Nel XIX secolo si fece strada negli Stati Uniti il concetto di “Destino manifesto” (in inglese Manifest destiny), una sorta di credo nella naturale superiorità di quella che allora veniva chiamata la “razza anglosassone”: espandersi era considerata una missione, per diffondere la loro forma di libertà e democrazia. Per i sostenitori del Destino manifesto l'espansione non era solo buona, ma anche ovvia (manifesta) e inevitabile (destino). Tutti concetti legati all'eccezionalismo americano e al nazionalismo romantico, e precursori dell’imperialismo americano e dell’americanismo. Oltre alle ovvie (anzi manifeste) riflessioni sul fatto che questo concetto sopravviva anche oggi, approfondiamone l’influsso nefasto, facciamo una visione d’insieme. Chiuderemo attenendoci al tema di questa rubrica: i Nativi Americani, che sono un ottimo esempio per analizzare la politica e la storia contemporanea. Disse Alexis de Tocqueville: “La storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie”.
Il Destino Manifesto
Vorrei dare un breve quadro geopolitico d’insieme.
Secondo lo storico William Earl Weeks, alla base del concetto del Destino
Manifesto c'erano tre principi fondamentali:
1)L’assunto della virtù morale unica degli Stati Uniti;
2)L'affermazione della sua missione di redimere il mondo attraverso la
diffusione della democrazia repubblicana e più in generale dello “stile di vita
americano”;
3)La fede nel destino della nazione, stabilito in modo divino, di riuscire
in questa missione.
Il Destino Manifesto, quando nacque, rimase fortemente divisivo in
politica, causando un conflitto costante per quanto riguarda in particolare la
schiavitù, ma fu associato anche al trattamento dei Nativi Americani. Il
concetto divenne uno dei temi principali della campagna elettorale durante le
elezioni presidenziali del 1844, dove il Partito Democratico vinse e la frase
“Destino Manifesto” fu coniata.
Lo storico Daniel Walker Howe riassume che “l'imperialismo americano non
rappresentò un consenso americano; provocò un aspro dissenso all'interno della
politica nazionale”. Lo storico Frederick Merk afferma anche che il destino
manifesto fu un concetto fortemente contestato all'interno della nazione.
L'autore Reginald Horsman ha scritto nel 1981 che questa visione sosteneva
anche che “le razze inferiori fossero destinate a uno status subordinato o
all'estinzione” e che veniva utilizzata per giustificare “la schiavitù dei neri
e l'espulsione e il possibile sterminio degli indiani”.
L'origine del primo punto, in seguito noto come eccezionalismo americano, è
stata spesso ricondotta all'eredità puritana dell'America, in particolare al
famoso sermone di John Winthrop “City upon a Hill” del 1630, in cui chiedeva
l'istituzione di una comunità virtuosa che sarebbe stata un esempio luminoso
per il Vecchio Mondo.
Henry Goulburn, uno dei negoziatori britannici a Gand, osservò, dopo aver
compreso la posizione americana sull'acquisizione delle terre degli Indiani:
“Fino a quando non sono arrivato qui, non avevo idea della determinazione
feroce che c'è nel cuore di ogni americano di estirpare gli Indiani e
appropriarsi del loro territorio”.
Nel 1859, Reuben Davis, membro della Camera dei Rappresentanti del
Mississippi, articolò una delle visioni più espansive del Destino Manifesto:
“Potremmo espanderci fino a includere il mondo intero. Messico, America
Centrale, Sud America, Cuba, le Isole delle Indie Occidentali, e persino
Inghilterra e Francia [potremmo] annetterci senza inconvenienti... permettendo
loro, con le loro legislature locali, di regolare gli affari locali a modo
loro. E questa, Signore, è la missione di questa Repubblica e il suo destino
finale”.
Quando il Presidente William McKinley sostenne l'annessione della
Repubblica delle Hawaii nel 1898, disse: “Abbiamo bisogno delle Hawaii quanto e
più della California. È un destino manifesto”. Albert J. Beveridge sostenne il
contrario nel suo discorso del 25 settembre 1900 all'Auditorium di Chicago.
