“Il caldo, il
puzzo di orina e la voglia di farla finita”. Lettera dall’inferno
La lettera dei detenuti del carcere di Brescia-Canton
Mombello restituisce in tutta la sua drammaticità le condizioni ai limiti
dell’umano in cui si vive nella maggior parte dei penitenziari italiani. I
numeri sono spietati: a metà 2024 siamo già a 45 suicidi. Un macabro record
assoluto, se confrontato con lo stesso periodo degli anni precedenti. Il
sovraffollamento comincia ad avvicinarsi ai livelli della sentenza Torreggiani
della Cedu. In Italia, secondo il Dap, al 31 maggio ci sono 61.547 reclusi, 1.381
in più rispetto a inizio anno (+ 2,3%).
a cura di Damiano Aliprandi da il dubbio
Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti
addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso,
anch’essi di sudore come i miei panni e le nostre membra. Si boccheggia, in
cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata
doccia, evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo.
L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi
tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di
plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli. Devo andare in bagno,
ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni
ha il mio stesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire
che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre
dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo
in gomma piuma. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e
urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato,
impietrito, attonito. Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e
canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio
di morire. La sua colpa è quella d’aver commesso un grave reato: bancarotta
fraudolenta.
I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di
lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L’hanno circuito, e lui,
e qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell’anima,
ma in fondo questo non è un nostro problema. II nostro problema sono gli odori.
Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando
qualcosa d’incomprensibile nella sua lingua. Probabilmente vuole mettergli le
mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, e lo stress, il caldo, gli odori
insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce
a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana. È stanco
arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti. Qualcuno si alza per ragionarci, per
calmarlo, ma subito Faria s’infiamma, cominciano a volare parole grosse e i
primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi.
Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre
questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi. 15 e un solo bagno, un
vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro e la
condizione migliore, una festa, per noi, forse un po’ meno. Questa combinazione
è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di
brutto può conseguirne. Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con
sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente,
e d’inverno, e maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno,
cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci
nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni?
In fondo pero, è notevolmente migliore della sbobba
che ci servono dal carrello. In quindici è pressoché impossibile permanere in
piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare,
quindi facciamo a turno. Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e
altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila. Ben
pensandoci pero, più che mancanza d’intimità, non stiamo forse parlando di una
vera e propria violenza? Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente,
proprio in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Di persone non auto
sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle
malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto
sopra, a malattie senili. Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo,
o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro. E
cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono
assistere, dagli Agenti per la sicurezza al personale sanitario, e che dire di
quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per
meritarlo?
Tutte persone incrinate, inevitabilmente,
irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non.
Elevati sono i suicidi in carcere, 45 in soli cinque mesi e mezzo dall’inizio
dell’anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma e quello che viviamo qui che
porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono
sicuramente troppe. I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una
mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso
l’anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio. È aberrante.
Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la
disumanità, definite di tortura dall’Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben
spiegato. La domanda giusta da porsi è: come può funzionare il reinserimento?
La così chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati?
Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazi. Sappiamo che
alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto
diverso. Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né
impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero
è ahinoi terribile. Sì certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno
commesso reati, e altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di
umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati?
È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre
rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone
detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro
umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. La
violenza fatta a quell’anziano prima citato, non è simile a compiere un reato,
è uno dei tanti, è vero, ma quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e
propri reati, trattare le persone in questo modo, e non è forse vero che le
condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al
suicidio?
Pensiamo sia non edificante, ma umanamente avvilente
per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è
messo al collo ponendo fine alla propria esistenza. Tutti possono sbagliare, ma
il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non
pensiamo che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi!
Proprio per questo possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni.
