Parliamo di bambini. Ne parliamo molto, di recente,
rendendoci poco conto delle connessioni e delle tipologie, ovvero dei modi in
cui il diritto alla vita dei bambini implichi misure e considerazioni diverse a
seconda della latitudine geografica, del tempo storico e delle coordinate
contestuali nelle quali i bambini medesimi si trovano. Parliamo di bambini
anche quando sono mere possibilità, e di queste possibilità a volte ci ergiamo
a paladini, reclamando un diritto alla vita che passa sopra l’autonomia
deliberante di chi questo bambino dovrebbe/potrebbe generarlo: perché il
bambino di fatto, in quei casi, ancora non c’è.
Però poi ci sono altri bambini che non sembrano aver
diritto alla vita pur essendo già nati: il My Luck, bambino-soldato nigeriano
di cui racconta Chris Abani, per esempio, così intontito da traumi e droghe da
perdersi al confine tra realtà e immaginario (Song for Night, 2007; Canzone
per la notte, 2010); oppure la “Piccola Ape” di Chris Cleave, che assiste
importante allo stupro di sua sorella e sopravvive per caso, infilandosi negli
interstizi di un percorso migratorio del quale conosciamo storicamente i
dettagli (The Other Hand, 2008; Piccola Ape, 2019). Ecco: di
questi bambini che non sembrano aver diritti parremmo capaci di occuparci, nei
fatti e nelle narrazioni, solo quando facciamo la conta dei morti, oppure
quando produciamo un documento colmo di pietas, per il quale piangiamo
abbondanti lacrime dai nostri luoghi protetti e poi dimentichiamo. È una forma
di pseudo-solidarietà, per usare una espressione di Paul Gilroy, che ci è
consueta, e che è del tutto inadeguata a esprimere dolore vero (Against
Race: Imagining Political Culture Beyond Color Line, 2000).
È facile spiegare come questo accada: ci nascondiamo
dietro la necessità dei molti. Lo spiega molto bene Ursula Kroeber Le Guin, la
scrittrice americana premiata nel 2014 con un riconoscimento mai attribuito a
qualcuno che scrivesse esplicitamente fantascienza (National Book Foundation
Medal for Distinguished Contribution to American Letters). Ignorata fino
all’altra ieri e ora improvvisamente (e giustamente) riscoperta, Le Guin
pubblica nel 1973 un racconto intitolato “The Ones who Walk Away From Omelas”
(“Quelli che si allontanano da Omelas”). La storia è ambientata in una città
perfetta, dove tutti hanno il necessario e anche quel tanto in più che serve a
sentirsi felici. A Omelas, ciascuno rispetta il suo vicino, non ci sono
violenze né crimini e ogni cosa scorre secondo giustizia, in un elementare,
naturale affetto reciproco. Nella sua perfezione, tuttavia, Omelas si regge
interamente sulla sofferenza “necessaria” di un bambino, imprigionato in una
segreta e costretto a vivere in cattività. Questo è il prezzo del benessere
altrui. Da adulti, gli abitanti di Omelas scoprono chi paga per il loro sistema
di vita perfetto. Tutti si scandalizzano, si infuriano, si commuovono, e tutti,
senza distinzione, vorrebbero fare qualcosa. Ma la loro è appunto,
semplicemente, una “cheap pseudo-solidarity”: alla fine delle lacrime e degli
strepiti, nessuno fa nulla. Alcuni restano a Omelas e accettano di sacrificare
il bambino; altri se ne vanno, non è chiaro dove, ma comunque lontano dal
bambino imprigionato. La vittima sacrificale – nuovo agnus dei –
resta dov’è, perché dal suo sacrificio dipende il benessere di tutti. È un
danno collaterale, si direbbe in guerra, e per quanto tragico parrebbe non
poter essere evitato.
Tuttavia il danno resta. “[…] quelli, certo, sono
bambini morti”, scrive Virginia Woolf, in un testo famosissimo pubblicato nel
1938, giusto sul crinale centrale della Guerra Civile spagnola (1936-1938). È
una collocazione storica interessante per parlare di fotografia di guerra,
poiché il conflitto in Spagna è, scrive Susan Sontag nel suo Davanti il
dolore degli altri (2003), il primo conflitto documentato – ovvero
“coperto” – da fotografi professionisti con lo scopo di fornire un documento
attendibile. A raccogliere anche soltanto le riproduzioni fotografiche
selezionate da Woolf, quel quadro finisce per essere la storia visuale di un
massacro, che alla scrittrice britannica pare indiscutibile, perché “si vede”,
e non ci sarebbe modo di negarlo. Evitarlo sarebbe l’atto consequenziale,
quello che non accade.
