1. Introduzione
Ian Angus nel libro Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del
sistema Terra, tradotto in italiano da Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio
e Giuseppe Sottile, tenta di far dialogare le innovazioni delle Scienze della
Terra che indagano la nuova fase in cui è entrato il sistema terrestre,
l’Antropocene, e le teorie ecosocialiste della frattura metabolica prodotta dal
capitalismo che porta a crisi ecologiche. L’autore offre agli scienziati del
sistema terrestre l’analisi socio-economica del marxismo ecologico e a
quest’ultimi la centralità del concetto di Antropocene nel XXI secolo. Come
fecero Marx ed Engels con L’origine delle specie di Darwin,
dobbiamo gettare ponti tra scienze naturali e sociali, integrando le scoperte
degli scienziati nella teoria marxista.
2. L’Antropocene secondo gli scienziati
A portare alla ribalta il termine Antropocene fu il chimico atmosferico
Paul J. Crutzen nel 2000 a partire dalla constatazione che le attività umane
erano diventate talmente rilevanti da interferire con i processi naturali. Il
risultato è l’abbandono della sua naturale epoca geologica, l’Olocene, con le
attività umane capaci di rivaleggiare con le forze della natura, spingendo il
pianeta verso una terra incognita, con molto più caldo e molta meno vegetazione
e biodiversità. Ciò è possibile perché la Terra è un sistema planetario
integrato dove la biosfera si comporta come una componente essenziale e attiva
e le attività umane influenzano la Terra su scala globale in maniera sempre più
rapida, interattiva e complessa finendo per alterare il sistema terrestre,
minacciando processi ed elementi biotici e abiotici da cui dipende lo stesso
uomo.
Nel 1986 venne avviato l’International Geosphere-Biosphere Program (IGBP)
con l’intento di innovare le Scienze della Terra sotto l’influenza del concetto
di Antropocene per inquadrare le trasformazioni in atto, anche se viene
trattato come un suggerimento per parlare di una nuova era geologica, non come
un periodo geologico ben definito. Dovrà arrivare nel 2002 ancora Crutzen con
il suo articolo su Nature Geology of Mankind per descrivere nel dettaglio la
nuova epoca geologica.
“Egli evidenziò le conseguenze globali, tra cui le precipitazioni acide, lo
smog fotochimico e un prevedibile riscaldamento globale da 1,4 a 5,8 °C nel
secolo in corso e opportunamente aggiunse ‘questi effetti sono stati causati in
gran parte solo dal 25% della popolazione mondiale’. Come scrisse, a meno che
non si verifichi una catastrofe globale come l’impatto di un meteorite, una
guerra mondiale o una pandemia, ‘per molti millenni l’umanità rimarrà una
grande forza ambientale’, sicché ‘sembra opportuno assegnare il termine
‘Anthropocene’ all’attuale epoca geologica, per molti versi dominata
dall’uomo’”1.
Sempre nell’ambito dell’IGBP ci fu il tentativo di mettere in relazione
l’attività umana tra il 1750 e il 2000 con i cambiamenti ambientali nel sistema
terrestre. Venne notato come ci fosse un cambiamento graduale dal 1750 fino al
1950, quando si assiste a una brusca accelerazione dei cambiamenti nel sistema
terrestre. A una conclusione simile giunge anche il progetto MEA delle Nazioni
Unite. Will Steffen e Paul Crutzen chiamarono questo periodo Grande
Accelerazione. Citando Polanyi, utilizzano questo termine per descrivere le
epocali trasformazioni mondiali avvenute nel XX secolo nel rapporto tra uomo e
ambiente. Crutzen e Staffen sostennero che l’Antropocene si fosse sviluppato in
due fasi distinte. La prima è quella dell’era industriale, compresa tra il 1800
e il 1945 quando la CO2 atmosferica supera il limite superiore
di variazione dell’Olocene. La seconda fase coincide con la Grande
Accelerazione. Lo studio di questi grafici dimostra una forte correlazione tra
aumento della concentrazione di CO2 e il consumo di energia
primaria e l’aumento del Pil. Per la stratigrafia l’uomo ha prodotto tracce
visibili negli strati di tutto il pianeta solamente dopo la rivoluzione
industriale, dopo lo sfruttamento di gas, petrolio e carbone. L’impatto
cumulativo di questi cambiamenti porta a un intervallo stratigrafico senza
precedenti del Quaternario ma è ancora presto per affermare che questo periodo
sia finito. L’Antropocene sarebbe solo una nuova epoca e non un nuovo periodo.
