lunedì 1 luglio 2024

L’ODORE DELLE COSE BRUCIATE - Giovanni Gusai

 

L’uomo soffoca un grido di dolore. Il vetro scheggiato della finestra da cui cerca di accedere al capannone si è impigliato alla manica della camicia. Lui rischiava di restare appeso per il tessuto, ha dato uno strattone e il vetro ha reciso la carne. La vista del sangue gli è indifferente. Stringe i denti per soffocare un’imprecazione e salta dentro. Si guarda intorno, procede svelto e silenzioso. Comprime la ferita con la mano. Quando arriva di fronte al cumulo informe sul fondo del magazzino, scosta il telone di plastica ed estrae la busta di nylon dal retro dei pantaloni. La depone a terra, tendendo i bordi e dandole la forma di un cestino. Sotto il telone ci sono sei sacchi di mangime sigillati. Mangime per galline. Nel settimo non c’è quasi più niente. Lo svuota con le mani, dentro la busta informe depositata sul cemento. Fa un nodo con i manici del sacchetto, nasconde le sei confezioni di mangime rimaste con il telone occhiellato, ed esce. Sulla strada del ritorno guarda la terra impolverargli i piedi e vede cadere una goccia di sangue scuro. Osserva il braccio, la manica è macchiata. Non fa male. Di tanto in tanto l’uomo si china e raccoglie delle erbe selvatiche. Una dozzina di steli quasi secchi, il brodo non uscirà granché. Pensa che sei sacchi sono ancora tanti, dovrebbero bastare fino alla fine. Se sapessi quand’è la fine, aggiunge – e se nessuno mi segue e porta via i sacchi. Gli sfuggono due lacrime, ma ha giurato che non avrebbe più pianto. Le asciuga subito. Ora la manica della camicia è sporca di moccio e polvere, di sangue e lacrime. Il campo ricomincia all’improvviso. Tutto, di quel luogo, è disperato. Ma l’uomo non si guarda attorno e balbetta un canto nella lingua di sua madre per distrarsi dal suono della morte incombente, fatto di maledizioni, preghiere e silenzi rassegnati. Lui stringe il sacchetto sul torso, sotto la camicia insanguinata, accoglie la sensazione del sudore a contatto con la plastica, preme con la mano per riconoscere la forma del mangime in pellet. Evita di incrociare gli sguardi. Ignora le grida. La puzza delle cose bruciate, invece. Quella ha preso il posto dell’aria che si respira. Il fuoco ingoia ogni cosa e vomita quest’odore. Dei cadaveri, della plastica, dei tessuti delle tende, o di ciò che queste cose, tutte le cose, furono e non saranno più. L’uomo combatte i conati e accelera, si arresta sul bordo del loro pezzo di campo. Stanno sotto una copertura di lamiera, hanno trovato una poltrona sfondata. Sua moglie e i bambini dormono lì, a turno. Lui ha un tappeto. Recupera il pentolino, lo riempie d’acqua gialla e accende il gas. Usano un fornellino da campeggio. Chissà da quale negozio è stato rubato. Non lo ricorda più. A un certo punto l’acqua bolle, e lui ci butta dentro le erbe selvatiche che ha appena raccolto. I bambini si sono spostati a giocare. La donna dorme. Ha perso venticinque chili. Venticinque è un modo per dire tanti. La bilancia l’hanno lasciata a casa, ma non esiste più. La casa intera. Con la bilancia, i giocattoli, l’armadio con i vestiti, il bagno e la nuova pianta appena travasata, nel vaso grande in salotto. Non esiste più niente, ora c’è solo odore di cose bruciate. Quelle erbe servono a fare un brodo. È molto pallido. È così chiaro da farti preoccupare se lo guardi. Probabilmente il colore glielo dà l’acqua, mica le erbe. È essenziale avere il brodo. Quand’è in temperatura ci butti dentro il mangime e con il cucchiaio puoi mescolare fino a creare un impasto denso. Come una polenta, ma del colore delle pozzanghere e un fetore nauseabondo. Poi lo tiri fuori, lo stendi sulla carta stagnola, fai delle polpette, le schiacci e le ripassi in pentola per formare una crosticina croccante e sono pronte. È una ricetta che ha inventato lui. Puzza come la merda sul fondo del pollaio, guardi le polpette e ti chiedi come sia possibile che non ci siano delle piume, come quelle che trovi sulle uova. Neanche le uova esistono più. Comunque quell’odore di mangime bollito impastato steso e abbrustolito scompare. Si fonde con la puzza del resto e se uno si stringe le narici mentre manda giù neanche lo sente. È questo che l’uomo ha raccontato ai bambini, di tapparsi il naso e mandare giù. Sono poco lontani, li vede: hanno qualcosa tra i piedi e la prendono a calci verso una coppia o l’altra di pietre, andando a memoria per ricordare dove passino le linee di bordo campo, delle aree e di fondo, tutto quello che serve per una partita. È curvo sul pentolino, le polpette cominciano a emanare l’odore di bruciato oltre il quale non si deve mai andare. A quel punto bisogna fermarsi, perché diventano davvero immangiabili. Le ridispone sulla stagnola tesa lì accanto, la moglie si sveglia e sorride come se Dio le abbia portato in sogno tutto il senso di fatica dell’umanità. L’uomo si stringe le ginocchia, ricambia con una curva delle labbra e si mette dritto. Sposta le mani sui reni come per tenersi. La manica destra della camicia è nera di sangue rappreso. Socchiude gli occhi contro il vento e la polvere. Brilla qualcosa sul suo volto di padre, una specie di gioia commossa, ma è un attimo. Perché poi, senza poter stare appresso alle immagini del cervello, pensa che non avrebbe mai voluto un futuro del genere per i suoi figli, si dà del padre irresponsabile, in quel pezzo di mondo non c’è niente di buono e lui li doveva portare via, anni fa, si maledice perché chi cazzo lo vorrebbe mai mangiare il mangime delle galline, e io devo chiamare i miei bambini a costringerli, perché non ho alternative, li individua nella mischia dei loro coetanei, confusi nella stessa effimera spensieratezza. Stacca le labbra per gridare, piega la lingua sui denti, la mano destra già piegata sul lato della bocca. Prende fiato. Ora grida e li chiama. Anzi, no. 

