domenica 30 giugno 2024

La scuola assediata da improbabili filantropi - Giovanna Lo Presti

 

In questo articolo si parla di due fenomeni. Il primo, che corrisponde a un progetto che i detentori del potere economico e politico cercano di mandare a effetto da almeno tre decenni è la privatizzazione di settori fondamentali per una società civile: la scuola e la sanità. Qui mi occuperò, attraverso un esempio emblematico, della scuola. Va da sé che privatizzare vuol dire mettere a profitto quelli che sino ad ora, tra malfunzionamenti, indubbie e discutibili aperture al privato, scarsi investimenti da parte dello Stato, sono sempre stati considerati in Italia servizi essenziali per tutti i cittadini e, in quanto tali, gratuiti. Il secondo fenomeno, che si muove sul piano simbolico, è l’espropriazione, da parte dei soggetti il cui credo ha un solo comandamento, il profitto, del linguaggio dei loro antagonistiIl processo mimetico è netto: per un lettore che legga fuori dal contesto, ciò che afferma una Fondazione bancaria sulla scuola è indistinguibile da ciò che potrei scrivere io, convinta sostenitrice di una scuola di buona qualità e di una società più equa dell’attuale. La confusione che in tal modo si determina è nociva e impedisce a chi ha meno strumenti critici (ai più giovani, ai più distratti, ai più annoiati, a coloro che non conoscono l’argomento) di capirci qualcosa.

Passo all’esempio, che mi è stato segnalato da amici che lavorano in aree cosiddette “a rischio”: mi hanno parlato di un progetto il cui scopo dichiarato è quello di arginare la povertà educativa e di ridurre le diseguaglianze sociali. Nel loro collegio docenti tale progetto, denominato Teach for Italy (“Insegnare per l’Italia”) pare sia stato presentato in modo piuttosto sommario. Aderendo al progetto, la scuola avrebbe avuto a disposizione un certo numero di giovani insegnanti formati da Teach for Italy per contrastare lo svantaggio educativo. Dopo un periodo di osservazione del lavoro in classe, queste “forze nuove”, messe a disposizione della scuola senza alcun onere economico per la stessa, avrebbero dovuto collaborare o sostituire – questo non era chiaro nella presentazione della dirigente – gli insegnanti della classe. Vista la genericità della presentazione, il progetto è stato prudenzialmente respinto dal Collegio. Ormai siamo abituati al fatto che la scuola sia terreno di pascolo per le associazioni del terzo settore; quello che c’è di nuovo in Teach for Italy è che le scuole non debbano sborsare soldi per avere il servizio. Quello che c’è di vecchio e, a mio avvio, deprecabile è che neolaureati “formati” da non si sa bene chi per non si sa bene quale scopo, possano sorreggere e aiutare professionisti (anche i docenti sono professionisti) con anni di esperienza alle spalle.

Il tutto mi è parso strano e così ho cercato di capire che cosa ci sia dietro questa nuova (almeno per me) associazione. Si è aperto un mondo che non esiterei a definire distopico. Cominciamo dall’inizio, con le informazioni che ho preso dal sito di Teach for Italy: la sezione italiana fa parte di un network internazionale Teach For All, presente in oltre 60 Paesi del mondo, fondato da Wendy Kopp, una imprenditrice folgorata dalla necessità di occuparsi delle diseguaglianze educative. In pratica un “impero educativo”. Cito dal sito dell’associazione:

Un* insegnante che diventa un* Fellow di Teach for Italy sviluppa competenze professionali rilevanti per il suo futuro percorso professionale, realizza attività e si impegna concretamente per combattere le disuguaglianze educative in Italia. Consolida le sue competenze di insegnamento e partecipa a implementare progetti di innovazione e contrasto alle disuguaglianze in collaborazione con i nostri partner locali e nazionali. Nei due anni di programma, gli/le insegnanti si impegnano a formarsi su metodologie didattiche innovative che mettono lo studente al centro, insieme a un supporto di coaching e di career mentoring verso alcuni percorsi professionali da parte di professionisti nazionali e internazionali. Al termine del programma diventeranno gli/le Alumni/ae di Teach for Italy, continuando a impegnarsi per divenire agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento sistemico nell’ecosistema educativo Italiano, per raggiungere una migliore equità educativa.

Come molte associazioni senza scopo di lucro penso che anche Teach for Italy debba però procurarsi del denaro per svolgere la propria azione “filantropica”: trovo anche qui informazioni sufficienti. «I primi sostenitori sono stati Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo e Fondazione Agnelli che lavorano da tempo sulle diseguaglianze educative. Abbiamo avuto un finanziamento iniziale da Fondazione Stellantis, a cui nel tempo si sono aggiunte diverse fondazioni partner sui territori […] Stiamo allargando la platea dei donatori, abbiamo avuto una donazione molto importante da Unicredit che ci sta aiutando a finanziare la crescita e poi tanti individui che credono alla nostra missione» (https://www.vita.it/la-sfida-del-secolo-una-scuola-senza-diseguaglianze/).