In seguito si aprirono i dibattiti per datare il suo inizio. Si iniziò a
parlare di primo Antropocene da datare all’introduzione dell’agricoltura su
vaste porzioni del pianeta tra gli ottomila e i cinquemila anni fa, generando
un innalzamento della temperatura tale da impedire il ritorno dell’era
glaciale. Altre proposte parlano delle prime ampie modificazioni del paesaggio
oppure della trasformazione antropica del suolo in Europa.
“Una proposta ampiamente discussa si concentra sugli scambi
intercontinentali di specie che hanno fatto seguito alle invasioni europee
delle Americhe e propone il 1610 come data di transizione. Alcuni archeologi
propongono di estendere l’inizio dell’Anthropocene sino alle prime tracce
dell’attività umana, il che includerebbe gran parte del Pleistocene, mentre
altri hanno suggerito che l’intero Olocene dovrebbe essere semplicemente
rinominato Anthropocene, poiché è il periodo in cui sono apparsi i primi
insediamenti tipici della civiltà umana”2.
Tuttavia nessuna di queste definizioni parla dell’interferenza attiva
dell’uomo sui processi che regolano l’evoluzione geologica del pianeta. Queste
idee sono sostenute dalle lobby antiambientaliste per sostenere la tesi
dell’assenza di un cambiamento qualitativo recente nel rapporto tra uomo e
ambiente e di conseguenza negare la necessità di soluzioni radicali per
contrastare il cambiamento climatico che reputano come l’esito di tendenze
attive da centinaia se non migliaia di anni. A essa si contrappone la tesi
dell’Antropocene recente che critica la prima proposta perché affronta
solamente l’impatto umano sugli ecosistemi terresti ma il concetto in questione
si riferisce a ben altro. Non si tratta di indagare le prime tracce della
nostra specie bensì la scala, la portata e la persistenza dei cambiamenti
procurati al sistema Terra di origine antropica. Si preferisce per questo
motivo collocare l’inizio dell’Antropocene alla metà del XX secolo.
“L’influenza dell’uomo sul sistema terrestre ha avuto inizio migliaia di
anni fa, inizialmente su scala locale e diacronicamente. Con l’avvento della
rivoluzione industriale, l’uomo è diventato un fattore geologico importante, ma
adesso possiamo dire che è a partire dalla seconda metà del ‘900 che l’impatto
della rivoluzione industriale si è esteso quasi sincronicamente su scala mondiale”3.
Nel 2016 appare su Science un articolo che a questa tesi apporta delle
motivazioni scientifiche per dimostrare che l’Antropocene è funzionalmente e
stratigraficamente diverso dall’Olocene a causa di cambiamenti paragonabili a
quelli avvenuti alla fine dell’ultima era glaciale. Questo perché la
concentrazione media atmosferica di CO2 ha superato i livelli
dell’Olocene dal 1850 e dal 1999 al 2010 è aumentata circa cento volte più
velocemente rispetto all’aumento che ha posto fine all’ultima era glaciale. Per
migliaia di anni le temperature medie globali stavano calando a causa di
cambiamenti ciclici dell’orbita terrestre. Il ciclo climatico orbitale viene
sopraffatto, dal 1800, dall’aumento di gas serra generando un riscaldamento
anormale e rapido del pianeta. Tra il 1906 e il 2005 la temperatura media
globale è aumentata di 0,9 °C. Tra il 1905 il 1945 il livello medio globale dei
mari ha superato quello dell’Olocene ed è aumentato il tasso di estinzione
delle specie. Bisogna inoltre ricordare che se i livelli di emissione saranno
ridotti, nel 2070 la Terra sarà più calda di quanto lo sia stata negli ultimi
125000 anni, cioè per la maggior parte del periodo in cui la specie umana è
stata presente sul pianeta. Questi cambiamenti sono collegati e interagiscono
tra di loro, rafforzandosi e trasformandosi a vicenda, producendo sindromi di
cambiamento non lineari a causa del superamento di una data soglia. Con i
concetti di Antropocene e Grande Accelerazione sono emersi degli studi per
identificare i processi determinanti per mantenere la stabilità del pianeta per
come lo abbiamo conosciuto e cosa fare per mantenere la Terra in condizioni
simili all’Olocoene in un contesto dove l’uomo è diventato una forza di
cambiamento planetario. In questo modo è emerso il concetto di limite
planetario.