Un sibilo spacca il silenzio, diventa fuoco appena tocca terra. È un tuono senza pioggia, un terremoto piovuto dall’azzurro del cielo. Al posto del campetto improvvisato lascia un cratere, mille membra scomposte, da qualche parte anche quello che resta dei figli dell’uomo. Col grido del nome del primogenito spezzato in gola, sua moglie che, lui non lo sa, è morta adesso anche se camminerà sulla terra per qualche tempo ancora, un abisso nello sguardo, una promessa che sta per tradire: perché ora piangerà senza pensare a come smettere. Non ha canzoni di madre per distrarsi, nell’aria c’è di nuovo l’odore delle cose bruciate. Di tutte le cose bruciate. I corpi, le attese, i destini, suoi figli, le polpette di mangime, la terra di suo padre, le tende del campo, la rabbia impotente.

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Guerra a Gaza: “Non voglio morire, mamma”. – Eman Alhaj Ali

Durante l’attacco israeliano che ha ucciso più di 270 palestinesi a Nuseirat, una donna racconta il terrore di fuggire dalle bombe e dai proiettili in un campo vicino.

Palestinesi camminano nel fumo e nella polvere dopo un attacco israeliano al campo profughi Nuseirat di Gaza, 8 giugno 2024 (Bashar Taleb/AFP)

La mia famiglia si è abituata alla monotonia della sopravvivenza. Siamo stati ripetutamente sfollati a causa dell’implacabile assalto di Israele a Gaza, che continua da più di otto mesi.
Le continue evacuazioni, le condizioni di vita anguste e la scarsità di beni di prima necessità hanno avuto un loro peso. Lo scorrere del tempo sembra essersi deformato e distorto. La stanchezza, la paura e la disperazione si sono mescolate in una nebbia insensibile e inarrestabile.
Ogni giorno è una lotta. Le nostre vite sono prive di gioia o felicità, bloccate in una routine senza fine. I miei fratelli fanno domande che mi spezzano il cuore, ricordandomi tutte le cose che abbiamo perso e che non possiamo riavere.
Quando le cose si fanno davvero difficili, cerco di fingere che tutto andrà bene, anche se non sono sicura che sia vero. Questa guerra è terrificante. L’esercito israeliano sta distruggendo Gaza ed è difficile sapere cosa succederà poi.
Il mio letto a casa, nel campo di al-Maghazi, nel centro di Gaza, era morbido e confortevole e mi faceva sentire al sicuro. Qualche mese fa, dopo che la mia famiglia è stata trasferita a Rafah, sono stata costretta a dormire su un terreno duro che mi faceva soffrire ogni volta che mi muovevo.
Siamo tornati rapidamente a Maghazi dopo aver appreso che Israele progettava di lanciare una nuova invasione di Rafah, incurante del benessere dei civili sfollati. Ma ora viviamo con un parente, poiché la nostra casa è stata bruciata e danneggiata, insieme a molte altre, quando le forze israeliane hanno invaso il campo.
I nostri pasti sono diventati gradualmente più scarsi e meno frequenti. Non possiamo procurarci cibo fresco né i piatti tradizionali che eravamo soliti gustare. Ricordo quando era facile comprare latte e uova; ora scarseggiano. È difficile vedere i miei fratelli più piccoli crescere senza il cibo di cui hanno bisogno per essere sani.

