(da il
manifesto)
La colpa è
delle vittime che scelgono di morire perché sono irresponsabili, mettendo a
rischio le loro vite e quelle dei figli. Se lo dice un ministro della
Repubblica, perché non dovrebbe dirlo un datore di lavoro che non si vergogna
di un atto crudele e criminale?
Trentacinque
anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto
nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto
schieramento di forze sociali promosse la prima grande manifestazione contro il
razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento antirazzista per i
diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di
discriminazione.
A distanza
di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e,
nonostante il numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia
del 1989 a più di 5 milioni oggi), abbiamo visto diminuire la visibilità e il
protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un aumento della
politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali.
La scarsa
presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme
all’uso aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva
disumanizzazione delle persone, permettendo a politici e giornalisti
spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza alcuna vergogna.
Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti,
rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non
vale nulla.
Le
affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla
responsabilità del lavoratore morto «per mancanza di attenzione», cancellano le
circostanze che ne hanno determinato la morte, nonché l’elemento essenziale di
quella che è una nuova forma di schiavitù, con condizioni note a tutti come il
lavoro nero, lo sfruttamento e il ricatto legato al permesso di soggiorno.
Questo ricorda chiaramente quanto disse il ministro Piantedosi all’indomani
della strage di Cutro: ««L’unica cosa che va detta e affermata è che i migranti
non devono partire». E subito dopo: «La disperazione non può mai giustificare
condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli».
Insomma, la
colpa è delle vittime che scelgono di morire perché sono irresponsabili,
mettendo a rischio le loro vite e quelle dei figli. Se lo dice un ministro
della Repubblica, perché non dovrebbe dirlo un datore di lavoro che non si
vergogna di un atto crudele e criminale?
Le parole allucinanti di Piantedosi all’epoca di quella strage furono seguite
da una scelta coerente di tutto il governo, che si riunì subito dopo, proprio
nel luogo della strage, per approvare una legge contro l’immigrazione legale e
a sostegno dei trafficanti, senza peraltro stringere la mano e portare il
cordoglio dell’Italia ai superstiti e ai familiari delle vittime. Un governo
che ha impostato tutta la sua azione in questo ambito proprio sulla costruzione
del nemico, da dare in pasto all’opinione pubblica con profluvio di leggi e
accordi in sfregio della Costituzione e del diritto internazionale. Una forma
esplicita di razzismo di stato che va contrastata con forza, mettendo in campo
un’alternativa dal basso, dai territori.
Oggi, come
nel 1989, un fatto tragico legato allo sfruttamento lavorativo, non un
incidente ma un vero omicidio, può rappresentare l’elemento che fa scattare la
reazione dell’Italia antirazzista. Un movimento che non è minoranza in Italia,
ma che prende raramente la parola, come di rado la prendono le persone di
origine straniera sulle questioni che le riguardano direttamente.
È necessario
che il prossimo autunno, proprio in prossimità di quella data che ha visto
l’avvio di una mobilitazione importante per la lotta contro il razzismo nel
nostro Paese, si faccia tutto il possibile per portare in piazza quella parte
d’Italia che non vuole arrendersi alla disumanizzazione delle persone,
all’attacco alla civiltà giuridica italiana ed europea e all’avanzata delle
destre xenofobe in tutta l’Ue, per gli interessi dei partiti che sul razzismo
hanno costruito la loro fortuna, il loro business e non certo nell’interesse
del Paese.
Una
mobilitazione che va preparata con assemblee territoriali, in tutti i luoghi
nei quali le persone, soprattutto migranti e rifugiati, si incontrano per
discutere e organizzare la partecipazione, ridando finalmente la parola ai
protagonisti.
C’è il tempo per farlo, per far crescere dai territori una grande
mobilitazione. Per ribaltare l’idea che il razzismo paga elettoralmente, che
parlare di diritti e uguaglianza è impopolare e affermare con forza che ciò che
serve per rimotivare le persone a partecipare è un’idea giusta e praticabile di
società accogliente e aperta. Se non ora, quando?
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