“Dalla metà del XX secolo, l’impatto antropico è cresciuto a tal punto da
destabilizzare l’Olocene, un’epoca che risale a 11.700 anni fa e nota per
essere l’unico stato in cui il pianeta può sostenere le società attuali.
Infatti, è stata proposta una nuova epoca geologica, l’Anthropocene. Secondo il
principio di precauzione, sarebbe imprudente per le nostre società spingere il
sistema terrestre ben oltre le condizioni dell’Olocene. Persistere
nell’allontanarsi dall’Olocene rischia di mettere il sistema terrestre in uno
stato molto diverso da quello che conosciamo, uno stato che probabilmente sarà
molto meno favorevole per lo sviluppo delle società umane”4.
Nel 2009 sono identificati i limiti planetari di nove processi ecologici
che permettono di avere uno spazio sicuro per l’azione dell’umanità dalle prime
civiltà a oggi. Perturbarli porterebbe a cambiamenti lineari improvvisi su
scala globale. Parliamo di:
1. Cambiamento climatico: la concentrazione di gas serra in atmosfera
2. L’integrità della biosfera: è legata al ritmo di estinzione delle specie
3. Flussi biogeochimici di azoto e fosforo: l’ecosistema viene sconvolto
dai fertilizzanti a base di azoto e fosforo utilizzati nell’agricoltura moderna
finendo in laghi, fiumi e oceani.
4. Riduzione dello stato dell’ozono: la distruzione dell’ozono
stratosferico da parte di sostanze chimiche di uso comune favorisce la
penetrazione delle radiazioni ultraviolette sulla superficie terrestre.
5. Acidificazione oceanica: una parte della CO2 si dissolve
nell’acqua del mare rendendola più acida e minacciando la sopravvivenza di
plancton, crostacei e coralli con conseguenza per tutte le reti alimentari
essenziali.
6. Uso di acqua dolce: è legato all’esaurimento delle falde acquifere a
causa dell’uso in agricoltura e nell’industria. Coinvolge anche il
prosciugamento dei fiumi a causa dello scioglimento dei ghiacciai.
7. Cambiamento del sistema del suolo: riduzione della biodiversità a causa
dell’espansione dei territori a uso agricoli a danno di savane, foreste decidue
e praterie.
8. Eccesso di aerosol atmosferico: l’aumento dell’inquinamento atmosferico
che provoca circa 7,2 milioni di morti l’anno. Inoltre riduce le attività dei
monsoni.
9. Introduzione di nuove sostanze chimiche di cui non sappiamo gli effetti,
soprattutto in combinazione tra loro.
I limiti planetari non sono punti di non ritorno ma una sorta di guardrail
sulle strade di montagna che impediscono al conducente di raggiungere il bordo.
3. Il capitalismo è incompatibile con l’ambiente
Le forze produttive del capitalismo sono incapaci di creare senza
distruggere. Da un lato hanno prodotto un considerevole miglioramento della
condizione umana ma allo stesso tempo hanno generato genocidi, tortura,
miseria, fame e altri mali su una scala senza precedenti. Lo sfruttamento dei
combustibili fossili e il capitalismo che hanno arricchito la società umana
stanno minacciando le condizioni che rendono possibile la vita umana sul
pianeta. Nonostante ciò, si persegue nel dogma della crescita, dell’aumento
della produzione industriale ma riverniciata di verde. Le motivazioni dietro
questa scelta sono due: è la natura umana o è un errore umano.
Per la prima tesi l’uomo sarebbe portato a desiderare sempre di più e il
capitalismo non fa che soddisfare ciò. La soluzione sarebbe ridurre la
popolazione umana per avere bisogno di produrre meno merci.
La seconda tesi sostiene che gli uomini sono stati sedotti da una falsa
ideologia e, come sostengono i Verdi, di conseguenza bisogna far capire ai
politici questo errore per risolvere il problema. La crescita non sarebbe
dettata dalla ricerca del profitto ma da una ossessione di natura psicologica.
“Per millenni, quasi tutta la produzione è stata destinata all’uso, quindi
c’era poco bisogno o spazio per la crescita economica come la intendiamo oggi.
Nel sistema capitalistico, invece, la maggior parte della produzione è
destinata allo scambio; il capitale sfrutta il lavoro e la natura per produrre
beni che possono essere venduti a un prezzo superiore al costo di produzione,
al fine di accumulare più capitale e ripetere il processo. L’ideologia della
crescita non è la causa della continua accumulazione, ma la sua
giustificazione”5.
