«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro». Cosa rimane, in questo 2 giugno 2024, dell’incipit della
nostra Costituzione?
Il primo a cadere è stato il lavoro: è quello che si
sta tirando dietro tutto il resto. La
precarizzazione, il Jobs Act, il capitale umano, il ‘mercato del lavoro’, i
lavoratori carne da macello in un rosario infinito di ‘morti sul lavoro’: la
conosciamo la storia degli ultimi trent’anni. Ed è stato proprio il tradimento
del progetto politico della Costituzione (violentemente negato in ciò che
affermano gli articoli 3, 9, 32-34, 41… e tanti altri) a trascinarsi dietro il
resto di quelle parole cruciali. Ripercorriamole.
«Democratica»: la marginalità del Parlamento, le leggi
elettorali incostituzionali, le letali elezioni dirette di presidenti di
regione e sindaci… Già oggi ci sono molti dubbi sull’effettività della
nostra sgangherata democrazia. Ma se passasse il ‘premierato’, e insieme anche
la riforma della giustizia, quell’aggettivo – ‘democratica’ – cadrebbe anche
formalmente. Un unico potere mangerebbe gli altri due: il Governo svuoterebbe
il Parlamento (e con esso gli organi di garanzia, dalla Presidenza della
Repubblica alla Corte Costituzionale) e controllerebbe la magistratura. Solo
l’esecutivo: fine del legislativo, fine del giudiziario. Eccoli, i ‘pieni
poteri’: cioè la concentrazione in unico potere, in un assetto addirittura
preilluministico, da antico regime. E, poi, quale potere
esecutivo! Nemmeno la collegialità di un governo, no: un capo, plebiscitato da
una folla informe. Neanche l’Ungheria, oggi, versa in tali condizioni.
«Una Repubblica»? No, l’autonomia differenziata sta
per cancellarla. Venti repubblichette con i loro capetti,
senza vincoli di solidarietà, in una giungla competitiva in cui si salvi chi
può (cioè chi è ricco). La fine di un progetto di Paese: ogni regione la
sua scuola, la sua università, i suoi musei in una regressione tribale
spaventosa. E naturalmente le sue alluvioni e le sue frane, nella fine vera di
ogni tutela di ambiente e territorio: basta con le odiate soprintendenze,
ognuno padrone in casa propria, e balliamo liberi verso una tomba di cemento.
Un progetto scellerato innescato dall’ennesimo tradimento del Centrosinistra,
che nel 2001 ha piazzato nella Costituzione la mina che ora una destra oscena
fa brillare, tirando giù tutto. Il bersaglio grosso, è chiaro, è proprio la
Costituzione, antifascista e solidale, del 1948: relitto inservibile al tempo
della scuola del merito e della competitività, al tempo della guerra che torna,
al tempo del fascismo al governo.
E poi, l’Italia: anche la prima parola della Carta tra
un po’ non indicherà più nulla. Non quella
per cui offrivano la loro vita i condannati a morte della Resistenza. Non
quella di Mazzini, o Garibaldi. Una espressione geografica, di nuovo: per mano
nostra, stavolta. Anzi, peggio. Perché, si chiedono gli ingenui, il partito di
matrice fascista, che ci allaga con la retorica della nazione, accetta di
distruggere l’identità italiana in nome della quale colonizza biennali e musei?
Uno scambio con i secessionisti, si dice. Non solo, non basta. La verità è che
della storia e della cultura italiane, ciò che davvero ci fa nazione (in una
identità plurale e aperta, che muta nel tempo), a costoro nulla cale: nulla ne
sanno, ancor prima. A loro interessa il sangue: ciò che nessun migrante (anzi
nessun nero) potrà mai avere. E, dunque, che patrimonio, scuola e cultura siano
fatti pure in venti frammenti irrilevanti e irrelati. Perché «il razzismo
nostro è quello del sangue», scriveva Giorgio maestro di Giorgia, sull’immonda
rivista che ‘difendeva la razza’. E oggi questi grotteschi epigoni del peggio,
questi «figli di fogna» (per usare un’espressione di santa Caterina da Siena),
parlano appunto di ‘sostituzione etnica’, in un concentrato di ignoranza e
orrore senza pari: «il razzismo nostro è quello del sangue».
Ciò che vorrei vedere, il 2 giugno, non è l’oscena parata di armi (ancor più insensata e oscena mentre i capi
dell’Europa ci trascinano verso l’abisso nucleare), né la bandiera stampata in
aria con strazio dell’ambiente, no. Una parata di maestri e maestre,
vorrei: di professori e professoresse, infermiere e infermieri, medici del
corpo e della mente, artisti e musicisti, studentesse e studenti… Perché è da
ciò che resta del prendersi cura, del costruire bellezza, conoscenza e pensiero
critico, che può venire il riscatto.
Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza
collettiva se vogliamo che il popolo – sì, quello a cui appartiene la
sovranità, secondo le parole che continuano l’articolo 1 – torni ad esercitarla
in referendum capaci di riportare quella sovranità nelle forme e nei limiti della
Costituzione.
Solo così quell’articolo esisterà ancora. E noi con
lui.
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