Nel parcheggio oltre il cancello di ferro della caserma di Bolzaneto, c’erano
sei blindati, un’ambulanza incastrata tra due defender, un’alfetta dei
carabinieri. I ragazzi venivano fatti scendere alla svelta, braccia
incrociate dietro la testa, qualcuno ammanettato con le fascette di plastica.
Quattro gradini e oltre la porta in vetro, cominciava la festa. Stavano in
piedi su due file, manganelli alzati, tirapugni, caschi in mano da usare come
clava. Era il benvenuto per i prigionieri, le prede catturate senza nemmeno
troppa fatica. La gragnuola di colpi cominciava subito, dai primi della fila,
in testa, in faccia, sulle costole. Per chi cadeva bloccando la “sfilata”
dell’orrore, calci in bocca, anfibi sulla testa, mani con i guanti neri
d’ordinanza che stringevano il collo tirando su di peso, lasciando senza più
fiato. Sangue, odore di urina, di paura, di morte. “Un due tre, Viva
Pinochet!”, “Viva il Duce, comunisti di merda, ora vi ammazziamo”. Non c’era il
tempo per neanche per gridare, e le urla comunque erano quelle dei militari,
eccitati, onnipotenti.
Sudati come maiali gli agenti godevano, erano in orgasmo collettivo, si caricavano
uno con l’altro. “Te lo passo, dai, al volo!”. Il ragazzetto con i rasta,
diciott’anni scarsi, aveva già gli occhi tumefatti, e non vedeva più nulla,
solo rosso che diventava nero. Sentiva in bocca il sapore ferroso del sangue
che gli colava dalle ferite in testa, dai dread impastati che qualcuno, da
dietro, aveva afferrato per lanciarlo in avanti. Il colpo gli arrivò tra la
bocca e il naso, al volo come promesso. Il tonfo secco gli aveva spaccato il
setto nasale, i denti dell’arcata superiore, lo zigomo già gonfio da prima.
“Dammi il cinque camerata!”.
Una volta superate le forche caudine dell’ingresso, si apriva il cancello
interno che dava accesso alle celle. Li spingevano al di là del varco, buttandoli
dentro come sacchi di immondizia. Dall’altra parte della porta, il sole
accecante del deserto ti veniva incontro con così tanta forza che non sapevi se
era per abbracciarti o per soffocarti. Il viaggio era stato di un
tempo indefinito, anche se quel pulsare delle ferite e degli ematomi, era come
avere un orologio interno.
Le botte al porto di Sfax, le fascette strette ai polsi tanto da farti
gonfiare le braccia, facevano ancora troppo male per pensare a cosa sarebbe
successo. Nel cassone del pick-up dei militari l’ordine era di guardare a
terra, di non provare ad alzare lo sguardo nemmeno per sbaglio. Le donne invece erano
distese. Le due incinte le avevano colpite alla pancia appena avevano capito il
loro stato. “Meglio ammazzarli prima che nascano” diceva sempre il capo
brigata. D’altronde per guadagnarsi quei gradi nella sgangherata Guardia
Nazionale Tunisina, ci aveva pur dovuto mettere del suo. Il pick up era nuovo
di pacca invece. Donato dall’Italia per deportare “le scimmie” come li chiamavano
al porto, dopo la cattura in mare. Dalla “Mare Jonio”, la nave del soccorso
civile, avevano visto tutto. I lacrimogeni sparati dalla motovedetta
direttamente in faccia ai naufraghi, che avevano fatto l’errore di chiedere
pietà, almeno per i bambini. Quindici morti, alcuni galleggiavano altri erano
già sul fondo del mare al largo di Sfax. Ai ripescaggi dei morti affogati ci
avrebbero pensato i pescatori, dalla spiaggia. Tanto poi finivano tutti nella
fossa comune dietro l’Istituto di Medicina Legale.
La Guardia Nazionale aveva ordini precisi: non devono arrivare in
Italia, altrimenti sarebbero saltati gli accordi e soprattutto, i soldi del
programma “cooperazione per l’Africa” non sarebbero stati accreditati. “Adesso
stai in piedi, faccia al muro, e se vuoi pisciare ti pisci addosso”. Mentre
urlava, l’agente dei Gom, il Gruppo Operativo Mobile della Penitenziaria,
istituito nel 1999 dall’allora ministro “comunista” Oliviero Diliberto,
spingeva con il manganello puntato sulla schiena. Scaraventando la donna incinta,
ferita ad un fianco e mezza svenuta, giù dal cassone, il militare era stato
chiaro “Voi adesso dovete morire qui”. Il deserto era diventato una grande
cella nascosta. Chi poteva vedere adesso? A chi si poteva chiedere aiuto?
“Mettiti a quattro zampe e fai cane, abbaia, puttana!, che qui non vede niente
nessuno, e non puoi chiedere aiuto a nessuno”. La ragazza piena di sangue in
faccia e sulle gambe tremava come una foglia. L’unico pensiero era stampato
fisso sui suoi occhi: il dolore, la morte.
A Bolzaneto non s’era mai vista una “festa” del genere. Non c’erano ordini
precisi, ma i grandi capi erano tutti passati in visita, e avevano dato il via
libera con grandi pacche sulle spalle ai loro sottoposti. Il medico stesso, il
dottor Toccafondi, aveva appeso il camice bianco all’attaccapanni. “Datemi una
mimetica, che non voglio sporcarmi con il sangue di questi bastardi”. Ma la
sabbia del deserto, lì, oltre il cancello, confonde ogni traccia. È così
bollente che appena tocca la ferita, è come cauterizzarla. E quel caldo, quella
distesa di sole sconfinata, lavora instancabile per prenderti ogni goccia di
liquido che scorre nel tuo corpo. All’inizio stavano seduti, in cerchio,
vicini, mentre le guardie scaricavano gli ultimi. Poi, quando ancora la nuvola
di polvere della sgommata del pick up che se ne andava, li avvolgeva, alcuni
hanno cominciato a camminare.
“Là c’è la Libia”. Le donne ferite, e due mamme con i loro bambini piccoli
che avevano smesso di parlare, di piangere, di chiedere e solo respiravano, con
gli occhi chiusi, dicevano di no, che non ce la potevano fare. Sarebbero
diventate presto una macchia del deserto. Prima ti svuoti dei liquidi,
cominciano a uscire da ogni buco del tuo corpo senza che tu possa fermarli.
Assomiglia al mare, a quando anneghi, ma è l’esatto contrario. Mentre affondi
nell’acqua e vai giù, il liquido vuole entrare, e lo fa mano a mano che scendi,
da ogni buco del tuo corpo. Mentre muori nel deserto invece tutto vuole uscire,
abbandonare quella situazione. Si crea una macchia attorno a te, e piano piano
la sabbia la inghiotte. Poi tocca alla tua carne, ai bulbi oculari, alle ossa.
La sabbia adesso sei anche tu. Come Fati, come Marie.
“Avanti, zecca di merda, canta faccetta nera”.
Bolzaneto, e il deserto. Loro uguali, nel tempo. Noi fratelli tutti.
Nessun commento:
Posta un commento