Signorie Vostre, voi ci rappresentate, indifferentemente dall’appartenenza
politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese,
l’Italia. Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro
fiore all’occhiello. In Europa ci rimproverano (2006- 2013) per il nostro
sistema carcerario: perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci
vive per immaginare possibili soluzioni? Questo non vuol dire scendere a patti
con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per
riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui
cominciare. Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello,
il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perché non cominciare da
qui? Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro Paese venisse
visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario,
oltre a tutto quello che di bello in Italia già c’è. Leggendo i giornali
abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di
liberazione anticipata come un fallimento dello Stato. Noi ci chiediamo: perché
concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone “meritevoli”
sarebbe un fallimento? Abbiamo visto che non è facile essere meritevoli,
sappiamo che solo chi ha fornito prova di partecipazione a un percorso
rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato
come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete. Quindi, davvero
sarebbe un fallimento?
Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di
un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c’è,
e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi
cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono
esclusi. Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni
nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche ai suoi
operatori. Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale,
passando da quello sanitario, dell’area educativa sino agli Agenti che con un
giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare? Così come
i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori
sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa. Tutti
quanti sono messi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma
la loro. Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri
errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per
tutti, poiché siamo davvero tanti. Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia,
desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta
di migliorarci come persone. E a cosa servirebbero i giorni aggiunti di
liberazione anticipata, se non a migliorare questo sistema? Con la concessione
di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli
operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del
sovraffollamento, ma s’incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza
ai meritevoli.
I
detenuti della Casa Circondariale “Nerio Fischione” Di Canton Mombello, Brescia
Cosa sappiamo sulla rivolta nel
carcere di Trieste
Giovedì 11 luglio in una parte della casa circondariale “Ernesto Mari”
di Trieste è scoppiata una rivolta repressa dalle forze dell’ordine, sembra
anche con l’uso di gas lacrimogeni, per cui si è arrivati alla chiusura per
alcune ore dell’accesso all’adiacente via del Coroneo.
da Monitor
La
rivolta sarebbe scaturita da una contestazione disciplinare che il direttore ha
fatto insieme a un agente. Dopo la contestazione il detenuto, molto giovane, di
origine straniera, sarebbe tornato in sezione molto agitato sostenendo di avere
ricevuto uno schiaffo. Durante la rivolta alcuni detenuti sono arrivati in
infermeria, sfondando i cancelli. Il giorno dopo il magistrato di sorveglianza
è entrato e ha sentito i “rivoltosi” (che saranno trasferiti). Le loro
richieste erano soprattutto sulla riduzione dell’affollamento. La direzione del
carcere sostiene che non sia stato necessario usare la forza per sedare la
rivolta.
A
differenza delle carceri più recenti l’istituto triestino, risalente alla prima
metà del Novecento, è stato costruito nel centro della città, addirittura
attaccato all’edificio del tribunale locale. Diversi edifici residenziali si
affacciano sulle strade che circondano l’istituto e da lì in pochi minuti a
piedi si arriva alla stazione centrale. Durante le prime ore della rivolta le
forze dell’ordine hanno impedito l’avvicinamento al carcere, mentre intorno
alle 23 la sorveglianza è stata allentata ed è stato possibile transitare
almeno a piedi. Anche se a quel punto la situazione si era tranquillizzata,
rimanevano diverse ambulanze e automediche con il motore accesso, mentre agenti
della polizia penitenziaria facevano capannello davanti all’ingresso e nei
ristoranti ancora aperti dei dintorni, commentando quanto accaduto. Da alcune
finestre di una delle sezioni maschili ogni tanto si affacciavano pochi
reclusi. Nel frattempo, dalle finestre che danno sulle scale interne si vedeva
un certo viavai. Quando sembrava tutto finito una persona detenuta è stata
portata fuori in barella: sembrava sedata, ma una volta nell’ambulanza ha
iniziato a muoversi e poi ha alzato la testa. Poco dopo l’ambulanza è andata
via, accompagnata da due macchine della polizia penitenziaria.
