra. La mia sorellina piangeva: “Non voglio morire. Non voglio morire, mamma. Non abbiamo portato i giocattoli da casa”.
L’aria era bianca di polvere, non riuscivamo a vederci. I proiettili scoppiavano intorno a noi. Un elicottero volava basso, sparando a chiunque si muovesse per le strade. Abbiamo continuato a correre e alla fine abbiamo trovato rifugio a Zawayda.
Più di 270 persone sono state uccise nell’orribile massacro compiuto da Israele nel campo di Nuseirat e altre centinaia sono rimaste ferite. Le squadre di soccorso sono state sommerse da tutte le richieste di aiuto. Ringrazio Dio perché io e la mia famiglia siamo sopravvissuti all’attacco improvviso a Maghazi, dove ora siamo tornati, anche se solo per sopravvivere al prossimo massacro.

(Eman Alhaj Ali è una giornalista freelance, scrittrice e traduttrice con sede a Gaza.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org)

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