Naturalmente erano anni diversi, e si credeva davvero
che la fotografia potesse essere un documento di obiettività indiscutibile, ma
in Woolf mi colpiscono comunque due cose: l’enfasi sulle vittime civili – e in
particolare i bambini – e la fattualità con la quale la scrittrice trova in
quei documenti la testimonianza di una disfatta, smascherando di fatto il
ragionamento – di preferenza maschile e patriarcale – secondo cui per evitare
la guerra occorre potenziare le armi che servono a farla.
Non entrerò in un discorso infantilmente pacifista:
anche la richiesta di pace, lo riconosco, ha svariate complessità, anche se
continuo a pensare che la negoziazione, l’embargo, la consapevolezza della
storia che ha portato al conflitto e la rinuncia ad accordi economicamente
convenienti ma eticamente discutibili sarebbero strumenti migliori. Però, in
questo nostro “qui e ora” mi fermo sul senso e sulla potenza della fotografia
di guerra e su a che cosa serva ancora, se serve, con un riguardo specifico
alla fotografia degli inermi.
Il ritratto che ha vinto il World Press Photo nel 2024
– di fatto il riconoscimento fotografico più prestigioso al mondo – è stata
scattata a Khan Younis, nella striscia di Gaza, il 17 ottobre scorso. Il titolo
originario – “A Palestinian Woman Embraces the Body of Her Niece” – è
stato presto rimpiazzato da uno più familiare e simbolico: la “Pietà di Gaza” è
diventata la rappresentazione iconica dei bambini e degli inermi che fin qui (e
oltre qui) continuano a morire senza che si riesca a fermare un massacro
comunque un po’ difficile da giustificare. Nella foto una donna giovane, Inas
Abu Maamar, stringe il corpo senza vita di sua nipote, appena 5 anni, uccisa da
un bombardamento insieme a sua madre e a sua sorella. Il fotografo, Mohamed
Salem, ha realizzato questo scatto nell’ospedale Nasser di Khan Yunis, lo
stesso nel quale in febbraio hanno poi fatto irruzione i soldati israeliani,
sulla base di informazioni che lo indicavano come parte della rete informale di
infrastrutture di Hamas. Le irruzioni non sono mai operazioni pulite. E
l’ospedale più avanti è stato reso famoso dal ritrovamento di una fossa comune
con circa 200 cadaveri. Il posto è quello: il luogo della foto, quando ancora
funzionava come ospedale, è un luogo vero. E tra parentesi, già nel 2010 lo
stesso fotografo – classe 1985, laureato in una università di Gaza di cui ora
esistono solo avanzi – aveva vinto con una foto simile: un’istantanea
dell’attacco a Gaza City con bombe al fosforo (illegali in aree abitate), l’8
gennaio del 2009, sempre in cerca dei terroristi di Hamas.
Ora la mia domanda – o la nostra domanda – dovrebbe
essere: quanti bambini (o vittime inermi) sono state sacrificate in questo
genere di vicende e catalogate come “danni collaterali” o vittime di “tragici
errori”. E come accade che la difesa delle loro vite non sia rilevante? È
sufficiente commuoversi davanti a una splendida foto, trasformata in icona
capace di mediare l’assoluzione di un occidente che sta a guardare?
Torniamo alle nostre vite, dopo le lacrime. Ci
dimentichiamo, fino al prossimo scandalo. Restano le storie: quelle che siamo
capaci di raccontare, noi che questo facciamo di mestiere, e che hanno da
essere oneste. Non antisemite, non bestemmie, non filo-Hamas. Solo storie
immensamente importanti per provare a modificare un sistema di pensiero che
ragiona solo per categorie conflittuali e risponde a ragionamenti primariamente
politico-economici. Storie che non distinguano tra bambini e bambini: non vittime
o risorse, ma creature che hanno diritto a una vita normale.
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