Difficile
negare che ci si sia trovati di fronte a una situazione straordinaria. Il 12
luglio Antonio Poggiana, il direttore generale
dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi),
ha fatto diffondere un comunicato in cui si ringrazia tutto il personale per
aver “gestito correttamente una situazione potenzialmente molto rischiosa”.
Secondo l’azienda sanitaria la rivolta sarebbe stata portata sotto controllo
dopo una “mediazione” accettata dai detenuti. Leggendo il comunicato si
apprende anche che per fare fronte alla rivolta l’Asugi avrebbe attivato il Piano
di emergenza interna per il massiccio afflusso di feriti (indicato
nel comunicato con l’acronimo Peimaf), con dieci ambulanze e due automediche.
In un comunicato uscito lo stesso 11 luglio l’Azienda parlava di
“maxi-emergenza” e diceva di aver trasportato al pronto soccorso sette
pazienti: quattro con malori, uno con un’intossicazione da fumo e due per
problemi legati a delle cardiopatie. Venerdì 12 due persone risultavano ancora
ricoverate in medicina d’urgenza.
Nel
frattempo però una persona, il quarantottenne sloveno Zdenko
Ferjančič, è stata trovata morta in cella. Non faceva colloqui,
probabilmente non aveva famiglia in Italia. Aveva un reato di droga ma non era
in carico al Serd. Le notizie trapelate fino a questo momento parlano di
metadone sottratto dall’infermeria durante la rivolta, che avrebbe causato al detenuto
un’overdose. La presunta morte per overdose di metadone porta la mente alle
rivolte della primavera del 2020 e soprattutto alla strage del carcere di
Modena. È il caso di ricordare che il metadone è un oppioide
sintetico che viene usato nel trattamento delle dipendenze da alcuni tipi di
stupefacenti. Secondo la rilevazione di Antigone del 30 giugno
2024 nel carcere giuliano ci sarebbero cinquantadue persone tossicodipendenti,
ma mancherebbe una sezione apposita per loro.
Il carcere
diTrieste, composto da sette sezioni maschili e da una femminile, è
come tanti altri strutturalmente sovraffollato. A fronte di una capienza di 150
posti, il documento di Antigone parla di 257 persone presenti (25 donne e 232
uomini). Di queste, 164 sono straniere. Nello stesso testo si fa presente che
alcune celle sono infestate da cimici dei letti, mentre altre sono prive di
riscaldamento e acqua corrente. All’interno del carcere triestino 89 persone
farebbero uso di sedativi mentre 35 prenderebbero stabilizzanti dell’umore,
antipsicotici o antidepressivi. Nonostante ciò, non esisterebbe un servizio
psichiatrico quotidiano nella struttura, ma solo in base alle necessità degli
individui. Al momento, inoltre, secondo i dati diffusi da Antigone, solo tre
persone detenute possono uscire per lavorare all’esterno.
Poche
ore dopo la rivolta, Enrico Trevisi, vescovo di
Trieste dal 2 febbraio 2023, ha diffuso una nota in cui invita a tenere alta
l’attenzione sulle persone detenute. Trevisi fa notare che lo Stato, nel punire
chi ha infranto le leggi, a sua volta non rispetta la normativa sulla
detenzione visto che “il sovraffollamento […], l’inadeguatezza delle strutture
e l’impossibilità di sanificarle […] rendono le pene inumane. Il caldo con
strutture sovraffollate rende tutto ancora più esasperante”.
Nella
sua nota Trevisi si sofferma anche sul concetto di pena, sostenendo la
necessità di lavorare a delle alternative a quella detentiva. Forse è proprio
questo uno dei punti cruciali, in un momento in cui il numero di suicidi in
carcere continua ad aumentare e l’idea della privazione della libertà come
retribuzione per un torto arrecato alla società sembra sempre meno convincente.
Sarebbe il caso di riflettere anche sul concetto di rieducazione del condannato
sancito dalla Costituzione, ricordando che lo stesso testo non dà per scontata
l’esistenza, e quindi la necessità, del carcere.
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