Di conseguenza, i capitalisti si muovono da personificazioni del capitale
incapaci di anteporre la salvezza dell’umanità al profitto. Il capitale, privo
di ostacoli, cercherà di espandersi all’infinito in una Terra finita come lo
sono atmosfera, oceani e foreste.
“Le emissioni di gas serra non sono inusuali, perché lo sversamento di
rifiuti nell’ambiente fa parte delle caratteristiche fondamentali del
capitalismo; finché quest’ultimo sopravvivrà, l’inquinamento non cesserà. Ecco
perché ‘soluzioni’ come il cap-and-trade (mercato dei diritti di emissione di
gas serra) sono fallite miseramente e continueranno a farlo. I rifiuti, l’inquinamento
e la distruzione dell’ambiente sono parte integrante del DNA del sistema”6.
Per proseguire in questa analisi è necessario per Angus riprendere la
lettura ecologica di Marx di John Bellamy Foster. Nella metà del XIX secolo il
chimico von Liebig spiegò le cause del declino della produttività agricola in
Inghilterra partendo dal fatto che allo stato naturale vengono forniti alle
piante i nutrienti essenziali per la crescita che sono ricostituiti tramite i
rifiuti animali e vegetali. Questo ciclo è rotto dal capitalismo che priva i
terreni degli apporti della materia organica, rendendoli meno fertili. Per
descrivere queste interazioni usa il termine metabolismo. Questi argomenti,
come dimostra Foster, sono ripresi da Marx che li sviluppa nel concetto di
frattura metabolica. Progressivamente si appropria anche del concetto di
metabolismo per analizzare i cicli materiali essenziali per la vita e i
rapporti tra uomo e natura. Integrerà tutto ciò nel Capitale con un’analisi
storico-sociale del capitalismo, dimostrando come l’imperativo capitalistico
della crescita entra in conflitto con le leggi della natura.
“Invece di produrre cibo allo scopo di nutrire la popolazione,
l’agricoltura capitalistica lo produce al fine di venderlo e generare profitti;
i prodotti della terra sono trasportati nelle città, ma i rifiuti umani non
sono restituiti alla terra. Sversati in altri luoghi, questi nutrimenti
essenziali diventano sostanze inquinanti. A Londra, scrive Marx, l’economia
capitalistica ‘dello sterco di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far
di meglio che impiegarlo con enormi spese per appestare il Tamigi’. Marx la
descrisse come ‘una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico
sociale prescritto dalle leggi naturali della vita’. Il concetto di frattura metabolica
esprime il fatto che l’umanità è allo stesso tempo dipendente e dissociata dal
resto della natura”7.
Il concetto viene approfondito nel libro. Liebig e Marx si interessano a
processi metabolici locali e regionali. In questo scenario l’interruzione del
processo metabolico in un’azienda agricola non era in grado di influenzare le
altre fattorie. Questi processi sono stati ampliati dal colonialismo con il
trasporto di merci e sostanze chimiche.
“Parlando delle importazioni inglesi di alimenti da un’Irlanda segnata
dalla povertà, Marx scriveva che ‘l’Inghilterra ha esportato indirettamente il
suolo irlandese..senza concedere ai suoi coltivatori fossero anche soltanto i
mezzi per reintegrare le parti costitutive del suolo’. Tuttavia, anche in tali
casi, le aree coinvolte erano limitate”8.
Dagli anni ‘70 è diventato evidente, con i danni causati dai CFC allo
strato di ozono, come delle attività comuni potessero alterare dei processi
naturali fondamentali per il funzionamento del pianeta. Con le nostre attività
stiamo producendo fratture metaboliche perfino nei cicli del carbonio e
dell’azoto.
“Il ciclo del carbonio regola il bilancio energetico del sistema climatico.
L’atmosfera e gli oceani si scambiano costantemente anidride carbonica. La CO2 nell’atmosfera
lascia passare la luce visibile, ma impedisce all’energia termica a infrarossi
di disperdersi nello spazio. Quando la temperatura dell’atmosfera si alza, gli
oceani assorbono più CO2, la CO2 atmosferica
diminuisce, meno calore viene trattenuto e l’atmosfera si raffredda.
Raffreddandosi, quest’ultima assorbe a sua volta una maggiore quantità di CO2 dagli
oceani, quindi si riscalda di nuovo. Per milioni di anni, questo ciclo ha impedito
alla Terra di seguire il destino di Marte o di Venere, cioè di diventare troppo
fredda o troppo calda. Più di trecento milioni di anni fa, molto prima
dell’avvento dei dinosauri, processi geologici hanno sepolto le felci e altre
piante nelle profondità della Terra e, col passare del tempo, hanno trasformato
il loro contenuto di carbonio in petrolio, gas e carbone”9.
