La politica insensata dei nostri
governanti che, a partire dal 1990 in poi, si è accanita nel distruggere il
nostro invidiabile patrimonio industriale con le micidiali e
incostituzionali privatizzazioni si sta ancor
più evidenziando nel non saper trovare una soluzione per evitare che le
cosiddette concessioni balneari scadute
siano poste “a gara europea”, come richiesto dall’Ue e come dichiarato da
talune nostre decisioni giurisprudenziali; in modo che, anche in questo
settore, i “profitti” vadano agli stranieri e a noi resti qualche lavoro
precario o molto malpagato.
Si tratta di un vistoso equivoco, dovuto al fatto che i nostri governanti
continuano a ragionare come se le spiagge fossero proprietà della Pubblica
Amministrazione e che per renderle in uso pubblico fosse necessario far ricorso
all’istituto della concessione di servizi, senza tener conto che la nostra
Costituzione, all’articolo 42, sancisce che “la proprietà è pubblica o
privata”, dovendosi intendere come “proprietà pubblica”, ma, come
immediatamente osservò il grande amministrativista Massimo Severo Giannini, la “proprietà collettiva
demaniale” del popolo. Sicché deve inequivocabilmente ritenersi che non è più
lo Stato amministrazione, il quale, con un atto di concessione a privati,
attrezza e destìna a uso pubblico le spiagge, ma che queste di per sé sono già in uso pubblico, in quanto
oggetto di detta “proprietà collettiva demaniale”.
In altri termini, continuare a parlare di
“concessione dei servizi balneari” è fuori luogo, specialmente se si pensa che,
secondo la giurisprudenza amministrativa (sentenza del Consiglio di Stato n.
3910 del 4 maggio 2020), la “concessione di un servizio pubblico” implica che
il concessionario, avendo pattuito una remunerazione con l’Amministrazione
pubblica, assuma su di sé il rischio imprenditoriale legato all’esecuzione dei
servizi di cui si tratta. Nel caso di specie non c’è alcun rischio da
affrontare e quello che serve è semplicemente una attività che
consista nella pulitura della spiaggia, nella fornitura di sedie a sdraio e
ombrelloni, nell’allestimento di uno spogliatoio amovibile, nella costituzione
di un punto di ristoro, nella sorveglianza dei bagnini e così via dicendo. Si
tratta di attività che evidentemente possono essere consentite a privati,
mediante i più vari tipi di contratti, con i quali, in pratica, si autorizzano
le predette attività. In sostanza, l’unico tipo di spiaggia consentito dalla
Costituzione è la “spiaggia libera attrezzata”, per
il cui accesso non occorre pagare un biglietto, mentre poi ci si può servire di
varie comodità nel modo che ho appena esposto.
In questo quadro è semplicemente impensabile che una legge promossa dal governo
Meloni abbia addirittura riconosciuto al “concessionario” il diritto a una
indennità di esproprio per le costruzioni effettuate sulla spiaggia e lasciate
allo Stato, al termine della concessione, secondo quanto dispone l’art. 49 del
codice della navigazione. La questione è stata rimessa dal Consiglio di Stato
alla Corte di giustizia europea, la quale, giustamente, ha risposto che
l’attuazione o la non attuazione dell’articolo 49 del nostro codice della
navigazione non incide sul diritto
europeo. E allora qualcuno, con una nuova proposta di legge, ha pensato di
risolvere il problema abrogando l’articolo
49 del Codice della navigazione, senza tener presente che le costruzioni su
suolo altrui appartengono per “accessione” al proprietario del suolo (nel caso
il proprietario della spiaggia, cioè il popolo).
Se i nostri governanti conoscessero e
facessero valere la Costituzione, certamente non sarebbe stato possibile
neppure pensare di mettere “a gara europea” le concessioni scadute riguardanti
le nostre spiagge.
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