In questo articolo si parla di due fenomeni. Il primo, che corrisponde a un progetto che i detentori del potere economico e politico cercano di mandare a effetto da almeno tre decenni è la privatizzazione di settori fondamentali per una società civile: la scuola e la sanità. Qui mi occuperò, attraverso un esempio emblematico, della scuola. Va da sé che privatizzare vuol dire mettere a profitto quelli che sino ad ora, tra malfunzionamenti, indubbie e discutibili aperture al privato, scarsi investimenti da parte dello Stato, sono sempre stati considerati in Italia servizi essenziali per tutti i cittadini e, in quanto tali, gratuiti. Il secondo fenomeno, che si muove sul piano simbolico, è l’espropriazione, da parte dei soggetti il cui credo ha un solo comandamento, il profitto, del linguaggio dei loro antagonisti. Il processo mimetico è netto: per un lettore che legga fuori dal contesto, ciò che afferma una Fondazione bancaria sulla scuola è indistinguibile da ciò che potrei scrivere io, convinta sostenitrice di una scuola di buona qualità e di una società più equa dell’attuale. La confusione che in tal modo si determina è nociva e impedisce a chi ha meno strumenti critici (ai più giovani, ai più distratti, ai più annoiati, a coloro che non conoscono l’argomento) di capirci qualcosa.
Passo all’esempio, che mi è stato segnalato da amici che lavorano in aree
cosiddette “a rischio”: mi hanno parlato di un progetto il cui scopo
dichiarato è quello di arginare la povertà educativa e di ridurre le
diseguaglianze sociali. Nel loro collegio docenti tale progetto,
denominato Teach for Italy (“Insegnare per
l’Italia”) pare sia stato presentato in modo piuttosto sommario. Aderendo al
progetto, la scuola avrebbe avuto a disposizione un certo numero di giovani
insegnanti formati da Teach for Italy per contrastare
lo svantaggio educativo. Dopo un periodo di osservazione del lavoro in classe,
queste “forze nuove”, messe a disposizione della scuola senza alcun onere
economico per la stessa, avrebbero dovuto collaborare o sostituire – questo non
era chiaro nella presentazione della dirigente – gli insegnanti della classe.
Vista la genericità della presentazione, il progetto è stato prudenzialmente
respinto dal Collegio. Ormai siamo abituati al fatto che la scuola sia terreno
di pascolo per le associazioni del terzo settore; quello che c’è di nuovo in Teach for Italy è che le scuole non debbano
sborsare soldi per avere il servizio. Quello che c’è di vecchio e, a mio avvio,
deprecabile è che neolaureati “formati” da non si sa bene chi per non si sa
bene quale scopo, possano sorreggere e aiutare professionisti (anche i docenti
sono professionisti) con anni di esperienza alle spalle.
Il tutto mi è parso strano e così ho cercato di capire che cosa ci sia
dietro questa nuova (almeno per me) associazione. Si è aperto un mondo che non
esiterei a definire distopico. Cominciamo dall’inizio, con le informazioni che
ho preso dal sito di Teach for Italy: la sezione italiana
fa parte di un network internazionale Teach For All, presente in oltre 60 Paesi del
mondo, fondato da Wendy Kopp, una imprenditrice folgorata dalla necessità di
occuparsi delle diseguaglianze educative. In pratica un “impero educativo”.
Cito dal sito dell’associazione:
Un* insegnante che diventa un* Fellow di Teach for Italy sviluppa competenze professionali
rilevanti per il suo futuro percorso professionale, realizza attività e si
impegna concretamente per combattere le disuguaglianze educative in
Italia. Consolida le sue competenze di insegnamento e partecipa a
implementare progetti di innovazione e contrasto alle disuguaglianze in collaborazione
con i nostri partner locali e nazionali. Nei due anni di programma, gli/le
insegnanti si impegnano a formarsi su metodologie didattiche innovative
che mettono lo studente al centro, insieme a un supporto
di coaching e di career mentoring verso alcuni percorsi
professionali da parte di professionisti nazionali e internazionali. Al termine
del programma diventeranno gli/le Alumni/ae di Teach for Italy, continuando a impegnarsi per divenire
agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento sistemico nell’ecosistema
educativo Italiano, per raggiungere una migliore equità educativa.
Come molte associazioni senza scopo di lucro penso che anche Teach for Italy debba però procurarsi del denaro
per svolgere la propria azione “filantropica”: trovo anche qui informazioni
sufficienti. «I primi sostenitori sono stati Fondazione per la scuola
della Compagnia di San Paolo e Fondazione Agnelli che lavorano da tempo sulle
diseguaglianze educative. Abbiamo avuto un finanziamento iniziale da Fondazione
Stellantis, a cui nel tempo si sono aggiunte diverse fondazioni partner sui
territori […] Stiamo allargando la platea dei donatori, abbiamo avuto una
donazione molto importante da Unicredit che ci sta aiutando a finanziare la
crescita e poi tanti individui che credono alla nostra missione» (https://www.vita.it/la-sfida-del-secolo-una-scuola-senza-diseguaglianze/).