Dichiarò che l'attuale desiderio di Cuba e degli altri territori acquisiti era
identico alle opinioni espresse da Washington, Jefferson e Marshall. Inoltre,
“la sovranità delle Stelle e delle Strisce non può essere altro che una
benedizione per qualsiasi popolo e per qualsiasi terra”.
La convinzione della missione americana di promuovere e difendere la
democrazia in tutto il mondo, esposta da Jefferson e dal suo “Impero della
Libertà”, e continuata da Lincoln, Wilson e George W. Bush (David, Charles
Philippe; Grondin, David, 2006, “Hegemony Or Empire?: The Redefinition of Us
Power Under George W. Bush”. Ashgate. pp. 129–130) continua ad avere
un'influenza sull'ideologia politica americana. Sotto il Presidente Theodore
Roosevelt, il ruolo degli Stati Uniti nel Nuovo Mondo fu definito, nel
Corollario Roosevelt alla Dottrina Monroe del 1904, come un “potere di polizia
internazionale” per garantire gli interessi americani nell'emisfero occidentale.
Il corollario di Roosevelt in realtà conteneva un esplicito rifiuto
dell'espansione territoriale.
In passato, il Destino Manifesto era visto come necessario per far
rispettare la Dottrina Monroe nell'emisfero occidentale, ma ora l'espansionismo
era stato sostituito dall'interventismo come valore centrale associato alla
Dottrina. Il “destino manifesto” viene talvolta utilizzato dai critici della
politica estera degli Stati Uniti per caratterizzare gli interventi in Medio
Oriente e altrove. In questo uso, il “destino manifesto” viene interpretato
come la causa sottostante a ciò che viene denunciato da alcuni come
“imperialismo americano”. I critici hanno condannato il Destino Manifesto come
ideologia usata per giustificare l'espropriazione e il genocidio contro le
popolazioni indigene.
Dottrina Monroe
La Dottrina Monroe e il “destino manifesto” formarono un
nesso di principi e ideologie strettamente correlati: lo storico Walter
McDougall definisce il Destino Manifesto un corollario della Dottrina Monroe
perché, mentre la Dottrina Monroe non specificava l'espansione, l'espansione
era necessaria per far rispettare la dottrina. La Dottrina Monroe è una
posizione di politica estera degli Stati Uniti che si oppone al colonialismo
europeo (ma non solo) nell'emisfero occidentale. Ritiene che qualsiasi
intervento negli affari politici delle Americhe da parte di potenze straniere
sia un atto potenzialmente ostile nei confronti degli Stati Uniti. La dottrina,
che pare ora allargata all’intero pianeta, è stata centrale per la grande
strategia americana nel XX secolo.
Il documento completo della Dottrina Monroe, redatto principalmente nel
1823 dal futuro Presidente e allora Segretario di Stato John Quincy Adams, è
lungo e articolato, ma la sua essenza è espressa in due passaggi chiave. Il
primo è la dichiarazione introduttiva, che afferma che il Nuovo Mondo non è più
soggetto alla colonizzazione da parte dei Paesi europei:
“L'occasione è stata ritenuta opportuna per affermare, come principio in
cui sono coinvolti i diritti e gli interessi degli Stati Uniti, che i continenti
americani (entrambi, quindi Nord e Sud America), per la condizione
libera e indipendente che hanno assunto e mantengono, d'ora in poi non devono
essere considerati come soggetti per una futura colonizzazione da parte di
alcuna potenza europea”.
Il secondo passaggio chiave, che contiene una dichiarazione più completa
della Dottrina, è rivolto alle “potenze alleate” dell'Europa; chiarisce che gli
Stati Uniti rimangono neutrali nei confronti delle colonie europee esistenti
nelle Americhe, ma si oppongono a “interposizioni che creerebbero nuove colonie
tra le repubbliche spagnole americane recentemente indipendenti”.
Fu solo a metà del XX secolo che la dottrina divenne una componente chiave
della grande strategia americana. (Sexton, Jay, 2023, “The Monroe Doctrine in
an Age of Global History”. Diplomatic History. 47 (5): 845–870).
Con l'inizio della Guerra Fredda nel 1945, gli Stati Uniti ritennero che
fosse più che necessario proteggere l'emisfero occidentale dall'influenza
sovietica. Nella Crisi dei Missili di Cuba del 1962, il Presidente John F.