Leggo e rifletto: ma chi sono questi filantropi, che vogliono mettere a disposizione della malandata scuola italiana giovani e agguerriti insegnanti, agenti del cambiamento volti a realizzare un cambiamento sistemico nell’ecosistema educativo Italiano (?) e che «mettono al centro gli studenti» (quasi gli insegnanti “normali” mettessero “al centro” del loro lavoro le suppellettili scolastiche)? Se sono, come sono, dirette emanazioni di importanti banche o fondazioni che fanno capo a imprese come Stellantis non farebbero meglio a contribuire all’equità sociale che sta loro tanto a cuore agendo nel loro ambito e cioè, per esempio, se banche, rinunciando ai clamorosi extra-profitti, in modo da offrire mutui a condizioni più vantaggiose e pagando gli interessi dovuti ai piccoli risparmiatori e, se aziende, non licenziando e precarizzando i lavoratori con l’unico intento di massimizzare gli utili? Sarà un ragionamento semplice e con qualche imprecisione dal punto di vista di un economista liberista, ma tant’è. Perciò, visto che la filantropia di soggetti rapaci puzza da lontano, bene fanno le scuole ad essere prudenti e a non accettare ingerenze. Piuttosto semplice capire la direzione di Teach for Italy: per ora vi forniamo gratuitamente personale aggiuntivo, che formiamo noi e poi, a processo avviato, vedremo di sostituire ai metodi obsoleti ed arcaici della “vecchia” scuola i nostri metodi ed anche i nostri contenuti. Quando saremo ben infiltrati nel tessuto della scuola italiana sapremo come fare per estrarre profitto dal vecchio carrozzone della scuola pubblica. In questo siamo esperti.

La nostra scuola statale è vecchia, è malandata ma ha ancora tante zone vitali ed è pronta a rigenerarsi, se chi lavora in questo settore non si arrenderà all’avanzata del “nuovo”. Il quale “nuovo” tanto “nuovo” non è; è dagli anni Novanta (ed anche da prima, per la precisione) che il pensiero neoliberista spinge verso la privatizzazione del settore. Tutta in un colpo non si poteva fare, è chiaro: ma a poco a poco, utilizzando gli ultracorpi di giovani insegnanti formattati direttamente dai detentori del potere economico, sì. Non si tratta di fantascienza, l’invasione degli ultracorpi è già iniziata. Si legga questo passo: «Una scuola di qualità che pone gli studenti al centro dell’esperienza di apprendimento può contribuire a trasformarne il futuro. Valorizzando le capacità di ognuno indipendentemente dal contesto di provenienza, possiamo fornire a tutti gli strumenti per crescere e aprire la strada a una società più giusta e equa». Queste parole non le ho scritte io: le potrete trovate tal quali su Unicredit Foundation.

L’aggressione alla scuola statale come luogo di trasmissione del sapere viene da lontano. È dai tempi dell’importante Accordo interconfederale del 23 luglio 1993, che inaugurava il periodo della cosiddetta “concertazione” tra parti sociali, che si sostiene la necessità di «un raccordo sistematico tra il mondo dell’istruzione e il mondo del lavoro, anche tramite la partecipazione delle parti sociali negli organismi istituzionali dello Stato e delle Regioni dove vengono definiti gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del sistema formativo». Altro che autonomia scolastica! La scuola, secondo tale dichiarazione d’intenti, è subalterna al mondo produttivo. Quindi le “parti sociali” e cioè le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, il governo, gli enti locali, dovrebbero collaborare a definire «gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del sistema formativo»A ben leggere, non è poca cosa e si integra molto bene con il dannosissimo progetto odierno dell’autonomia differenziata. Ricordiamo, tra i molti obiettivi che nell’Accordo toccano la scuola, la volontà di «portare a termine la riforma della scuola secondaria superiore, nell’ottica della costruzione di un sistema per il 2000, integrato e flessibile tra sistema scolastico nazionale e formazione professionale ed esperienze formative sul lavoro sino a 18 anni di età» e poi di «valorizzare l’autonomia degli istituti scolastici ed universitari e delle sedi qualificate di formazione professionale, per allargare e migliorare l’offerta formativa post-qualifica, post-diploma e post-laurea, con particolare riferimento alla preparazione di quadri specializzati nelle nuove tecnologie».

Morale: molti anni fa due giornalisti del Sole24Ore, Dragoni e Meletti, scrivevano un libro intitolato La paga dei padroni. L’incipit era memorabile: nel 2007 Alessandro Profumo, allora amministratore delegato di Unicredit, aveva guadagnato 25.000 euro al giorno (proprio così: 25.000 euro in un giorno). In seguito le cose non sono cambiate: nel 2023 Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, ha guadagnato 23,4 milioni di euro, pari a 365 volte lo stipendio medio che i 268 mila dipendenti di Stellantis ricevono in un anno. Questi sarebbero gli stessi soggetti che si vogliono muovere verso una società più giusta? Mi pare proprio il caso di dire: «Timeo Danaos et dona ferentes».

da qui

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