Congelati dallo shock

Sabato 8 giugno è iniziato come un giorno qualsiasi nella logorante routine di questa guerra, mentre mio padre cuoceva il pane sul fuoco (dato che non c’è il gas per cucinare) e io e mia madre preparavamo la colazione. Ma poi tutto è cambiato.
L’area di Maghazi, non lontana dal campo profughi di Nuseirat, doveva essere una zona sicura, ma gli eventi dell’8 giugno sono ormai impressi nella mia memoria per sempre.
Mentre io e i miei genitori preparavamo il pasto, i miei fratelli e le mie sorelle, giovani e spaventati, erano stretti al nostro fianco. Sono sempre in ansia per la minaccia dei bombardamenti israeliani e ci teniamo continuamente aggiornati sulle ultime notizie, cercando di anticipare quello che succederà. Ma non avremmo potuto prevedere gli eventi di quel giorno.
All’improvviso, l’aria si è riempita dei suoni assordanti degli spari, come un diluvio incessante.
Abbiamo aperto la finestra e guardato il cielo e il paesaggio davanti a noi cercando di capire cosa stesse succedendo. Non avevamo motivo di aspettarci un’invasione, poiché non c’era stato alcun avviso di evacuazione della zona. Ma guardando fuori dalla finestra, abbiamo visto carri armati e artiglieria a pochi metri di distanza.
Mentre eravamo in piedi, congelati dallo shock, ci siamo resi conto che le nostre vite a Gaza potevano essere stravolte in un istante. La gente gridava per le strade, invitandoci a abbondonare l’area in fretta. È stato il momento più terrificante della nostra vita, quando abbiamo capito che eravamo circondati e non sapevamo dove andare.
Il caos nelle strade è stato spaventoso. Siamo fuggiti con i soli vestiti che avevamo addosso e una borsa con i documenti essenziali, abbandonando tutto ciò che possedevamo. I miei fratelli sono scoppiati in lacrime, in preda al panico improvviso.

Nessuna destinazione chiara

Mentre afferravo le loro mani, la mia unica preoccupazione era quella di garantire la nostra sopravvivenza. Pensavo solo a mantenere in vita la mia famiglia, a prescindere da ciò che avremmo perso. I suoni degli spari e dell’artiglieria riempivano l’aria e le strade erano un mare caotico di persone che fuggivano per salvarsi la vita.
Ho visto una madre che stringeva il suo neonato, un uomo che portava la madre anziana e una donna incinta che lottava per camminare, tutti disperati per sfuggire al pericolo.
Il bombardamento costante era terrificante. Correvamo per le strade, senza una chiara destinazione in vista. Le bombe esplodevano nel cielo mentre fuggivamo; persino il rifugio di un campo vicino sembrava essere in pericolo, mentre i residenti in fuga ci avvertivano che l’artiglieria si stava avvicinando e che dovevamo scappare il più velocemente possibile. Abbiamo continuato a correre per la nostra vita, incerti su ciò che ci aspettava.
A un certo punto, abbiamo dovuto attraversare la strada di fronte ai carri armati israeliani, sapendo che potevano prenderci di mira in qualsiasi momento. Il pensiero di essere colpiti da schegge o da un razzo vagante era terrificante.
Siamo sopravvissuti per miracolo, sfollati per la sesta volta in questa guerra. La mia sorellina piangeva: “Non voglio morire. Non voglio morire, mamma. Non abbiamo portato i giocattoli da casa”.
L’aria era bianca di polvere, non riuscivamo a vederci. I proiettili scoppiavano intorno a noi. Un elicottero volava basso, sparando a chiunque si muovesse per le strade. Abbiamo continuato a correre e alla fine abbiamo trovato rifugio a Zawayda.
Più di 270 persone sono state uccise nell’orribile massacro compiuto da Israele nel campo di Nuseirat e altre centinaia sono rimaste ferite. Le squadre di soccorso sono state sommerse da tutte le richieste di aiuto. Ringrazio Dio perché io e la mia famiglia siamo sopravvissuti all’attacco improvviso a Maghazi, dove ora siamo tornati, anche se solo per sopravvivere al prossimo massacro.

(Eman Alhaj Ali è una giornalista freelance, scrittrice e traduttrice con sede a Gaza.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org)

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