Kennedy citò la Dottrina Monroe per giustificare il confronto degli Stati Uniti
con l'Unione Sovietica per l'installazione di missili balistici sovietici sul suolo
cubano.
Il Presidente Donald Trump ha lasciato intendere un potenziale uso della
dottrina nell'agosto 2017, quando ha menzionato la possibilità di un intervento
militare in Venezuela, dopo che il suo Direttore della CIA Mike Pompeo aveva
dichiarato che il deterioramento della nazione era il risultato
dell'interferenza di gruppi sostenuti dall'Iran e dalla Russia. Il 3 marzo
2019, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton ha invocato la
Dottrina Monroe per descrivere la politica dell'Amministrazione Trump nelle
Americhe, affermando: “In questa Amministrazione, non abbiamo paura di usare la
parola Dottrina Monroe... È stato l'obiettivo dei Presidenti americani, a
partire dal Presidente Ronald Reagan, di avere un emisfero completamente democratico”.
Gli storici hanno osservato che, sebbene la Dottrina contenesse l'impegno a
resistere ad un ulteriore colonialismo europeo nelle Americhe, essa ha, invece,
comportato implicazioni aggressive per la politica estera americana, dal
momento che non vi erano limitazioni alle azioni proprie degli Stati Uniti. Lo
storico Jay Sexton osserva che le tattiche utilizzate per attuare la Dottrina
erano modellate su quelle impiegate dalle potenze imperiali europee durante il
XVII e il XVIII secolo. Lo storico americano William Appleman Williams, vedendo
la Dottrina come una forma di imperialismo americano, l'ha descritta come una
forma di “anticolonialismo imperiale”. Noam Chomsky sostiene che, in pratica,
la Dottrina Monroe è stata utilizzata dal Governo degli Stati Uniti come una
dichiarazione di egemonia e un diritto di intervento unilaterale sulle
Americhe. Ma non solo.
Vediamo quindi che queste ideologie e dottrine coniate agli inizi
dell’Ottocento hanno continuato – e continueranno – a essere usate e a
influenzare tutto il panorama politico mondiale.
Sarebbe incredibilmente interessante a questo punto approfondire i concetti
di eccezionalismo americano e di americanismo, e magari fare un raffronto con
la Dottrina della scoperta, per altri aspetti. Accenno solo che
l'eccezionalismo americano è la convinzione che gli Stati Uniti siano
distintivi, unici o esemplari rispetto ad altre nazioni. I sostenitori di
questa idea sostengono che i valori, il sistema politico e lo sviluppo storico
degli Stati Uniti sono unici nella storia dell'umanità, spesso con
l'implicazione che sono destinati e hanno il diritto di svolgere un ruolo
distinto e positivo sulla scena mondiale. Ma veniamo ai Nativi Americani la cui
sopravvivenza, con queste premesse ideologiche, possiamo ben comprendere
come sia stata difficile.
Nativi americani
Il Destino Manifesto ebbe gravi conseguenze per i Nativi Americani, poiché
l'espansione continentale implicò implicitamente l'occupazione e l'annessione
della loro terra. Questo portò infine a scontri e guerre con diversi gruppi di
popoli nativi attraverso la loro rimozione (Indian Removal). La politica
nazionale prevedeva che gli Indiani si unissero alla società americana e
diventassero “civilizzati”, il che avrebbe significato niente più guerre con le
tribù vicine o raid contro i coloni bianchi o i viaggiatori, e un passaggio
dalla caccia all'agricoltura e all'allevamento. I sostenitori dei programmi di
civilizzazione ritenevano che il processo di colonizzazione delle tribù native
avrebbe ridotto notevolmente la quantità di terra necessaria ai Nativi,
rendendo disponibili più terreni per la costruzione di case e piantagioni e
allevamenti da parte degli americani bianchi.
Thomas Jefferson credeva che, sebbene gli indigeni d'America fossero
intellettualmente uguali ai bianchi, essi dovessero assimilarsi e vivere come i
bianchi o essere inevitabilmente messi da parte e “rimossi”, come poi fu fatto.