Ora noi stiamo bruciando tutto questo carbonio sepolto rilasciando CO2 a
un ritmo che non consente di rimuoverla a oceani e altri bacini carboniferi.
“Una frattura metabolica meno visibile ma ugualmente seria riguarda il
ciclo dell’azoto. Tutti gli esseri viventi ne hanno bisogno: le piante per la
loro crescita e gli animali (inclusi gli umani) per produrre muscoli, pelle,
sangue, capelli, unghie e il DNA. L’agricoltura tradizionale garantiva la
stabilità dei livelli di azoto nel suolo attraverso la rotazione delle colture
e l’apporto di letame”10.
Con l’agricoltura intensiva, dal XIX secolo, si osserva un rapido
esaurimento dei terreni rispetto alla capacità naturale di rigenerazione. Per
questo motivo prima si è fatto ricorso al nitrato di origine minerale e al
guano per poi giungere al metodo energivoro del processo Haber-Bosch per
estrarre l’azoto dall’atmosfera. In questo modo si è reso disponibile più azoto
per tutti i processi naturali. L’eccesso di azoto dovuto alla
sovra-fertilizzazione genera perdite di biodiversità, moria di pesci, zone morte
nelle acque, inquinamento delle falde acquifere o malattie respiratorie.
Inoltre, l’uso di fertilizzanti nuoce alla fertilità del suolo e costringe a
usare più fertilizzanti per mantenere la produzione a un livello adeguato.
I danni del capitalismo, inoltre, derivano non solo dal bisogno di cresce
ma dalla necessità di farlo sempre più rapidamente. Più è lungo il tempo che
richiedono investimenti, profitti e reinvestimenti e meno rendono agli
investitori. A parità d’investimento, viene preferito quello che rende più
velocemente. Questi investimenti sono legati al tentativo di accelerare i
processi naturali ma non tutti possono subire simili trattamenti. Angus
riprende Marx quando sostiene come la produzione capitalistica sia in
opposizione alla produzione agricola. Il guadagno rapido e immediato non è
compatibile con i tempi dell’agricoltura. Per questo viene distrutto il suolo
anche sé ciò affamerà le future generazioni oppure l’industria del legno ha
disboscato l’Europa senza rimpiazzare le foreste scomparse perché la
silvicoltura è troppo poco profittevole. Ignorando la velocità dei cicli
naturali che si sono formati nel corso di millenni, vengono destabilizzati con
conseguenze nefaste come la trasformazione di terreni fertili in terreni
sterili, la fauna ittica viene distrutta, le forse sono tagliate perché il
capitalismo lavora a ritmi più veloci dei cicli naturali di riproduzione e
crescita. È quella che István Mészáros chiamava incurabile visione a breve
termine del sistema capitalistico generato da monopoli, dalle pressioni della
concorrenza e le pratiche che ne derivano e hanno portato al dominio del
profitto immediato.
Per risolvere tutti questi problemi prodotti dal capitalismo abbiamo
bisogno di costruire una società alternativa. Angus sostiene una rapida
riduzione delle emissioni climalteranti, obiettivo per cui è già troppo tardi.
Anche fermando le emissioni ora, non fermeremo il riscaldamento del pianeta che
deriva dalla quantità totale di gas accumulati in atmosfera. Inoltre
servirebbero anni per il dispiegamento degli effetti delle emissioni di oggi e
i processi che rimuovono la CO2 in eccesso impiegheranno secoli
per svolgere il loro lavoro. Siamo, infine, vicini all’aumento della
temperatura globale di 2°C, generando un cambiamento climatico estremamente
pericoloso. Bisogna realizzare una civiltà veramente ecologica che potrà
prendere forma solo nel socialismo, dove l’economia è organizzata per soddisfare i bisogni sociali della
popolazione.
Note
1.
Ian Angus, Anthropocene. Capitalismo fossile e
crisi del sistema Terra, Asterios, Trieste 2020, p.66 ↩︎
2.
Ivi, p.84 ↩︎
3.
Ivi, p.86 ↩︎
4.
Ivi, p.104 ↩︎
5.
Ivi, p.149 ↩︎
6.
Ivi, p.151 ↩︎
7.
Ivi, p.155 ↩︎
8.
Ivi, pp.158-159 ↩︎
9.
Ivi, pp.159-160 ↩︎
10.
Ivi, p.160 ↩︎
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