Leggo e rifletto: ma chi sono questi filantropi, che vogliono mettere a
disposizione della malandata scuola italiana giovani e agguerriti
insegnanti, agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento
sistemico nell’ecosistema educativo Italiano (?) e che «mettono al
centro gli studenti» (quasi gli insegnanti “normali” mettessero “al centro” del
loro lavoro le suppellettili scolastiche)? Se sono, come sono, dirette
emanazioni di importanti banche o fondazioni che fanno capo a imprese come
Stellantis non farebbero meglio a contribuire all’equità sociale che sta loro
tanto a cuore agendo nel loro ambito e cioè, per esempio, se banche,
rinunciando ai clamorosi extra-profitti, in modo da offrire mutui a condizioni
più vantaggiose e pagando gli interessi dovuti ai piccoli risparmiatori e, se
aziende, non licenziando e precarizzando i lavoratori con l’unico intento di
massimizzare gli utili? Sarà un ragionamento semplice e con qualche
imprecisione dal punto di vista di un economista liberista, ma tant’è. Perciò,
visto che la filantropia di soggetti rapaci puzza da lontano, bene fanno le
scuole ad essere prudenti e a non accettare ingerenze. Piuttosto
semplice capire la direzione di Teach for Italy: per ora vi forniamo gratuitamente personale
aggiuntivo, che formiamo noi e poi, a processo avviato, vedremo di sostituire
ai metodi obsoleti ed arcaici della “vecchia” scuola i nostri metodi ed anche i
nostri contenuti. Quando saremo ben infiltrati nel tessuto della scuola italiana sapremo
come fare per estrarre profitto dal vecchio carrozzone della scuola pubblica.
In questo siamo esperti.
La nostra scuola statale è vecchia, è malandata ma ha ancora tante zone
vitali ed è pronta a rigenerarsi, se chi lavora in questo settore non si
arrenderà all’avanzata del “nuovo”. Il quale “nuovo” tanto “nuovo” non è; è
dagli anni Novanta (ed anche da prima, per la precisione) che il pensiero
neoliberista spinge verso la privatizzazione del settore. Tutta in un colpo non
si poteva fare, è chiaro: ma a poco a poco, utilizzando gli ultracorpi di
giovani insegnanti formattati direttamente dai detentori del potere economico,
sì. Non si tratta di fantascienza, l’invasione degli ultracorpi è già iniziata.
Si legga questo passo: «Una scuola di qualità che pone gli
studenti al centro dell’esperienza di apprendimento può contribuire a
trasformarne il futuro. Valorizzando le capacità di ognuno indipendentemente
dal contesto di provenienza, possiamo fornire a tutti gli strumenti per crescere e aprire la
strada a una società più giusta e equa». Queste parole non le ho scritte
io: le potrete trovate tal quali su Unicredit Foundation.
L’aggressione alla scuola statale come luogo di trasmissione del sapere
viene da lontano. È dai tempi dell’importante Accordo interconfederale del 23 luglio 1993,
che inaugurava il periodo della cosiddetta “concertazione” tra parti sociali,
che si sostiene la necessità di «un raccordo sistematico tra il mondo
dell’istruzione e il mondo del lavoro, anche tramite la partecipazione delle
parti sociali negli organismi istituzionali dello Stato e delle Regioni dove
vengono definiti gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e
controllo del sistema formativo». Altro che autonomia scolastica!
La scuola, secondo tale dichiarazione d’intenti, è subalterna al mondo
produttivo. Quindi le “parti sociali” e cioè le associazioni sindacali dei
datori di lavoro e dei lavoratori, il governo, gli enti locali, dovrebbero
collaborare a definire «gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione
e controllo del sistema formativo». A ben leggere, non è poca cosa
e si integra molto bene con il dannosissimo progetto odierno dell’autonomia
differenziata. Ricordiamo, tra i molti obiettivi che nell’Accordo toccano la
scuola, la volontà di «portare a termine la riforma della scuola secondaria
superiore, nell’ottica della costruzione di un sistema per il 2000, integrato
e flessibile tra sistema scolastico nazionale e formazione professionale ed
esperienze formative sul lavoro sino a 18 anni di età» e poi di
«valorizzare l’autonomia degli istituti scolastici ed universitari e delle sedi
qualificate di formazione professionale, per allargare e migliorare
l’offerta formativa post-qualifica, post-diploma e post-laurea, con
particolare riferimento alla preparazione di quadri specializzati nelle nuove
tecnologie».
Morale: molti anni fa due giornalisti del Sole24Ore, Dragoni e
Meletti, scrivevano un libro intitolato La paga dei padroni. L’incipit era
memorabile: nel 2007 Alessandro Profumo, allora amministratore delegato di
Unicredit, aveva guadagnato 25.000 euro al giorno (proprio così: 25.000 euro in
un giorno). In seguito le cose non sono cambiate: nel 2023 Carlos
Tavares, amministratore delegato di Stellantis, ha guadagnato 23,4
milioni di euro, pari a 365 volte lo stipendio medio che i 268 mila dipendenti
di Stellantis ricevono in un anno. Questi sarebbero gli stessi soggetti che si
vogliono muovere verso una società più giusta? Mi pare proprio il caso di dire: «Timeo
Danaos et dona ferentes».
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