Secondo lo storico Jeffrey Ostler, una volta che l'assimilazione non fosse più
possibile, Jefferson avrebbe sostenuto lo sterminio degli indigeni. Secondo lo
studioso di legge e professore Robert J. Miller, Thomas Jefferson “comprese e
utilizzò la Dottrina del Destino manifesto nel corso della sua carriera
politica contro le tribù indiane”.
L'idea della “rimozione degli indiani” guadagnò trazione nel contesto
del destino manifesto e, con Jefferson come una delle principali voci politiche
sull'argomento, accumulò sostenitori che credevano che gli Indiani d'America
avrebbero fatto meglio ad allontanarsi dai coloni bianchi. Lo sforzo di
rimozione fu ulteriormente solidificato attraverso la politica di Andrew
Jackson, quando firmò l’Indian Removal Act nel 1830.
Come sappiamo, la rimozione dei Nativi a ovest del Mississippi non fu
sufficiente: i coloni premevano per nuove terre. La studiosa di Colville Dina
Gilo-Whitaker descrive come, durante il processo di rimozione e successivo
ampliamento a ovest, le promesse di tecnologie e di risorse abbondanti furono
fatte alle popolazioni indigene, mentre i coloni iniziarono effettivamente a
sbarrare i fiumi, a imporre ferrovie e a cercare risorse naturali e minerali
attraverso l'estrazione mineraria e lo scavo delle terre dei Nativi Americani.
Secondo gli storici Boyd Cothran e Ned Blackhawk, questo afflusso di
commercio, industrializzazione e sviluppo di corridoi di trasporto uccise il
bestiame circostante, causò danni ai corsi d'acqua e creò malesseri e malattie
per i Nativi che vivevano in quelle regioni. Lo storico Jeffery Ostler commenta
alcune delle teorie generali sul declino della popolazione nativa americana
dovuto a questi fattori ambientali. Egli mostra che, nel corso di questo
periodo, ci furono molte forze “di distruzione, tra cui la schiavitù, le
malattie, le privazioni materiali, la malnutrizione e lo stress sociale”.
In seguito all'allontanamento forzato di molti popoli indigeni, gli
americani credettero sempre più che i modi di vita dei Nativi sarebbero
scomparsi con l'espansione degli Stati Uniti. Come ha sostenuto lo storico
Reginald Horsman nel suo influente studio Race and Manifest Destiny, la
retorica razziale aumentò durante l'epoca del Destino Manifesto. Ad esempio,
questa idea si rifletteva nel lavoro di uno dei primi grandi storici americani,
Francis Parkman. Parkman scrisse che, dopo la sconfitta francese nella Guerra
franco-indiana, gli Indiani erano “destinati a sciogliersi e a scomparire di
fronte alle onde avanzanti del potere anglo-americano, che ora avanzava verso
ovest senza controllo e senza opposizione”.
Le politiche di rimozione degli indiani portarono all'attuale sistema di
riserve che assegnava i territori alle singole tribù. Secondo la studiosa Dina
Gilio-Whitaker, “i trattati crearono anche delle riserve che avrebbero
confinato i nativi in territori molto più piccoli di quelli a cui erano
abituati da millenni, diminuendo la loro capacità di nutrirsi”. Di conseguenza,
“il cambiamento di stile di vita dei popoli nativi nel XIX secolo ha permesso
alle malattie epidemiche di imperversare nelle loro comunità” e “il risultato
del cambiamento dei modelli di sussistenza e degli ambienti ha contribuito
all'esplosione di malattie legate alla dieta, come il diabete, le carenze
vitaminiche e minerali, la cirrosi, l'obesità, le malattie della cistifellea,
l'ipertensione e le malattie cardiache”.
Il concetto egoistico di destino manifesto, la convinzione che l'espansione
degli Stati Uniti fosse divinamente ordinata, giustificabile e inevitabile, fu
usato per razionalizzare l'allontanamento degli Indiani d'America dalle loro
terre d'origine. Gli americani dichiararono che era loro dovere, il loro
destino manifesto, che li obbligava a prendere, insediare e coltivare la terra.
Non sorprende che i sostenitori più attivi del destino manifesto e i fautori
dell'allontanamento degli indiani fossero coloro che praticavano la
speculazione fondiaria.
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